Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


«ASTRAZIONE PER MEZZO DELLA CONCRETEZZA»

SETTIMO DIALOGO

3 luglio 2007



O.P.: Caro Alex, secondo me anche Dante, come tanti altri scrittori, ha avuto il problema di mettere d’accordo il contenuto con la forma, se mi spiego in termini consacrati. Infatti, quando hai delle idee, per metterle in pagina devi trovare la forma giusta a persuadere, a essere adeguato. Come ti sembra che Dante abbia risolto questa questione, che è solo in apparenza tecnica? In realtà l’aspetto tecnico è meno importante. Tutto sommato, è rilevante l’effetto raggiunto dallo stratagemma usato da uno scrittore. Qual è, secondo te, il problema della struttura? Non è troppo complicato?

L.A.: Il rischio che Dante doveva affrontare era quello di essere inintelligibile, soprattutto perché parlava di un argomento astratto, immateriale e intangibile. Nessuno ha mai viaggiato per l’Inferno, per il Purgatorio o per il Paradiso, per ritornare poi sano e salvo e raccontare agli altri com’è da quelle parti. Si tratta di spazi appartenenti all’immaginario, alla fantasia. Come tali, sono per eccellenza astratti, difficili da rappresentare.

O.P.: Era questo anche il problema di Eminescu, quando descriveva il viaggio fatto da Espero (Luceafărul), per andare dal Demiurgo e chiedergli di essere sciolto dalla sua immortalità.

L.A.: Ma la differenza, in paragone a quella situazione, è molto grande. Nel poema di Eminescu, il viaggio rappresenta solo una tappa intermedia, nell’evoluzione di una storia d’amore. Qui è messa in gioco la stessa configurazione del mondo. E le storie d’amore si includono nel progetto generale, di rappresentazione dell’universo. Abbiamo detto comunque che il grande problema è quello di comunicare e di far comprensibile un universo così astratto ed etereo. Ieri abbiamo parlato di certe contraddizioni sorprendenti nella stilistica di Dante: il modo in cui egli alterna l’espressione concreta, lapidaria, con i cambiamenti del ritmo, con le ambiguità delle frasi, con le allusioni e le allegorie. Se a livello stilistico egli è così pieno di sorprese e opposizioni, lo sarà ugualmente a livello macrostrutturale. La sua ambizione è di rappresentare un universo essenzialmente immateriale e indefinibile, con categorie di tipo geometrico, estremamente concrete e precise.

O.P.: Insiste su elementi visivi?

L.A.: Ma certo. E non è per niente un abuso, anzi offre un aiuto alla nostra lettura, rappresentare graficamente quest’universo fantastico. Ci sono numerosissimi dipinti celebri in questo senso. I pittori si sono precipitati a trasporre le immagini dantesche e hanno tutto il diritto di farlo. È stata questa la scommessa di Dante: esprimere l’astrazione, per mezzo di alcune categorie di massima concretezza. Ecco, per esempio, l’Inferno che si ritrova al crocevia fra tre diverse discipline, e cioè la mitologia, la geografia e la morale. Dante «coinvolge» queste tre distinte categorie ontologiche, per raffigurarci lo spazio della dannazione. Dal punto di vista mitologico, il poeta riprende una leggenda della Genesi, secondo la quale, dopo la ribellione di alcuni angeli nel Paradiso contro Dio, questi furono cacciati via. Il loro capo, Lucifero, cadde sulla Terra a Gerusalemme, il punto sacro.

O.P.: Omphalos, l’ombelico del mondo… secondo il Cristianesimo, comunque…

L.A.: … cadde, si sprofondò e rimase ficcato al centro della Terra. Nella sua caduta dislocò una grande quantità di terreno, scavò un pozzo a forma di imbuto. Questo sarebbe il lato mitologico dell’immaginazione.

O.P.: Che Dante suppone conosciuto da tutti.

L.A.: Invece l’aspetto geografico sopravviene nel ricorso al sistema tolomaico, l’unico accettato a quei tempi. I medievali erano convinti che la Terra si trovasse al centro dell’Universo. Era un’ipotesi molto gradevole per gli esseri umani, ma purtroppo irreale. Secondo l’immaginazione di Dante, la Terra è coperta nel suo emisferio settentrionale da continenti, mentre nell’altro emisferio, australe, dalle acque. C’è un solo punto di terra ferma dall’altra parte, e cioè la montagna del Purgatorio, formata dal suolo dislocato con la caduta di Lucifero.

