Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


«UN PERCORSO DI APPRENDIMENTO»

OTTAVO DIALOGO

4 luglio 2007



          O.P.: L’Inferno non è per niente piatto, un posto privo di volume, di profondità. È anche normale che sia così. Dovremmo parlare un po’ di questa spazialità infernale, come appare in Dante, come spunta dalla sua immaginazione, e che Virgilio, il rispettabile autore antico – presente anche in un famoso romanzo austriaco moderno, La Morte di Virgilio – percorre per caso. Ma ho l’impressione che il poeta latino si sia guadagnato un grande prestigio, in seguito al periplo per il mondo dell’oltre tomba, in cui ha fatto da guida a Dante. Insomma, della loro relazione parleremo più in là. Tracciamo un po’ questo spazio infernale dantesco.

          L.A.: Ho detto l’altra volta che Dante si propone e riesce a fare la sintesi tra un’immagine astratta del mondo dell’aldilà e un’immagine concreta, da rappresentare con precisione. Essa è stata raffigurata e dipinta e commentata diverse volte. Quello che si deve sottolineare è che, oltre alla rappresentazione schematica, della disposizione successiva dei cerchi, delle bolge e così via, abbiamo una immagine profondamente ancorata al Medioevo. L’autore italiano, da una parte, riprende la tradizione mitologica degli spazi dannati, ma da un’altra parte fa l’arredamento dell’Inferno secondo un’arhitettura tipicamente medievale.

          O.P.: Secondo te, quest’immagine che, noto con un certo buon umore, da medievalista, tu e probabilmente altri commentatori identificate con il Medioevo per eccellenza, c’entra con l’immagine di un carcere contemporaneo a Dante? Anche allora, ma soprattutto più tardi, l’Inquisizione era molto attiva e forse anche inventiva, per quel che riguardava le torture a cui si potevano sottomettere coloro che venivano arrestati e interrogati. Mi ricordo un libro che ho visto, ho sfogliato. È stato anche parzialmente ripreso, con le sue illustrazioni, nelle pagine della pubblicazione romena Magazin istoric. Un libro di istruzioni sulla tortura ai tempi di Maria Teresa, imperatrice dell’Austria, quindi molto più tardi, nel Settecento. Anche lì si rimaneva stupiti di quante cose terribili si potessero fare a un essere umano, per strappargli una dichiarazione che, in circostanze naturali, a suo agio, probabilmente non avrebbe fatto. Credi che la sua esperienza ufficiale, a Firenze, e altre situazioni abbiano determinato Dante a visitare tali posti, a mettersi al corrente di tutte le atrocità che si commettevano? Si ritrova forse alle basi di questo immaginario dantesco – per chiedertelo molto direttamente – un’esperienza personale, o abbiamo un modo malaticcio di fantasticare, come sembrava avere il nostro connazionale Dracula? Si tratta di una situazione patologica, o di un tentativo metodico, ispirato a certe realtà del tempo, che egli porta a culmine e fa costituire in uno spazio punitivo esemplare?

          L.A.: Buona domanda. L’ipotesi è stata già immaginata da un autore italiano contemporaneo, Giulio Leoni. Egli ha fatto pubblicare alcuni romanzi polizieschi, in cui il detective, il personaggio principale, è lo stesso Dante, nelle vesti del priore a Firenze. I crimini si commettono nel Medioevo. Il modello del romanzo è, fino a un certo punto, preso da Umberto Eco e dal suo Nome della rosa. Fatto sta che Dante, spinto a sciogliere le vicende complicate di alcuni crimini, penetra nei segreti e nelle celle del suo tempo, entra in contatto con l’Inquisizione e con i mezzi di tortura…

          O.P.: …con la parte oscura…

          L.A.: Sì. Però si tratta di un’altra strada immaginaria, che si allontana dall’autore della Divina Commedia in direzioni diverse. Noi cerchiamo di venire verso lui e verso il suo capolavoro, con il nostro discorso. Devo subito aggiungere che Dante non soltanto progetta nell’Inferno alcune torture, ma le colloca in certi contesti architetturali. E questi ambienti hanno le caratteristiche medievali. Ecco, per esempio, che si devono attraversare alcuni ponti, una grande prova per i viaggiatori del tempo. O si entra in una città, che rifiuta l’accesso ai due visitatori. Ci sono fiumi che vengono attraversati. Precisiamo che l’Inferno è percorso da tre acque scorrenti: l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte.

          O.P.: Alcune di esse non vengono dallo spirito inventivo di Dante.

          L.A.: Sì, sono riprese dalla mitologia antica, però adattate secondo le leggi della fisica. Virgilio spiega a Dante, in un certo contesto, che i fiumi scorrono all’in giù, com’è anche naturale, e si ritrovano alle basi dell’Inferno, nel lago chiamato Cocito. Questo è gelato in seguito ai movimenti delle ali di Lucifero. Ci ricordiamo che il supremo diavolo, caduto dai cieli, si era bloccato al centro della Terra. Egli è un’apparizione orrenda, con una sola testa e tre facce, di tre colori diversi, vermiglio, giallastro e nero, ciascuno con la sua simbolistica. Lucifero divora tra i denti i tre grandi peccatori: Giuda, che ha tradito Gesù, rispettivamente Bruto e Cassio, che hanno tradito Cesare. I rovinatori della Chiesa e i rovinatori dell’Impero. Lucifero ha delle enormi ali da pipistrello, che agita all’infinito. Provoca un vento tremendo, che fa ghiacciare le acque dei fiumi che finiscono nel Cocito. Ebbene, i traditori stanno sommersi nel lago gelato. Invece i non battezzati stanno in un castello, ai margini di una radura luminosa, vicino a un fuoco. Gli assassini, per esempio, sono affondati in un lago di sangue. C’è ugualmente la Città di Dite, e dietro alle sue mura sono ripiegati gli eretici, stesi nelle tombe di fuoco. Ecco altrettanti punti concreti di riferimento, che possono «agganciare» la nostra mente e la nostra fantasia. Non è casuale la strategia di Dante, quella di darci un racconto molto preciso e un’ambientazione estremamente concreta, secondo lo spirito del tempo.

