Laszlo Alexandru

 

ALESSANDRO MANZONI VISTO OGGI



            Vorrei presentarvi, in questo mio intervento, una piccola sintesi, che possa trasmettere alcune cose, brevemente, a tutti quanti. Comincerò con la biografia di Alessandro Manzoni. Lo scrittore nacque nel 1785 a Milano, in una famiglia nobile, dal conte Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia di un importante illuminista italiano, Cesare Beccaria. Qualcosa di questa doppia origine si ritrovò nel futuro autore: il suo aspetto nobile, ma anche i tratti illuministici del pensiero e della creazione. I genitori si separarono in breve tempo, anzi corre voce – però rimanga tra noi! – che l’anziano conte non fosse proprio il padre del bambino, ma solo il marito della madre. Il giovane fece i suoi studi in diversi collegi religiosi, privo dell’affetto di una famiglia riunita. Sua madre si stabilì a Parigi e diventò la compagna del conte Carlo Imbonati, un nome importante, perché fu ricordato più tardi nella creazione di Manzoni. Nel 1805 arrivò anche Alessandro a Parigi. Qui conobbe l’ambiente culturale romantico francese. Si impadronì dei più recenti valori culturali europei, che bollivano nella pentola parigina. Nel 1808 visse una storia d’amore, conclusa con un matrimonio, con Enrichetta Blondel, che gli regalò dieci figli. Fu un padre prolifico. Nel 1810 intervenne un momento molto importante nella sua biografia spirituale, la conversione religiosa. Manzoni era piuttosto un giovane spensierato, però davanti a questo bivio, appena uscito dall’adolescenza, si confrontò con una forte crisi religiosa e passò al cattolicesimo, insieme alla moglie e perfino insieme alla madre, che egli attirò per la nuova strada della fede. Nel periodo 1810-1833, quindi in ventitrè anni, morì la maggior parte dei suoi figli, e nel ‘33 anche sua moglie perse la vita. Egli ebbe un’esperienza sentimentale estremamente dolorosa e agitata, e questo aspetto si ritrovò nei suoi scritti.

Nel 1837 si risposò per breve tempo. Scomparve anche la seconda moglie. Venne eletto nel 1848 al parlamento di Piemonte, ma rifiutò l’incarico, perché faceva una vita piuttosto sobria, forse anche per le sue tragedie personali. Rifiutò il militantismo pubblico. Quello che intendeva esprimere, sulla storia o sulla politica che stava osservando, lo diceva per mezzo dei suoi scritti. Nel 1860 venne nominato senatore del Regno d’Italia.

            Visto che abbiamo parlato del lato sociale e storico dell’esistenza dello scrittore, ricordiamo ugualmente che ci troviamo nel Risorgimento, il periodo che prepara e compie l’unità dello Stato italiano. Gli intellettuali si impegnano nella politica. La situazione assomiglia alla rivoluzione del “quarantotto” delle nostre parti. Non per caso, le situazioni storiche, quella romena e quella italiana, andarono avanti tante volte in parallelo. Come Kogălniceanu o altri intellettuali romeni di quei tempi furono coinvolti nelle circostanze politiche e storiche, spinti dagli ideali patriottici, ugualmente fece anche Manzoni, ma per mezzo dei suoi scritti. Egli acquistò una fama indiscutibile, fu riconosciuto da tutti, ma senza frequentare per forza la società. Fu una personalità piuttosto discreta e venerata. Morì sempre a Milano, nel 1873, in età avanzata. La sua origine milanese influì in modo decisivo anche sulla sua creazione: i milanesi mi sembrano più sobri, formalisti e riservati.