O.P.: Io però ho visto un’isola che potrebbe corrispondere perfettamente alla tua descrizione. Era evidentemente nel Nord Italia. È possibile che le realtà del terreno abbiano suggerito a Dante e forse agli altri – che Jacques Le Goff, affascinato dall’idea del Purgatorio, in un libro ormai classico, La naissance du Purgatoire, passa in rassegna – una testimonianza sulla creatività del mondo cattolico, medievale. Ma questa montagna di cui ti sto parlando, Mont’Isola, era meravigliosa, affascinante, effettivamente schizzava fuori in mezzo a un lago. Quando l’ho vista per la prima volta, sono rimasto di sasso. Paesaggi del genere non li puoi trovare dalle nostre parti e non li ho visti nemmeno nei film con Winnetou, girati negli anni ‘60 in Jugoslavia, in una successione di posti davvero favolosi. È possibile che anche questi orizzonti della realtà, che gli autori medievali attraversavano, abbiano influito su di loro, sebbene la lezione che impariamo dalla pittura sia totalmente contraria. Il vero paesagio entrò a far parte delle immagini artistiche solo più tardi, con la conquista progressiva di una forma di realismo, nel Quattrocento e dopo.

L.A.: Anche nel Rinascimento. Ma devo aggiungere che non è l’unica situazione in cui Dante dimostra profonde conoscenze di geografia. Ecco, per esempio, il canto XXVI dell’Inferno, egli ci racconta il viaggio, l’avventura sul mare di Ulisse, al suo ritorno dalla spedizione militare a Troia. L’Ulisse di Dante, a differenza del personaggio di Omero, non torna a Itaca, da Penelope che lo attende, ma si avvia nella direzione opposta, per esplorare zone sconosciute, e cioè verso Gibilterra, all’uscita nell’oceano.

O.P.: Ma non erano Antenore ed Enea a occuparsi di questa situazione, nella mitologia non-dantesca?

L.A.: Si tratta qui, molto precisamente, della ripresa della storia presentata nell’Odissea. Per dieci anni, l’Iliade aveva presentato l’assedio contro Troia, e per altri dieci anni abbiamo le avventure di Ulisse, sulla strada del ritorno da Penelope, che fedelmente lo aspettava e alla fine lui ritrova. È questa la storia di Omero: Ulisse arriva a casa, riprende il posto a capo della sua famiglia e muore sereno, a un’età venerabile. A differenza della variante classica, Dante immagina un altro Ulisse, che si avvia nella direzione opposta, non all’Est, verso la Grecia, ma all’Ovest, verso lo stretto di Gibilterra. Nella coscienza dell’uomo medievale, il mondo finiva alle colonne di Ercole, dove l’eroe mitologico aveva lasciato l’iscrizione «Nec plus ultra!». Oltre a tale punto non si poteva andare. Si supponeva che poi cominciasse l’Ade, l’impero delle anime peccatrici. Ulisse esorta i suoi compagni, con parole piene di energia, a continuare il viaggio, a conoscere il mondo, a scoprire nuovi orizzonti («Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», Inf., XXVI, 118-120). Egli sacrifica l’amore per il padre, per la moglie e per il figlio, la sua famiglia e la pace dell’anima, sull’altare della conoscenza, e paga con la vita questo hybris, l’eccesso, il superamento dei limiti tracciati dagli dei. Ma prima di essere punito, egli ha l’occasione di scoprire diverse isole, località e posti sul Mar Mediterraneo che sta percorrendo. Oltre alla loro plasticità, le descrizioni sono anche di grande precisione. Ci furono addirittura delle «scommesse» sportive, con avventurieri che, alcuni secoli più tardi, rifecero con i velieri il viaggio immaginario di Ulisse sul Mediterraneo, in seguito alle indicazioni esatte, di natura geografica («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, / fin nel Marocco, e l’isola d’i Sardi, / e l’altre che quel mare intorno bagna», Inf., XXVI, 103-105).