          O.P.: Ritiene la mia attenzione, per un attimo, lungo questa conversazione, la collocazione di Lucifero. Se dici, come Dante, che Lucifero è al centro della Terra, questo significa conferire al nostro pianeta una sostanza luciferica e metterla in opposizione alla sfera celeste, dove si trova per eccellenza la Divinità, poiché il cielo è il simbolo del bene, della verità assoluta, di tutto quello che ci desideriamo in quanto valore morale positivo. Abbiamo qui una specie di dualismo, credi? Un bogomilismo? La Terra appartiene al Diavolo, che troneggia sulla vita terrestre, nel suo centro, e il Cielo si riserva il diritto di decidere l’eternità? Sia l’uno che l’altra partecipano ugualmente allo svolgimento equilibrato del destino umano, nella storia e nello spazio non storico?

          L.A.: Ci furono infatti dei movimenti eretici medievali, penso ai catari, agli albigesi o, nello spazio est-europeo, al bogomilismo ricordato da te. Tutti insistevano su queast’idea del dualismo. Perfino Lucian Blaga, nel nostro Novecento, esprime simili tardi echi eretici nelle sue poesie:

                   Pesemne – învrăjbiţi

                   de-o veşnicie Dumnezeu şi cu Satana

                   au înţeles că e mai mare fiecare

                   dacă-şi întind de pace mîna. Şi s-au împăcat

                   în mine: împreună picuratu-mi-au în suflet

                   credinţa şi iubirea şi-ndoiala şi minciuna.

(Probabilmente – nemici / da sempre Dio e Satana / capirono che ciascuno è più grande / se si tendono la mano a fare la pace. E si riconciliarono / in me: insieme gocciolarono nel mio animo / e fede e amore e dubbio e bugia.) Ma questo non vale per Dante. Il poeta italiano non esprime un doppio atteggiamento di tale genere. Ricordiamoci che Lucifero non è il padrone della Terra. Egli è esiliato qui. Si trova nel posto più basso, da condannato. Più scendiamo nell’Inferno, e più aspro è il castigo. Al fondo del luogo di dannazione si trova lo spazio di tortura per Lucifero.

          O.P.: Ma non è lui quello più punito! Egli è lo stesso agente della punizione!

          L.A.: Egli è punito da Dio. Fu cacciato via, all’opposta estremità dell’Universo. Ma mentre è punito, è anche agente della punizione. C’è un doppio rapporto…

          O.P.: È un carnefice. Ma è anche un giudice?

          L.A.: No. Il giudice è Minosse, un’altra celebre figura mutuata dalla mitologia antica e collocata all’ingresso nell’Inferno. Dopo l’ingresso nello spazio dannato, Dante trova subito nel II cerchio Minosse, una terribile apparizione. Appena il peccatore arriva davanti a lui e gli si confessa interamente, il diavolo lo guarda, esamina i peccati, e poi gira la propria coda intorno al corpo. Il numero di giri della coda sarà quello del cerchio infernale dove finirà il peccatore.

          O.P.: Osservo che ritornano tantissimi elementi ripresi dalle letture sull’Antichità greco-latina: l’Acheronte, lo Stige, Minosse, e tutto questo arredamento. La cosa più interessante – anche a proposito della nostra discussione se Dante è rinascimentale o soltanto medievale – è che le figure della mitologia antica, gli spazi descritti nella Divina Commedia non costituiscono dei modelli, così come li ritroviamo nei sogni, seguiti dagli esercizi pratici, dei rinascimentali. Essi non sono proposti come modello ideale, che si dovrebbe seguire, un canone artistico, qualcosa da imitare il meglio possibile. Come sappiamo, l’eccellenza nel Rinascimento era immaginata, idealmente parlando, in modo riproduttivo. L’ingegno capace di ripetere le creazioni di Prassitele o di qualche altro grande artista. Ma Dante fa qui una lettura strana, su cui ho sentito il bisogno di invitarti a insistere. Da una parte, egli dà nuova vita a queste figure, offrendogli delle parti infernali. Risuscita quindi un antico deposito, concedendogli nuovi attributi. Questo si poteva ritrovare anche nelle chiese o nei monasteri gotici, che spesso nella loro struttura includevano ex voto romani, o vi si vedevano addirittura le statue pagane, ridistribuite e reinterpretate. Da un’altra parte, è interessante che Dante abbia in mente quest’idea. Egli considera che si tratti di preziosi vestigi, che si devono salvare, si possono includere per farli giocare nuove parti, nella sua opera e visione per eccellenza cristiana.

          L.A.: È vero. Anche per questo, Dante è soprattutto medievale, prima di qualsiasi altro. Forse aveva anche riflessi rinascimentali. Ma egli è, essenzialmente, un artista medievale. Vorrei ritornare al dualismo su cui ti interrogavi: se per caso il Cielo appartenga a Dio, e invece la Terra a Lucifero. Ripeto, il diavolo è esiliato nelle viscere della terra. Egli è torturato in quei posti, non ha l’aspetto del «proprietario». Tant’è vero che rappresenta un’apparizione molto spaventosa e impressionante. Ugualmente, però, non è stato Dante a inventare quest’immagine, ma ormai la Bibbia colloca tutti noi sotto il segno del peccato originale. In seguito all’infrazione compiuta dai primi umani, Adamo ed Eva, noi tutti nasciamo peccatori, anche nonostante la nostra volontà. Questa posizione di Lucifero nelle profondità della terra, cioè di quell’universo che funziona sotto il segno del peccato originale, può avere un significato e una spiegazione logica. Come tutto quello che Dante inventa, è frutto della logica.