            Per quanto riguarda la sua opera, vorrei ricordare brevemente le direzioni in cui si manifestò. Alessandro Manzoni per prima scrisse delle poesie. In morte di Carlo Imbonati fu un poema di giovinezza, quando l’adolescente rimase impressionato dalla morte del compagno della madre. Inni Sacri fu un ciclo di cinque poesie religiose, stese dopo la sua conversione. Marzo 1821 fu un’ode storica. L’autore, affascinato dalla figura di Napoleone, gli dedicò un inno, il 5 Maggio, quando apprese della sua morte. Di seguito svolse una notevole attività di creazione teatrale, materializzata in due tragedie storiche: Il conte di Carmagnola e Adelchi. Troviamo anche alcuni suoi scritti teorici, ugualmente da ricordare: Osservazioni sulla morale cattolica, nel 1819 (il periodo della conversione religiosa) e due lettere aperte, con valore di manifesto, di scritti programmatici sulle regole di creazione nella nuova corrente culturale: Lettre à M. Chauvet (1823) e Lettera sul Romanticismo (1823).

Veniamo adesso al suo capolavoro, il romanzo I promessi sposi, che ebbe tre varianti successive. Fu ripreso e stilizzato tra gli anni 1821 e 1842. Ci fu una prima versione, Fermo e Lucia, di cui l’autore rimase scontento e che riscrisse in seconda, e poi in terza stesura. Qual era la differenza? Perché aveva sentito Manzoni il bisogno di rifare il romanzo? Lo scrittore non era contento di alcune soluzioni estetiche, ma soprattutto per quello che riguardava la lingua usata. Si trattava di un italiano del Nord, con diversi neologismi nonché elementi locali. Ci voleva, in quel contesto rivoluzionario, risorgimentale, che ho ricordato, un’opera di sintesi. A quei tempi non c’era la televisione, per annunciare attraverso il Telegiornale alla gente che doveva venire in piazza, perché c’era la rivoluzione. Ci mancava una fonte attendibile, soprattutto culturale, che “collegasse”, che potesse omogeneizzare l’Italia, un paese piuttosto lungo che non largo, geograficamente parlando, con grandi differenze linguistiche, temperamentali e specialmente dialettali, tra il Nord, il Centro e il Sud. Per preparare – anche nel campo delle mentalità, della spiritualità – quella unità politica nazionale che si preannunciava, Manzoni ebbe l’impulso di creare un capolavoro letterario, che fosse letto da tutti. Si trattava anche di un romanzo di avventure, con grandi conflitti, con la suspense. Ma tutto si doveva ritrovare in una lingua letteraria, accessibile alla gente. L’autore ci aveva prima incluso numerose particolarità del Nord. Però ci voleva una soluzione intermediaria, più adatta. Quindi Manzoni si stabilì per un tempo più vicino al centro del Paese. Firenze era la culla dell’espressione letteraria, dove si erano affermati i tre grandi fondatori, Dante, Petrarca e Boccaccio, che praticamente avevano formato l’italiano artistico. Manzoni si trasferì a Firenze, ci rimase per un anno, imparò di nuovo l’italiano dai fiorentini e riscrisse il suo libro, appunto per includerci la scioltezza estetica tanto necessaria per quei momenti storici. Quindi con i I promessi sposi abbiamo un documento non soltanto letterario, ma anche politico e storico, di una grande importanza sentimentale per gli italiani.