O.P.: Ma non era come in Thor Hayerdal? Egli si occupava delle spedizioni dei fenici, degli egiziani e ha rifatto il viaggio dei Vikinghi verso l’America. Ho nella mia biblioteca un libro, scritto da alcuni autori tedeschi, che praticamente spiega i posti dell’Odissea. Ci dice esattamente dove erano il Paese dei Feaci, dove Scilla e Cariddi ecc.

L.A.: Fino all’Ottocento non è stata scoperta Troia. È stato Schliemann a rintracciarla.

O.P.: Sì, in Asia Minore. A Hissarlik, dai Turchi.

L.A.: Comunque, il viaggio descritto da Dante, nella direzione opposta in paragone a quella percorsa da Ulisse, personaggio di Omero, è di grande precisione. Sono stato per molto tempo sorpreso dalle dettagliate conoscenze geografiche dantesche. Si trattava di un uomo medievale, e non si sapeva se avesse viaggiato effettivamente sul mare. Ci ricordiamo che la società era chiusa, autosufficiente, perfino dal punto di vista economico. Le ampie descrizioni di paesaggi, con uno stile molto preciso, danno l’immagine di uno specialista anche in questo campo. Sono rimasto sorpreso, come dicevo, dell’abilità geografica del poeta, ma pochi mesi fa ho avuto l’opportunità di visitare Firenze e il Palazzo Vecchio, la sede della Signoria fiorentina, e anche la camera dove probabilmente Dante aveva lavorato da primo priore. La camera contigua al presunto ufficio del priore è la «sala delle carte geografiche», molto ben fornita.

O.P.: C’era una serie di celebri cartografi che servivano la «Serinissima Repubblica», ma anche Genova, la sua principale concorrente sin dal Duecento-Trecento. Si è radunata in quel posto la quintessenza delle conoscenze geografiche. Ogni navigatore, se mi ricordo bene, quando tornava, doveva raccontare tutto quello che aveva visto, e quindi venivano aggiornate le carte, passo per passo.

L.A.: I diplomatici avevano una responsabilità per quello che riguardava le conoscenze di carattere topografico, oltre a quelle specificamente politiche.

O.P.: Chi era il padrone dei mari, conquistava le ricchezze e godeva del potere, tutto sommato.

L.A.: Ecco dunque che le conoscenze precise di Dante...

O.P.: Erano normali per quel contesto!

L.A.: ...hanno trovato uno sbocco nella sua opera letteraria. Certo che si trattava di una saggezza indebitata con i tempi, nel senso che a livello micro-geografico era estremamente precisa, però a livello macro-strutturale, obbediva al modello tolemaico e, quindi, peccava per falsità. Ma ci sono, come dicevamo, tre discipline che concorrono alla costituzione dell’universo dantesco: la mitologia, la geografia e la morale. Abbiamo già visto le prime due. La morale ha un ruolo fondamentale nella struttura dell’Inferno. Questo ha la forma di un imbuto ed è diviso in nove cerchi. È una specie di continua spirale, in cui Dante dispone successivamente i peccati e i peccatori. Secondo l’ordine della loro apparizione, abbiamo i seguenti dannati: ignavi, non battezzati, lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi, eretici, omicidi e predoni, suicidi e scialacquatori, bestemmiatori, sodomiti e usurai, ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordie, falsari e alchimisti, traditori dei parenti, traditori della patria, traditori degli ospiti, traditori dei benefattori.

O.P.: La successione che hai dato rappresenta una gerarchia secondo la gravità del peccato?

L.A.: È così.

O.P.: Ma non corrisponde a quello che vediamo oggi nelle chiese. I peccati sono valutati diversamente e molti di essi forse nemmeno si ritrovano qui.