          O.P.: Allora ho un’altra perplessità. Abbiamo visto la tipologia dei peccatori, proposta da Dante. Supponiamo che ci sia una persona allo stesso tempo ignava, non battezzata, golosa, lussuriosa, avara, quindi che riunisca l’intera tipologia, dove sarebbe il suo posto? Forse così basso da stare accanto a Lucifero, no? Cioè esaurisce tutta la scala, se chiude in se stessa i peccati fondamentali.

          L.A.: Lungo gli ultimi 15 anni, in cui ho sempre insegnato la Divina Commedia, ho incontrato diverse situazioni, nei miei dibattiti con gli studenti liceali, e una domanda che mi è stata sempre fatta era questa. Che cosa succede a un uomo che totalizza un’ampia varietà di peccati? Dobbiamo tenere presente lo specifico e la finalità che Dante si propone di raggiungere. Egli vuole offrire un’immagine essenzializzata, a mo’ d’esempio, didascalica, sui peccati e i peccatori. Mentre esamina le infrazioni, egli vuole esortarci a evitare l’Inferno, a ridurre la nostra quota di infamia. Visto che si tratta di un così grande numero di personaggi, di un così impressionante insieme di eventi epici, situazioni storiche e teorie dottrinarie presentate, lo scrittore non ha la possibilità strategica di entrare nei dettagli e nelle sfumature. La prima direzione in cui sta operando è questa, della contrazione e della generalizzazione. Ogni peccatore si include in un peccato fundamentale.

          O.P.: Si tratta non del fatto che il peccatore abbia un’unica colpa, ma della preponderanza di un peccato?

          L.A.: Certo. Il peccato diventa sostanziale nel suo titolare. Perché altrimenti all’autore sarebbe mancata strategicamente la possibilità di trattare la pluralità delle situazioni.

          O.P.: Il nostro scrittore parla del Limbo, delle bolge, ha una terminologia specialistica, quando parla dell’Inferno. Che cos’è il Limbo?

          L.A.: Il limbo è uno spazio dantesco tipico, ripreso così, nel suo nome, anche in romeno. È un luogo «privilegiato», è la zona priva di tortura fisica nell’Inferno…

          O.P.: Un’oasi? Un sentiero? Una penisola?...

          L.A.: È uno spiazzo, una piccola radura in un mare di buio. Al centro si trova un grandissimo fuoco, intorno al quale stanno i cinque grandi poeti del mondo antico: Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano. Qual è il loro problema? Non fecero altri peccati tranne quello di non essere battezzati, non furono credenti. Quindi non sono fisicamente torturati, ma sono spiritualmente tormentati dalla nostalgia di conoscere Dio. «Per tai difetti, non per altro rio, / semo perduti, e sol di tanto offesi / che sanza speme vivemo in disio» (Inf., IV, 40-42). Staranno là per l’eternità e diranno i loro racconti. È come una specie di seminario, elevato e molto impressionante, dei grandi del mondo antico.

          O.P.: Solo che succede all’Inferno.

          L.A.: Sì. Però abbiamo un momento di sospensione delle torture. Paradossalmente, perché è un posto dannato, ma è ugualmente un posto privo di sofferenza fisica.

          O.P.: Perché questo ossimoro? Non avrà avuto un’altra soluzione per immaginare una simile situazione? Colpevole-innocente…

          L.A.: Sì, è un po’ così. Secondo la dottrina cristiana, nessuno tra i non battezzati ha diritto alla salvezza. Subito dopo vediamo il «nobile castello», protetto da sette cerchi di mura alte e un piccolo bel fiume («Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello»). Qui troviamo le grandi personalità della filosofia antica, della scienza, della medicina… Cioè Aristotele, Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone, Cicerone, Seneca, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Averroè, ecc. Nel limbo ci sono le grandi stelle della medicina, della filosofia, della letteratura, delle scienze…

          O.P.: Interessante che ci siano anche gli Arabi.

          L.A.: Sì.

          O.P.: Ma gli Arabi che furono importanti per lo sviluppo della filosofia medievale latina. E che ebbero il merito di aver salvato, per gli europei, gli insegnamenti di Aristotele, Platone ecc.

          L.A.: Era questo il dilemma. Da una parte, loro non avevano il diritto alla salvezza, secondo la fede medievale, cristiana. Da un’altra parte, si trattava di personalità troppo brillanti per essere umiliate, in un luogo oscuro e miserabile dell’Inferno. La loro luce intellettuale viene espressa nel glorioso castello, dove si ritrovano e si raccontano le loro storie.

          O.P.: Capisco che Dante, collocando tutti questi nel Limbo, in un certo modo li esilia per sempre nello spazio metafisico. Non concede loro di sfuggire alla dimensione infernale. È un giudice comunque severo, a causa del suo cristianesimo. Non li vede nemmeno a poter superare la loro condizione, se mai, nella dimensione atemporale. Le cose vanno avanti così all’infinito. Loro rimangono per sempre nel Limbo. Il loro momento infatti non è un momento, in quel contesto.

          L.A.: Un momento bloccato.

          O.P.: Un eterno giro nel vuoto.