            Entriamo adesso nella succinta rievocazione dei personaggi e delle situazioni. I personaggi sono costruiti in un modo abbastanza prevedibile, cioè in antitesi. Ce ne sono alcuni positivi e altri negativi. Abbiamo, da una parte, Renzo e Lucia. Sono due giovani tessitori, lavoratori, persone semplici, che non desiderano altro che sposarsi. Accanto a loro sta la madre di Lucia, Agnese, un personaggio “d’appoggio”, dà loro dei consigli, li affianca in alcune avventure, ha certe piccole iniziative ecc. Da un’altra parte, c’è Don Abbondio, il parroco del villaggio. Anche lui ha una serva, Perpetua, che lo sostiene per equilibrare l’azione. Dove appare il problema? (In breve, per non infastidire coloro che conoscono ormai il romanzo.) I due giovani vogliono sposarsi, ma si oppone Don Rodrigo, un piccolo nobile locale, a cui piace Lucia. Lui fa una scommessa con un suo cugino che la conquisterà facilmente. Don Rodrigo invia i suoi bravi dal prete, con l’ordine esplicito che questo non celebri le nozze, che impedisca assolutamente l’unione tra i due. Il prete è una persona molto paurosa. Conosce il suo dovere, ma allo stesso tempo è terrorizzato da quello che gli potrebbe succedere dalla parte di Rodrigo. E allora non rifiuta apertamente i giovani, non gli dice di no, ma li rimanda sempre, li evita, scappa via. Renzo e Lucia, respinti da Don Abbondio, arrivano da Fra Cristoforo, che rappresenta la figura di “contrappeso” ecclesiastico. È un frate francescano molto devoto, generoso, con lo spirito di sacrificio, che li aiuta, li ripara addirittura, di notte, nel suo monastero. Offre loro diversi consigli, come devono fare per scappare via, perché sono in grande pericolo. È meglio che loro lascino quei posti maledetti. E poi l’azione si “scioglie”. Se prima eravamo nei dintorni del borgo di Lecco, sulla riva del lago di Como, nel Nord Italia, i due giovani si rifugiano in zone diverse: Renzo a Milano e Lucia a Monza, in un monastero.

            La storia va avanti, sullo stesso modello dei personaggi positivi e di quelli negativi. Ma la situazione particolare di una coppia di contadini semplici e onesti è ampliata, con l’apertura a una sempre più ampia galleria di persone e posti geografici. Lucia, scappata a Monza, nel monastero è aspettata da Gertrude, una monaca piena di personalità. Questa ci sembra all’inizio una presenza positiva, perché accoglie la ragazza, è impressionata dalla sua storia, quando viene a sapere che è stata vittima degli abbusi. A quel punto, però, l’autore blocca la storia principale e include un lungo racconto sulla situazione di Gertrude e su che cosa le era successo prima. Si tratta di una giovane nobile, il secondo genito di una notevole famiglia. È stata allontanata di casa, imbrogliata dai propri genitori, che non volevano dividere l’eredità del patrimonio tra i figli. È finita così al monastero. Ma non è che si trattasse di una sincera adesione religiosa, in questo caso, e Gertrude diventa una piccola persona astiosa, si trasforma in un’antipatica. Viene sedotta, nel monastero, commette peccato con un ammiratore occasionale e, per nascondere il suo misfatto, compie perfino un crimine. Uccide una delle compagne che hanno scoperto il suo segreto. Gertrude ci sembra quindi, all’inizio, un personaggio protettore, che riceve Lucia con affetto, ma che poi passa dalla parte opposta della barricata, perché effettivamente consegna la giovane ragazza ai suoi nemici. La monaca tradisce, con cinismo, l’ingenua fiducia della protagonista. Si producono in questo modo le grandi conversioni. Non abbiamo soltanto personaggi positivi e negativi, ma la stessa  persona che, all’inizio, sembrava positiva, diventa successivamente negativa.

            Abbiamo però anche la conversione inversa. Gertrude a chi consegna Lucia? A un nobile ancora più forte della regione, l’Innominato. Questo Innominato è un nobile più influente di Rodrigo. Il piccolo uomo forte di Lecco, quando ha visto che gli è sfuggita la vittima, ha chiesto l’aiuto a un infame ancora più influente. A quanto pare gli abusi venivano commessi, anche a quei tempi, in base alla “giurisdizione”. Rodrigo, volendo soddisfare il suo orgoglio e i suoi istinti, si rivolge quindi a questo Innominato, che è un nobile così importante della regione di Monza, che l’autore non ha, tanto per dire, nemmeno il coraggio, dopo duecent’anni, di scriverne il vero nome nel romanzo. (Una commovente manovra epica, senz’altro.) L’Innominato vuole dare una mano a Rodrigo, dunque è un personaggio negativo, che porta via Lucia a Gertrude. Però, colpo di scena! Quando Lucia arriva nel detestato castello del grande brigante, l’Innominato ha una crisi di coscienza, è sconvolto dalla purezza e dall’innocenza dell’adolescente e decide – anche grazie ad alcuni precedenti rimorsi – di cambiare la propria vita. Va a incontrare il cardinal Borromeo, una tra le figure più serene e luminose del romanzo. Si butta ai piedi del carismatico sacerdote, gli confessa i suoi peccati, mette tutta la sua ricchezza, il suo potere e i suoi soldati al servizio del Bene. Ecco il bastardo Innominato, che passa “dall’altra parte” e diventa positivo.