L.A.: Il sistema dei peccati e delle pene rispecchia evidentemente la mentalità medievale, ma è anche scelta personale di Dante, che si identifica con i precetti ecclesiastici. Si trova al crocevia tra il personale coinvolgimento dell’autore, le regole del tempo e i regolamenti della Chiesa. Qual è l’essenziale strategia nella costituzione dell’Inferno? Qui governa la legge del contrapasso, cioè ogni peccato viene punito con la sua equivalenza. Il tipo di peccato è castigato dalla corrispondente tortura. Per esempio gli ignavi si sono astenuti, non hanno preso una posizione, sono rimasti passivi – la loro punizione è quella di rimanere ignorati da tutti e il loro nome non sarà mai conosciuto da nessuno. Da anonimi sono vissuti, anonimi resteranno. Nell’Inferno, molto peccatori si annunciano, si fanno avanti per accogliere Dante, gli chiedono di ricordarli presso i parenti vivi, perché gli fossero dedicate preghiere in aiuto. Ma gli ignavi non hanno questa possibilità! Ecco poi gli omicidi, coloro che hanno guardato soddisfatti il fiume di sangue che avevano versato – loro sono sommersi in un lago di sangue bollente, giacciono là per l’eternità. Il tipo di peccato stabilisce anche la tipologia della tortura.

O.P.: È una soluzione piena d’ingegno.

L.A.: È una situazione abile, fabbricata dall’intelletto dell’artista, ma è ugualmente una questione di giustizia.

O.P.: Che cosa pensi, per questo problema Dante si sarà ispirato agli affreschi che coprivano le pareti delle chiese?

L.A.: È possibile.

O.P.: I pittori avevano lo stesso problema: dovevano rappresentare in un certo modo il soprannaturale.

L.A.: In quel periodo, la tematica del mondo dell’aldilà era molto estesa. La scolastica, in genere, metteva l’accento sulla vita dopo la morte ed esortava i mortali, i peccatori, a stare attenti al modo in cui passavano i pochi giorni della vita terrena, per guadagnarsi i favori dopo la morte.

O.P.: Inoltre c’era comunque una vita molto pesante. La gente moriva per le carestie, per le guerre, tutto sembrava una punizione che preannunciava torture ancora più terribili, nell’altro mondo.

L.A.: C’era anche questo, ma il tema del trascendente era primordiale. Non solo nella letteratura, ma anche in pittura predominavano le immagini con gli angeli, con i santi negli affreschi.

O.P.: La Chiesa era il ricco accomandatario, che si permetteva di offrire un lavoro agli artisti.

L.A.: Sì, senz’altro.

O.P.: Anche nel contesto del prestigio che la Bibbia aveva, per eccellenza, in una civiltà del libro.

L.A.: La Bibbia era il libro fondamentale. Come forse lo è tutt’ora, per tanti. Ma la differenza tra questa inflazione del soprannaturale, da una parte, e quello che Dante faceva, da un’altra parte, sta nell’intelletto, nel razionamento, nell’ordine e nella disciplina. Se le altre rappresentazioni erano alquanto pletoriche, abbondanti, caotiche e semplicemente spaventose, lo scrittore italiano riesce a sgomentare non solo con il lato «sentimentale» della tortura, ma soprattutto con la sua pianificazione estremamente minuziosa, come un meccanismo di grande precisione, da orologiaio. Ai fondamenti del suo universo – l’ho detto e lo ripeto – si trova la ragione, e non necessariamente il bigottismo. Le immagini tremende sono tanto più impressionanti, perché mettono insieme la ragione e il sentimento. La legge che governa nell’Inferno è quella dell’equivalenza, dovuta non soltanto all’ingegno, ma anche alla giustificazione morale.

O.P.: Io avrei pensato all’origine popolare dell’idea, che fa pensare al proverbio «chi la fa l’aspetti». Una correlazione di questo tipo. Forse ci sarà stato uno spunto dall’ethos popolare, alla base della visione, non credi?

L.A.: Anche questo. Non si sa se l’ethos popolare non sia venuto ulteriormente. Si deve aggiungere che nell’Inferno c’è una progressione della sofferenza. Più si scende, e più stretto è il cerchio, più grave il peccato commesso e più dolorosa, più straziante la tortura. Il personaggio di Dante, avanzando per l’Inferno, si confronta, successivamente, gradualmente e in aumento, con l’infamia umana.

O.P.: Se mi concedi, ti proporrei di tornare ai tratti generali dell’opera. L’autore scandisce il testo praticamente in canti, se parliamo non della struttura della visione, che è certamente importante, ma della struttura formale. I canti corrispondono per caso all’evoluzione della rivelazione?

L.A.: In grandi linee, sì, ma non sempre. C’è una struttura formale, scandita dai canti, e un’altra semantica, di contenuto, regolamentata dai cerchi percorsi uno dopo l’altro.