          L.A.: Sì. Dobbiamo fare una distinzione. Dal punto di vista sentimentale, Dante ha nell’Inferno degli scatti estremamente emozionanti e impressionanti. È sopraffatto dalla personalità di questi filosofi e scienziati. È ugualmente addolorato e sconvolto dalle sofferenze di Francesca, nel canto V. Mostra una calorosa riconoscenza nei confronti di Brunetto Latini, il suo ex-maestro, nel canto XV. Sta vicino a tutti questi con il cuore. Abbraccia alcuni, addirittura, per riconoscenza. Ma li giudica con la sua ragione, non con i sentimenti. Dal punto di vista teologico, dottrinale, questi infransero le leggi della vera fede e non potevano stare altrove che nell’Inferno. Ci sono due registri diversi: la ragione e la passione. Abbiamo detto l’altra volta che, confrontato con un simile conflitto interno, Dante sviene effettivamente alla fine del canto V, dopo aver assistito alla tragedia di Francesca da Rimini. Ma si tratta di registri differenti della personalità umana – i sentimenti e la ragione –, e Dante non fa confusione. Anche se gli succede di soffrire, di vibrare, di piangere a singhiozzi, egli va avanti e rispetta le leggi comandate dalla ragione.

          O.P.: Torniamo. Che cosa sono le bolge?

          L.A.: Le bolge sono dieci buchi, disposti attorno, lungo l’VIIIo cerchio. Qui si trovano i fraudolenti, divisi – visto che ci sono diversi tipi di frode – in dieci gruppi diversi: ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci ecc. Succede che Dante, mentre avanza lungo il cerchio – eccolo per esempio davanti ai consiglieri fraudolenti, nell’VIIIa bolgia –, arriva su un ponte e vede in fondo al buco delle fiamme che si agitano con frenesia. Si poggia, quasi a cadere, per vedere di che cosa si tratta, chi c’è dentro.

          O.P.: Perché si chiamano bolge?

          L.A.: Il nome di «bolgia» è trasposto in romeno come tale, dall’italiano, dove significa «buco», «fossa». Il poeta completa il sostantivo e arricchisce la denominazione, egli inventa «le Malebolge», «i buchi del peccato», del «male».

          O.P.: Perché servono a Dante, al passaggio verso le bolge, sia Flegetonte (che è un fiume), che un burrone? Perché c’è una differenza così grande tra il VII cerchio e l’VIII cerchio?

          L.A.: Ci sono infatti questi ostacoli fisici che gli escono davanti e che si devono superare. Siamo in piena avventura.

          O.P.: È chiaro che si tratta di una iniziazione. È la strada seguita dall’anima morta.

          L.A.: Sì. Ma non insistiamo adesso sulla simbolistica, ricordiamoci che nell’Inferno non si tratta di una passeggiata di piacere. È una saga, una successione di avventure, colpi di scena, svolte a mozzafiato. Dante è a volte disperato, perde la fiducia in Virgilio, la sua guida, vorrebbe tornare, ma non è possibile, vorrebbe andare avanti, ma non sa da quale parte. Bestemmia se stesso per aver accettato di fare questo viaggio.

          O.P.: E perché ha accettato?

          L.A.: Spronato da Virgilio, che lo esortava a scoprire il mondo dell’aldilà, per salvarsi dal peccato.

          O.P.: Per lo spavento o per la curiosità?

          L.A.: Per tutt’e due. Ma vorrei tornare a quello che ho cominciato. Non si tratta di una passeggiata di piacere. Gli escono davanti diversi ostacoli imprevisti, ci sono delle invettive, delle prese in giro, degli scoraggiamenti, momenti di ripresa dell’animo, delle fermate per riposarsi, per rifarsi il morale e i poteri fisici, prima di riprendere la strada.

          O.P.: Qual è il punto più drammatico per il viaggiatore Dante?

          L.A.: Ci sono diverse prove. Non c’è un unico punto forte. Ogni volta che si confronta con un ostacolo spaventoso, egli è convinto di essere arrivato alla fine dell’avventura. Di rimanere ucciso in quel momento. Viene sempre minacciato, a volte è insultato. Gli spiriti maligni cercano di insinuare il dubbio nella sua anima: «guarda com’ entri e di cui tu ti fide; / non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!» (Inf., V, 19-20). Cercano di renderlo sospettoso nei confronti del suo maestro. Gli ostacoli gli escono davanti a ogni passo.

          O.P.: Non credi che la più difficile prova che abbia da affrontare sia quando lo stesso Virgilio sembra confuso?

          L.A.: Sì, c’è un momento davanti alla Città di Dite, quando Virgilio ritorna e sembra imbarazzato, non capisce come mai non può superare quell’ostacolo. È una situazione di disorientamento della guida, che aumenta lo spavento di Dante.

                             «“O caro duca mio, che più di sette

                   volte m’hai sicurtà renduta e tratto

                   d’alto periglio che ‘ncontra mi stette,

                             non mi lasciar”, diss’ io, “così disfatto;

                   e se ‘l passar più oltre ci è negato,

                   ritroviam l‘orme nostre insieme ratto.”» (Inf., VIII, 97-102.)

Ci sono anche altre situazioni di questo genere. È come un romanzo di avventure. Si può considerare anche così la Divina Commedia, senza la paura di esagerare. Però è importante che tutte queste avventure vengano a configurarsi in modo allegorico, rispecchiando un’intenzione molto più profonda. È ovviamente un viaggio iniziatico, una strada verso la scoperta del mondo, la conoscenza del peccato e della virtù. Un viaggio anche di autolustrazione…

          O.P.: Un pellegrinaggio? Una penitenza?

          L.A.: Anche questo. Si parte da una penitenza, per un pellegrinaggio. La spedizione ha una finalità educativa senz’altro. Solo attraverso la conoscenza del peccato e della virtù, nella loro causalità e nella loro fenomenologia, possiamo modellare, in modo consapevole, la nostra vita. Questa purificazione graduale, in seguito alle diverse prove che il protagonista deve attraversare, è ovvia. E forse vale la pena di parlare un po’ del rapporto tra i due personaggi principali.