Le cose vanno avanti in questa doppia forma. Qui c’è anche un piccolo schematismo del romanzo. Certe azioni o situazioni dei Promessi sposi si possono ormai considerare come alquanto superate. Io non credo più, ai nostri giorni, che alcune persone siano soltanto buone, e invece le altre siano soltanto cattive. O che le grandi metamorfosi avvengano da un giorno all’altro, radicalmente. Ho piuttosto l’impressione che la verità si trovi, spesso, al centro. Manzoni ha schematizzato un po’ le cose. Certo che siamo nel periodo romantico, dell’Ottocento. Gli artisti romantici immaginavano dei conflitti estremi, per provocare le scintille, per impressionare il pubblico. Quindi avevano bisogno di tali situazioni contrastanti. Ma, appunto per questo motivo, l’opera è meno valida a volte nell’aspetto della verosimiglianza.

Invece il romanzo è importante per quel che riguarda la progressiva apertura dell’azione nello spazio. Come abbiamo visto, si parte da due giovani che si vogliono sposare. Ci troviamo a Lecco e nei suoi dintorni. Uno scappa via a Milano, e quindi abbiamo ampie descrizioni della città sorpresa nei momenti di una ribellione, quando la gente povera e affamata vuole uccidere i ricchi e prenderne via il pane, perché c’è grande penuria, o quando c’è una terribile epidemia di peste. Conosciamo anche Bergamo e la zona del Veneto, dove si sta rifugiando di seguito Renzo. Ma abbiamo anche le situazioni di Monza, ci viene descritta la vita al monastero, in un altro punto dell’Italia. Vediamo poi l’intera Lombardia, attraversata dall’esercito francese che arriva a cacciare via gli occupanti spagnoli. Gradualmente, da un capitolo all’alto, da un conflitto all’altro, le cose “si aprono”. Dalla banale situazione secondo la quale “un ragazzo amava una ragazza”, il panorama diventa sempre più grande e possiamo esaminare un secolo intero, una grande parte dell’Italia si presenta davanti ai nostri occhi.

            Non intendo parlarvi qui come a scuola, dove è importante fare sempre gli elogi: tutti gli scrittori sono grandi, tutte le opere sono geniali. Mi piacerebbe prendere in considerazione anche le parti un po’ più pesanti e meno valide dei Promessi sposi. Vi dicevo di questa disposizione sempre doppia dei personaggi e delle loro conversioni spettacolari. Una costruzione di questo tipo mi sembra alquanto discutibile. Allo stesso tempo, si deve ricordare un problema che riguarda la struttura del romanzo. L’autore fa dei salti a sorpresa, da un punto geografico all’altro, da un’azione all’altra, da un personaggio all’altro, rischiando di provocare delle confusioni: da Lecco a Milano, ma anche a Monza, ma poi a Bergamo ecc. Notiamo le sue impreviste e ampie parentesi, che interrompono la storia principale e ne indeboliscono l’omogeneità. Dopo la situazione dei due giovani innamorati e delle loro avventure a Lecco, seguiamo Lucia, che arriva al monastero. Ma qui l’autore, all’improvviso, interrompe l’azione centrale e, in decine di pagine, ci racconta la vita di Gertrude. Fa la stessa cosa quando l’azione arriva all’Innominato. Ci sono delle “protuberanze” che bloccano l’evoluzione del romanzo e infastidiscono il lettore. Manzoni è anche lo scrittore molto manierato, dal punto di vista stilistico, di una grande ampiezza lessicale. Quello che ci potrebbe dire in cinque parole, spesso ci presenta in una frase di venti parole. Questo alla fine può essere estenuante.