O.P.: Perché credi che Dante abbia scelto il cerchio come figura geometrica rappresentativa dell’universo oltremondano che evoca? So che Sant’Agostino ha una teoria sulle figure geometriche perfette. Egli mette al primo posto il cerchio, e al secondo il quadrato. Perché non avrà usato Dante, mettiamo, il triangolo, anche se, pensandoci meglio, ha usato l’idea di «tre», quando ha pensato di scrivere le terzine.

L.A.: Sì. La cifra tre torna spesso nella Divina Commedia, tra i simboli più forti. Ci sono le tre bestie del canto I che gli escono davanti, per impedirlo nella spedizione. Ci sono le terzine. C’è la terza rima. La trinità si trova al centro simbolico del capolavoro. Perfino i regni sono tre.

O.P.: L’idea di trilogia…

L.A.: Esatto. Tutto sommato il triangolo, nella simbologia, suggerisce chiaramente Dio.

O.P.: D’accordo, tutto appartiene, nella Commedia, al divino triangolo.

L.A.: Quindi non sarebbe stato adatto alle rappresentazioni infernali. Il cerchio è la figura geometrica tutelare nell’Inferno, dove si scende. Nel Purgatorio si sale – avremo una montagna, all’altra estremità della Terra. Lì ci saranno sette cornici, l’Antipurgatorio e il Paradiso terrestre. Sono gli spazi da cui si accede, dopo la progressiva lustrazione, all’ultimo regno. Poi nel Paradiso, ormai, si vola, si attraversa una successione di nove cerchi. Dante stesso, in quanto personaggio, diventa imponderale, in seguito a questa abluzione del Purgatorio e prosegue in volo il suo viaggio. Ecco che ci sono diverse forme geometriche, ma anche diversi metodi di locomozione. Se cerchiamo una spiegazione, secondo me si tratta addirittura di un problema concreto. Figuriamoci di essere in una macchina e di dovere scendere da una collina molto precipitosa. Mica possiamo buttarci dall’alto. Dobbiamo seguire una successione di curve, di serpentine. In qualche modo, una simile conformazione a spirale appartiene anche alla logica delle cose. Ma torniamo all’argomento sulla natura morale dell’Inferno. Tutti i peccati, nella loro successione, si possono raggruppare in tre grandi categorie, che l’autore enuncia e definisce. Nella prima parte, il peccato meno grave è rappresentato dagli incontinenti, cioè coloro che superano la misura. Per esempio, i peccatori carnali hanno esagerato nell’amore fisico. Hanno tradito il compagno. O i golosi: non hanno saputo astenersi, si sono riempiti di cibo. I furiosi non hanno potuto controllare la loro rabbia. Questi sono dunque gli incontinenti, coloro che hanno superato i limiti. La successiva categoria si riferisce ai violenti, coloro che agiscono in modo impulsivo. Troviamo qui gli assassini, i suicidi, i sodomiti e così via. È una forma più grave di peccato. La violenza è molto vicina all’istinto. Ma – dice Virgilio, che spiega al personaggio Dante questa macrostruttura – anche gli animali sono istintivi, possono essere violenti. C’è una colpa ancora più grande, e cioè la frode. Per esempio i lusingatori, o gli ipocriti, o i consiglieri fraudolenti, o i traditori, ebbene, questi…

O.P.: Scusami se ti interrompo. Secondo te, queste categorie, questi tipi umani sarebbero sostituiti – anche solo in parte – con altri oggi, o rimangono validi?