          O.P.: Stavo per chiedertelo. Perché mai la missione di guida non è stata affidata a un personaggio collocato, nella sua esistenza trascendente, direttamente nel Paradiso?

          L.A.: Nel canto I, introduttivo, Virgilio accoglie Dante e lo invita a cominciare, accanto a lui, il viaggio:

                             «Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno

                   che tu mi segui, e io sarò tua guida,

                   e trarrotti di qui per loco etterno;

                             ove udirai le disperate strida,

                   vedrai li antichi spiriti dolenti,

                   ch’a la seconda morte ciascun grida;

                             e vederai color che son contenti

                   nel foco, perché speran di venire

                   quando che sia a le beate genti.

                             A le quai poi se tu vorrai salire,

                   anima fia a ciò più di me degna:

                   con lei ti lascerò nel mio partire.» (Inf., I, 112-123)

Il poeta italiano accetta la sfida. Ma ormai nel canto successivo è invaso dai dubbi e dallo spavento. Interroga con ansia la sua guida: perché devo venire proprio io? Io non sono Enea, non sono (San) Paolo – i due personaggi che, prima di lui, durante la vita, hanno viaggiato nel mondo dell’aldilà. Perché mai sono stato scelto, visto che né io, né altri credono me degno di questo? («Ma io, perché venirvi? o chi ‘l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ‘l crede», Inf., II, 31-33). Virgilio gli spiega con pazienza che c’è stata una donna del Cielo (si tratta della Vergine) che, dall’alto, ha visto le difficoltà che egli affrontava, con le tre bestie che gli bloccavano la strada. Ha voluto aiutarlo. Si è rivolta a Santa Lucia. Questa è discesa, nella gerarchia, fino a Beatrice.

          O.P.: Che cosa dicono i commentatori? Perché proprio Santa Lucia?

          L.A.: In certe zone dell’Italia, Santa Lucia passa per la patrona dei non vedenti, colei che ci aiuta a riprendere la vista. In questo senso si potrebbe capire la simbolistica.

          O.P.: Anche Saulo fu abbagliato dalla luce divina, prima della sua conversione.

          L.A.: Dante era in una situazione di abbagliamento morale e aveva grande bisogno d’aiuto. Lucia scese fino a Beatrice e la esortò a venire in appoggio di colui che la amava. E Beatrice ricorse ai servizi del poeta latino: Virgilio esce quindi davanti a Dante, lo accoglie e lo guida per l’Inferno e per il Purgatorio. Dopo avergli raccontato tutto questo, aggiunge: adesso non hai più nessun motivo per esitare. Ecco che garanzia solida, che situazione favorevole! Ci sono tre donne del Cielo che ti vegliano (ancora una volta questo tre, simbolo della perfezione)! Quindi seguimi, perché il tuo viaggio è voluto dall’Alto:

                             «Dunque: che è? perché, perché restai,
                   perché tanta viltà nel core allette,
                   perché ardire e franchezza non hai,

                             poscia che tai tre donne benedette
                   curan di te ne la corte del cielo,
                   e ‘l mio parlar tanto ben ti promette?»
(Inf., II, 121-126)

          O.P.: Da quello che dici non risulta che un poeta debba per forza guidare un altro poeta. Se Santa Lucia l’aveva scelto, egli doveva incamminarsi. Avrei piuttosto pensato che l’ammirazione di Dante per Virgilio fosse l’elemento decisivo.

          L.A.: Ma certo. Il protagonista gliel’aveva detto direttamente, poco prima:

                             «Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore;

                   tu se’ solo colui da cu’ io tolsi

                   lo bello stilo che m’ha fatto onore.» (Inf., I, 85-87)

Sei l’unico da cui io abbia preso lo stile artistico che mi fa onore. Ho imparato da te come scrivere i versi, per diventare poeta, ho ottenuto la fama e la stima tra la gente grazie a te. Dante deve a Virgilio la buona reputazione, il mestiere delle lettere, il talento e il successo artistico, professionale.

          O.P.: Da questo punto di vista, assistiamo a una dichiarazione d’amore.

          L.A.: Di amore artistico e di obbedienza pedagogica. Ecco perché Virgilio è la persona adatta. Ispira fiducia sin dal primo momento a Dante. Colui che lo aveva guidato a scrivere i versi durante la vita, lo può guidare anche nel mondo dell’aldilà. C’è una simbiosi estremamente interessante, dinamica e incitante tra Virgilio e Dante. Si tratta per eccellenza della coppia maestro-discepolo. Sin dall’inizio, l’alunno contesta il suo insegnante: ne riconosce l’eccellenza, gli dichiara il suo affetto e la sua riconoscenza, ma poi gli chiede, subito, perché mai sia stato scelto e dubita delle proprie capacità. Più tardi, nel canto III, assistiamo a un’altra situazione edificante. Spinto dalla grande curiosità, Dante gli domanda in fretta, a un certo momento: maestro, che cosa c’è lì, chi è quella gente che scorgo, in lontananza, e che sta per attraversare il fiume? È troppo buio e troppo lontano, non riesco a vederci. Cos’è là? E Virgilio lo rimprovera brevemente: pazienza! Stiamo andando da loro! Quando saremo arrivati, lo vedrai da solo.

          O.P.: Che cos’era infatti?