Ma non soltanto gli aspetti deboli si devono esprimere e conoscere. Conviene sottolineare anche i lati positivi. Cioè il fatto che si tratta di un romanzo storico. La situazione del Seicento costituisce per lo scrittore soltanto un pretesto per presentarci delle generali realtà umane, dei sentimenti, dei conflitti e una tensione etica. L’autore poggia il suo sguardo al destino della gente comune. A differenza di altri romanzi storici, che seguivano i passi di un re, di un principe o di un Papa che aveva influito sulla storia, Manzoni non è interessato a questi. (Infatti, ce n’è uno, il cardinal Borromeo, che realmente è vissuto a Milano.) Manzoni scopre un altro tipo di personaggio: l’uomo modesto, umile, che non ha lasciato le sue tracce culturali. Non la grande diva, che si è isolata dagli altri e ha influito sul destino delle collettività, ma la persona accanto a noi. Con questo, il romanziere anticipa, per esempio, un’importante direzione di ricerca del Novecento, la storia delle mentalità, che insiste nello stesso modo sui destini marginali e gli aspetti particolari della vita quotidiana.

Sarebbe interessante sottolineare un’altra tensione. Da un punto di vista, Manzoni è illuminista, anche se arriva, cronologicamente parlando, alla fine di questo movimento ideologico. Egli crede con insistenza nell’evoluzione, nel miglioramento dell’essere umano. Però Manzoni è, soprattutto, un romantico, anzi viene considerato uno tra i più notevoli romantici italiani, accanto a Leopardi. Come mai? L’autore è cosciente dei limiti della ragione. Gli eccessi di questa hanno portato alla Rivoluzione francese del 1789, con le stragi e i disastri che si sono prodotti. Ecco che la ragione, da sola, non basta, ci vuole anche altro. Che cosa? Ebbene, la fede! Quando noi, gli esseri umani, pensiamo o progettiamo il futuro, possiamo essere dei veri bastardi. Spesso i nostri progetti sono disonesti. Però c’è qualcuno, in alto, che si prende cura dell’evoluzione positiva del mondo, e questo qualcuno è Dio. Si sbagliano coloro che si immaginano che l’uomo sia l’unico padrone del suo destino. Qualcuno, nei cieli, ci fa soltanto credere di essere i padroni, per metterci alla prova, per spingere ciascuno di noi a far vedere la sua vera faccia, a dimostrarsi disgraziato o virtuoso.

Dio punirà i disgraziati, ci dice Manzoni, e ripagherà i virtuosi. Vediamo che man mano che il romanzo va avanti, i miserabili scompaiono. Gertrude muore, Don Rodrigo muore alla fine, malato di peste. Invece l’Innominato fa la sua conversione, passa accanto alle persone brave e si salva la vita, continua a fare i bei gesti di generosità. Uno dopo l’altro, i cattivi sono puniti da una mano invisibile, dall’alto, che tiene la bilancia. Non dobbiamo credere che questo equilibrio non ci sia e che noi possiamo fare proprio tutto. Al momento, sì. Godiamo del libero arbitrio. Ma a medio e a lungo termine, la bilancia si corregge e i cattivi sono puniti. Questo è, secondo me, uno degli insegnamenti etici riconfortanti e impressionanti del romanzo I promessi sposi. Quando gli esseri umani sono troppo piccoli e rischiano di farsi calpestare dagli abusi dei forti, devono continuare a sperare e a pregare. E la giustizia arriverà.

Certo che la giustizia non è una cosa spontanea: si è prodotto un misfatto e, al momento successivo, viene subito rimediato. Dio non agisce come una pallina da ping-pong. Egli ha progetti a lungo termine e, spesso, ci mette alla prova, con le ingiustizie e i soprusi che ci fa subire, per vedere se meritiamo poi la salvezza. Abbiamo visto che Alessandro Manzoni è un autore di grande fede, e i Promessi sposi è un romanzo cristiano. Possiamo considerare questo libro, nel suo insieme, come un’importante lezione di ottimismo e di dignità umana. Anche se adesso, in questo momento, sentiamo che ci sia stata fatta ingiustizia, che qualcuno ci abbia derubato, ci abbia mentito, o che il nostro destino sia stato deviato, non dobbiamo perdere la nostra speranza e la nostra fede. Quei giovani innocenti non hanno potuto sposarsi, sono stati costretti a scappare via, in esilio, sono stati obbligati ad assistere a una grande ribellione popolare, a sopportare i pericolosi capricci degli aristocratici, che fingevano soltanto di proteggerli, hanno visto numerose morti violente, hanno attraversato mezza Italia, si sono ritrovati in un lazzaretto tra i malati di peste, ugualmente innamorati come una volta, ma più ricchi nelle loro anime. Alla fine si sono comunque sposati, perché qualcuno ha voluto così: il Destino, che è la Provvidenza, che è la mano di Dio. C’è un equilibrio al mondo, voluto dal Signore, e dobbiamo mantenere la nostra fede.

Non come ultimo, il romanzo I promessi sposi rappresenta anche una meditazione sui valori della democrazia e del rispetto umano. Manzoni è uno degli artisti che ci insegna a non perdere la nostra speranza, perché la giustizia esiste e sta per essere compiuta. Il bene e il male non dipendono dalla posizione sociale o dalle effimere dignità di qualcuno, ma costituiscono strumenti fondamentali nella valutazione delle persone che ci stanno intorno.

Chiuderò con una citazione ricca di significato, che mi ha impressionato, tratta dai Promessi sposi, questo romanzo di riferimento della letteratura italiana. A un certo punto, dopo circa 400 pagine e alcuni anni pesanti che sono passati nella vita dei giovani che non si sono sposati all’inizio, perché il loro parroco non ha fatto il suo dovere, il cardinal Borromeo incontra don Abbondio e lo rimprovera. Perché non hai compiuto i tuoi obblighi? Il prete ammette: ho avuto paura. Potevo perdere la mia vita; mi è mancato il coraggio. Allora il cardinale gli rivolge queste parole, che rappresentano una riprensione, ma che offrono anche a tutti noi un importante insegnamento: “Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoperati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo”.

Il passo può sembrare barocco, forse un po’ confuso per le nostre orecchie di lettori del XXIo secolo. Ma lo possiamo trasporre più semplicemente, secondo il pensiero di adesso. Non poche volte noi, gente piccola, abbiamo l’impressione che il mondo vada storto: tutti rubano, tutti dicono le bugie. Io cosa faccio adesso? Dico anch’io le bugie, rubo anch’io, se il mondo funziona così. Ma arriva Manzoni e ci avverte: non dovete credere che il mondo vada così! Tu, quello piccolo, non puoi imporre a qualcuno che ti è superiore di essere onesto, di fare il suo dovere. Non hai questo potere! Non puoi chiedere il conto a qualcuno più forte di te. La società ha una chiara struttura gerarchica, ciascuno si ritrova al punto dove il destino, o diverse circostanze l’hanno collocato. Tu, dal basso, non hai la forza e non hai i mezzi per costringere un tuo “superiore” a fare il suo dovere. Invece puoi fare qualcos’altro. Dove tu hai il potere di agire, ti spetta anche l’obbligo di essere giusto! Perché, in quello spazio, non sono loro ad avere l’autorità. Dove c’è il tuo campo d’azione, devi compiere onestamente i tuoi obblighi, con tutto il tuo potere.

Secondo la mia opinione, questo sarebbe un messaggio fondamentale, che noi tutti dobbiamo prendere da Alessandro Manzoni. Abbiamo la serenità di superare alcuni aspetti, forse invecchiati, del romanzo I promessi sposi. E, da un’altra parte, arricchiamoci degli importanti pensieri filosofici, estetici e umani di questo grande scrittore europeo.

 

(Conferenza tenuta alla Biblioteca “Octavian Goga”

di Cluj-Napoca, 8 aprile 2010,

alla celebrazione di 225 anni dalla nascita di Alessandro Manzoni)