          L.A.: Era il fiume d’Acheronte, attraversato dal barcaiuolo Caronte per trasportare le anime dannate. Ma la dinamica stessa della relazione è interessante: il discepolo ha i suoi dubbi nei confronti del maestro, poi riceve diverse garanzie e argomenti ed esempi, che lo riconfortano per il momento. Più tardi è spinto dalla curiosità, come se volesse sapere: che cosa studieremo nella lezione successiva? Il professore lo «tranquillizza», gli dice: aspetta, arriveremo a quel punto e lo vedrai tu stesso. O davanti alla Città di Dite, quando il maestro ritorna, pallido e sconcertato, in seguito al confronto con i diavoli, non sa come fare per proseguire nel viaggio, e così spaventa anche il discepolo. Ma si accorge di dover nascondere la sua ignoranza, se non vuole compromettere l’intera spedizione. Il professore non sempre sa tutto quello che deve dire, o tutto quello che ha da fare. Ma lui deve fingersi onnisciente, per non rovinare la sua autorità. L’alunno talvolta è troppo curioso, e allora deve essere frenato. Altre volte dimostra trascuratezza, fatica, pigrizia, e allora Virgilio lo sprona, lo spinge avanti, gli dice: se rimani a dormire sotto il coperto, non diventi mai famoso («“Omai convien che tu così ti spoltre”, / disse ‘l maestro; “ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre”», Inf., XXIV, 46-48). Non indugiare per la pigrizia, se davvero vuoi diventare un uomo famoso. A sentire queste parole, Dante si precipita, pieno di vergogna. Qualche volta diventa rosso nel viso, per l’ingenuità delle sue domande, altre volte si spaventa se viene rimproverato («Allor con li occhi vergognosi e bassi, / temendo no ‘l mio dir li fosse grave, / infino al fiume del parlar mi trassi», Inf., III, 79-81). A volte è incoraggiato, altre volte è sgridato. C’è una storia molto dinamica in questa relazione magistro-discepolo. Lo sappiamo entrambi noi, perché siamo insegnanti e ci sarà successo, lungo gli anni, di sperimentare simili rapporti con i nostri studenti. Non ultimamente, questo legame è molto mobile, ha una dinamica generale, di cui ugualmente avremo risentito senz’altro tutti e due. Cioè, all’inizio del viaggio, la gerarchia è molto chiara tra Virgilio-magistro e Dante-discepolo. Il primo sa tutto, mentre l’altro vuole sapere tutto, perché è ancora un principiante, un profano. Man mano che i due vanno avanti e superano delle prove, Dante diventa sempre più padrone di se stesso, sempre più sicuro della sua strada. Aggiungiamo che nel Purgatorio, ormai, c’è una zona in cui Virgilio non dovrebbe esserci (perché è uno spirito dannato e gli è stata concessa una specie di dispensa, per guidare Dante), i rapporti di potere pian piano cambiano. Colui che diventa sempre più esitante, più insicuro di se stesso e delle realtà che affronta è Virgilio. Colui invece che è sempre più motivato e più forte è Dante. Ecco che, da una chiara relazione gerarchica, la situazione dei due, a poco a poco, diventa equilibrata, per rovesciarsi in seguito. Verso la fine del viaggio nel Purgatorio, quando il poeta latino si allontana, assistiamo a uno dei momenti straordinariamente impressionanti della Divina Commedia. Virgilio riconosce di non avere più nulla da insegnargli! Al compiersi di una tappa del viaggio iniziatico, la guida comunica a Dante: te, sopra te stesso, corono e mitrio.

                             «Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;

                   lo tuo piacere omai prendi per duce;

                   fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

                             Vedi lo sol che ‘n fronte ti riluce;

                   vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

                   che qui la terra sol da sé produce. (…)

                             Non aspettar mio dir più né mio cenno;

                   libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

                   e fallo fora non fare a suo senno:

                             per ch’io te sovra te corono e mitrio.» (Purg., XXVII, 133-135; 139-142)

La mitra e la corona sono i due segni supremi del potere medievale. La mitra appartiene al Papa, la corona all’Imperatore. Certamente anche noi, da insegnanti, abbiamo avuto momenti in cui siamo stati superati nella carriera sociale, nei successi personali, da qualcuno tra i nostri studenti. Questo può dare un sentimento di tristezza, di amarezza, ma anche di dolcezza, di compiutezza e di missione portata a termine. È un grande potere, questo, di dire al tuo allievo preferito, alla separazione: ti ho insegnato tutto quello che potevo e, da ora in poi, con i tuoi propri sforzi, devi andare avanti! Ti incorono re e padrone di te stesso!

          O.P.: È vero. Mi chiedevo adesso, mentre ti ascoltavo, se per caso questa relazione maestro-discepolo non si trasformi, dopo le avventure vissute insieme, in un rapporto d’amicizia. Loro diventano amici.

          L.A.: Certo. Si separano con una polarità invertita. Il padrone di se stesso è Dante. E colui che, dal basso, lo ammira e lo segue con i sentimenti, ma senza potergli più stare vicino, è Virgilio.

          O.P.: La sua esperienza è ormai consumata.

          L.A.: Come il vecchio maestro che vede il suo alunno, alla soglia della maturità, sul punto di buttarsi nella lotta della vita. Questo percorso di apprendimento viene colto nei suoi minimi particolari e nella sua più intima filigrana, dal punto di vista intellettuale.

          O.P.: Mentre parlavi, io pensavo allo schema tripartito, lanciato alla scoperta dell’ideologia degli indoeuropei, da Georges Dumézil, e che ripresero presto e con profitto nelle loro ricerche tanti medievalisti come Georges Duby, Jacques Le Goff e altri, della stessa patria esagonale, la Francia. Che dici, dal punto di vista antropologico e della tradizione ideologica indoeuropea, si ritrova nell’Inferno questa distinzione tra oratores, bellatores e laboratores? Come sono presentati i clerici, i sacerdoti, come sono presentati i guerrieri e come sono presentati i lavoratori, i coltivatori della terra e i commercianti? Volente o nolente, mentre racconta episodi della terribile vita dei peccatori, sono sicuro che l’autore ricordi un aspetto o un altro. Tutto sommato, anche questo paesaggio, di un Inferno pieno di diavoli laboriosi, che tormentano alcuni, corrono dietro agli altri, è essenzialmente un topos della dinamica (stavo per dire: della dinamica sociale). Che cosa succede là? Alcuni peccatori – Brunetto Latini e i sodomiti – corrono sempre. È come un’immagine dello sport, dell’eterna maratona. Gli altri forse sono impegnati in diversi lavori. Come si presenta quest’universo delle occupazioni, rispecchiato – certo in modo orrendo – nello spazio infernale?

          L.A.: Dante non fa più una distinzione sociale tra i peccatori. Sono tutti quanti insieme. Egli non separa ormai le persone realmente esistite, dai personaggi letterari, artisti, scrittori, politici, principi, papi e così via. L’unico criterio è il giudizio morale, fondato sui principi cristiani.

          O.P.: Cioè se hanno commesso peccati o meno.

          L.A.: Sì.

          O.P.: Abbiamo immagini del lavoro? Ci sono dei fabbri, per esempio? Ci sono dei contadini? Certo, in trasfigurazioni grottesche, buffe.

          L.A.: Ce ne sono, ma non nel punto centrale dell’azione. Dunque non sulla linea epica principale. Possiamo ritrovare a volte certi dettagli del lavoro. Per esempio si fa vedere il contadino stanco, che si riposa un attimo alla fontana, in cima alla collina. Getta il suo sguardo nella valle, dove ha lavorato per tutta la giornata, e la vede coperta delle scintille di migliaia di lucciole. Ebbene, altrettanto piena di fiamme è anche l’ottava bolgia. Per fare più comprensibili, concrete e plastiche le situazioni infernali, che altrimenti sarebbero rimaste astratte, Dante ricorre a diverse figure stilistiche, tra cui, al posto d’onore, si trova la similitudine.

                             «Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,

                    nel tempo che colui che ‘l mondo schiara

                    la faccia sua a noi tien meno ascosa,

                              come la mosca cede a la zanzara,

                    vede lucciole giù per la vallea,

                    forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:

                             di tante fiamme tutta risplendea

                    l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi

                    tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.» (Inf., XXVI, 25-33)

O ecco una similitudine che, per rendere più plastica l’espressione, include l’immagine dei lavori in campagna. Virgilio si spaventa per un pericolo inatteso. Ma si rende conto subito che la sua paura potrebbe scoraggiare anche Dante, quindi la deve nascondere, la deve superare. Ugualmente succede al povero contadino, a cui tutto manca, e che si sveglia la mattina, pronto a portare le pecore al pascolo. Guarda fuori e vede il prato bianco. Si colpisce disperato i fianchi, rientra in casa, si lamenta ad alta voce della disgrazia. Ma poi torna, ci guarda meglio e nota che in breve tempo il mondo ha cambiato di nuovo il suo aspetto. La neve così temuta non era altro che la brina. Quindi abbandona la paura ingiustificata, prende il bastone, le pecore e va al pascolo.

                             «…quando la brina in su la terra assempra

                    l’imagine di sua sorella bianca,

                    ma poco dura a la sua penna tempra,

                             lo villanello a cui la roba manca,

                    si leva, e guarda, e vede la campagna

                    biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,

                             ritorna in casa, e qua e là si lagna,

                    come ‘l tapin che non sa che si faccia;

                    poi riede, e la speranza ringavagna,

                              veggendo ‘l mondo aver cangiata faccia

                    in poco d’ora, e prende suo vincastro

                    e fuor le pecorelle a pascer caccia.» (Inf., XXIV, 4-15)

O ecco un gruppo di lavori nel settore della navigazione, presentati allo scopo di concretizzare l’immaginario infernale. Là giù, nella bolgia dei barattieri, bolliva una pece grossa, attaccata alle pareti della fossa, sempre come, nelle officine dei veneziani, d’inverno, bolle la pece appiccicosa con cui i marinai riparano le navi rotte, che non possono navigare, e uno aggiusta un nuovo vaso, l’altro ottura le coste della nave che ha già fatto tanti viaggi; uno lavora con il martello alla prora e un altro alla pupa; un altro fa dei remi e un altro volge le sarte; uno rintoppa il terzeruolo, e l’altro l’artimone.

                             «Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
                   bolle l’inverno la tenace pece
                   a rimpalmare i legni lor non sani,

                             ché navicar non ponno – in quella vece
                   chi fa suo legno novo e chi ristoppa
                   le coste a quel che più viaggi fece;

                             chi ribatte da proda e chi da poppa;
                   altri fa remi e altri volge sarte;
                   chi terzeruolo e artimon rintoppa – :

                             tal, non per foco ma per divin’ arte,
                   bollia là giuso una pegola spessa,
                   che ‘nviscava la ripa d’ogni parte.»
(Inf., XXI, 7-18)

Tra le ampie similitudini, ci sono queste descrizioni che ci portano sotto gli occhi certi lavori, diversi animali e preoccupazioni domestiche.

          O.P.: Le scene di guerra sono evocate?

          L.A.: Certo. Ma sempre così, all’interno delle similitudini.

          O.P.: Piuttosto come figure stilistiche, come indizi del mondo reale, per mettere in risalto alcune situazioni, alcuni concetti metafisici?

          L.A.: Nel canto XXI, i due viaggiatori incontrano una squadra di diavoli spaventosi, molto occupati a torturare i dannati. Virgilio indica a Dante di nascondersi per il momento, finché tratterà con loro per il passaggio sicuro. Alla fine dei negoziati, la guida gli fa segno di uscire dal riparo, perché è tutto risolto e potranno attraversare il cerchio infernale. Il discepolo si fa avanti, sospettoso, ed esamina le facce terribili dei demoni, sempre come, a Caprona, i soldati a cui era stata promessa la vita, in caso di resa, apparvero dietro alle mura e non sapevano se i nemici avrebbero mantenuto il loro patto. Dante si ricorda, in questa occasione, che egli stesso ha partecipato alle lotte di Caprona, dalla parte degli assalitori.

                             «Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;

                   e i diavoli si fecer tutti avanti,

                   sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;

                             così vid’ ïo già temer li fanti

                   ch’uscivan patteggiati di Caprona,

                   veggendo sé tra nemici cotanti.

                             I’ m’accostai con tutta la persona

                   lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi

                   da la sembianza lor ch’era non buona.» (Inf., XXI, 91-99)

O ecco il contesto delle battaglie e delle sfide nobiliari, invocato in una circostanza grottesca: vidi ormai – dice Dante – molti cavalieri in sfilata o lanciarsi all’assalto, e a volte ritirarsi per salvarsi la vita; vidi cavalieri andati a saccheggiare i territori aretini; vidi squadre armate affrontarsi nei tornei, o dei guerrieri solitari. Tutte queste azioni erano comandate o con le trombe, o con le campane, con i tamburi, con segnali di fumo dalle fortezze, con strumenti dei nostri paesi o di terre straniere. Ma non vidi mai un cavaliere o un fante partire per l’assalto, o una nave ricevere dalla terra, o dalla posizione di una stella, un simile segnale di lotta come quello emanato dal demone Barbariccia (il quale aveva ordinato la partenza della masnada di diavoli mentre «elli avea del cul fatto trombetta»):

                             «Io vidi già cavalier muover campo,

                   e cominciare stormo e far lor mostra,

                   e talvolta partir per loro scampo;

                             corridor vidi per la terra vostra,

                   o Aretini, e vidi gir gualdane,

                   fedir torneamenti e correr giostra;

                             quando con trombe, e quando con campane,

                   con tamburi e con cenni di castella,

                   e con cose nostrali e con istrane;

                             né già con sì diversa cennamella

                   cavalier vidi muover né pedoni,

                   né nave a segno di terra o di stella.» (Inf., XXII, 1-12)

          O.P.: Nello stesso registro delle domande ispirate a un orizzonte dell’antropologia nella Divina Commedia, vorrei chiederti dei golosi. Penso che l’immagine del goloso possa essere concludente. Troviamo scene di baldoria? Certo, oltre al banchetto in cui uno rode il teschio dell’altro…

          L.A.: Tutte le abitudini quotidiane sono trasfigurate. Siccome sono estremamente conosciute, perché rappresentano gesti frequenti, esse vengono usate dall’autore appunto per rendere più plastica l’astrazione del mondo dell’aldilà. Cibo ce n’è, ma si mangia il fango, o si ingoiano gli escrementi – come succede agli adulatori. La cerimonia del bagno c’è, ma i barattieri stanno nella pece bollente, e gli assassini sono voltolati nel sangue rovente. I momenti rituali quotidiani vengono ripresi e trasfigurati, per finalità artistica.

          O.P.: Mi sembra normale chiederti un’altra cosa, in seguito a quella appena detta da entrambi noi. Non credi che Dante sia un enorme stroncatore del suo mondo, nell’Inferno? Il poeta svela con brutalità e fa vedere tutto sommato che: 1) le differenze sociali sono non soltanto effimere, ma anche facili da abolire, appena si supera l’ordine terrestre; 2) la nobiltà e il bene sono dipendenti dal rispetto dell’etica, più precisamente dell’etica cristiana, e non da una certa posizione sulla scala gerarchica; 3) l’opulenza, i rituali possono nascondere a volte molto fango, sterco, sporcizia morale, miseria. Il mondo pullulante dell’Inferno non rappresenta un’eccezione, ma sembra essere un enorme bacino che raccoglie insieme le anime.

          L.A.: Una banalità dei commenti è data dall’osservazione che Dante fa una proiezione della vita terrena nel mondo dell’aldilà. Con questa occasione, egli esprime una durissima critica rivolta contro le ingiustizie e gli abusi che accadevano davanti ai suoi occhi, giorno per giorno, e che si commetteranno forse anche oggi, davanti ai nostri occhi. Perciò il suo messaggio supera i limiti cronologici. La Divina Commedia rappresenta, ugualmente, un tentativo di riparazione, per mezzo dell’arte, della realtà corrotta. È una compensazione che il poeta si concede, davanti alle infamie e alle avversioni per colpa delle quali ha dovuto soffrire sia lui, che tanti altri dei suoi contemporanei.

          O.P.: Così si spiega forse la sua rappresentazione di uomo scontento, orgoglioso, anche sprezzante, severo con chiunque lo guardi?

          L.A.: È molto probabile. Si deve dire ugualmente che nella Divina Commedia – e specialmente nell’Inferno – viene chiesto il conto ai fautori degli abusi nella vita sociale e politica del Medioevo. Dante è cosciente che, se fossero eliminate le cause dei disordini, sarebbe ancora possibile diminuire, attenuare i peccati, le convulsioni, le tragedie. Il poeta cerca di offrire, per mezzo di quest’opera immaginaria, una chiave di lettura per una vita più serena. Un proverbio popolare romeno dice che «frica păzeşte pepenii» (la paura ti fa evitare il male). Più grande prudenza, saggezza, temperanza, controllo dell’azione devastante degli impulsi, degli istinti, farebbe felici non soltanto noi, come individui, ma anche i nostri simili. Tutto sommato, questo può essere uno dei più importanti insegnamenti che fanno della Divina Commedia un’opera valida anche oggi.