L.A.: Sì, ti rispondo subito, perché ho fatto, poche settimane fa, una conferenza su questo tema,  e ho cercato di dare una sfumatura appunto alla gerarchia infernale. Ma concedimi di portare a termine la descrizione. I fraudolenti, dal punto di vista di Dante, racchiudono i peccati più gravi. Perché? Perché loro commettono il male in seguito alla deliberazione, con l’aiuto della ragione, che è un attributo tipicamente umano. Gli animali si lasciano guidare dagli istinti e fanno del male in modo riflesso. Per questo non sono forse colpevoli moralmente. Invece gli umani hanno ricevuto la ragione per essere guidati al bene, alla grazia divina. Però, ecco, ci sono i fraudolenti, nei loro diversi aspetti, che impegnano la mente e usano il dono ricevuto da Dio, ne cambiano la finalità e s’ingegnano a commettere il peccato. Loro ricevono uno strumento che corrompono. Invece di cercare la salvezza, per mezzo dell’intelligenza e della saggezza, fanno lo sforzo di pervertire il mondo, di propagare il male. Si tratta di una maggiore gravità, secondo Dante. Nel suo insieme, è molto logica la divisione in tre categorie. Molte cose dipendono dalla trinità. La cifra tre dà l’immagine della perfezione, fa pensare a Dio. Dividere la tipologia dei peccati in tre categorie coinvolge, anche in questo, la tendenza alla rappresentazione esauriente del fenomeno. È molto logica la spiegazione che Dante offre. L’incontinenza vuol dire superare certi limiti. Poi la violenza con cui i limiti sono infranti costituisce una circostanza aggravante. E poi l’intelligenza dirottata – un’aggravante ancora. Si va, quindi, in successione e in aumento, per quello che riguarda l’infrazione morale. Certo che questa configurazione dell’Inferno rispecchia l’immaginario medievale, esprime l’insieme…

O.P.: …delle conoscenze del mondo…

L.A.: …sì, e addirittura la scelta personale di Dante. Se ne può discutere, dal nostro punto di vista di oggi. Certi peccati si potrebbero collocare più in basso, o ad altri si potrebbe rinunciare, perché ormai superati, con il passar del tempo.

O.P.: Ma sai che cosa osservo io? I traditori sono i «preferiti» di Dante. Egli ci presenta quattro tipi di tradimento. Sembra che l’autore abbia un’ossessione per questa colpa. Ci mette un accento che non possiamo ignorare.

L.A.: Ma sì, perché il tradimento, nel Medioevo, significava non solo una colpa personale, ma aveva effetti anche estremamente dannosi.

O.P.: Secondo me, per mezzo della categoria del tradimento, si possono leggere anche gli altri peccati. La vigliaccheria è tradimento del coraggio necessario. Essere non battezzati significa tradire la missione assegnata, ancora prima della nascita, dalla Divinità: non accettare una regola consacrata dalla Chiesa. La lussuria è tradimento per eccellenza. Mangiare troppo non so che tipo di tradimento sarà…

L.A.: Tradimento della moderatezza.

O.P.: Infatti! Degli eretici non si parla proprio: loro tradiscono la sacra dottrina. Tutto si può leggere in questo modo! Sarà una carenza del modo in cui egli ha pensato le categorie?

L.A.: Non è una carenza.

O.P.: Sarà un mio abuso di interpretazione?

L.A.: No. Si può leggere anche così. Il tradimento è il tipo più grave di peccato. Da questa prospettiva, si può vedere come quintessenza del peccato.

O.P.: Allora vuol dire che Dante la pensa comunque da nobile, perché secondo l’etica aristocratica, la fellonia era il massimo per il suo carattere odioso.

L.A.: Sì, è un’ipotesi interessante. Non ci avevo pensato, ma è molto plausibile e incitante. Però io sto pensando anche all’altro lato, sociale-storico, del tradimento. Il doppio gioco sul campo di battaglia, aprire le porte della città davanti ai nemici era una cosa terribile non solo come gesto individuale, ma portava con sé anche una serie di gravi cambiamenti di situazione, con numerosissime vittime.

O.P.: Provocava delle tragedie addirittura.

L.A.: E non si trattava di una colpa momentanea, isolata. Influiva sul cambiamento dell’ordine politico in quella città. Imponeva uno stato abusivo, a volte per decenni. Quindi un solo gesto di questo tipo segnava intere generazioni!

O.P.: Vorrei notare ancora che possiamo leggere il tradimento in Dante anche come un’eco, la ripresa di un luogo comune (non nel senso di una banalità, ma nel senso di un motivo principale, che si ripete nelle grandi opere letterarie). Pensa un po’ al cavallo troiano, per esempio, in Omero. Ricordati poi il tradimento di Gano di Maganza nella Canzone di Rolando. Ricordati una serie di altre opere, in cui il tradimento ha un’importanza fondamentale, in quanto motore epico, per esempio in Le Cid ci sono alcuni tentativi di tradimento, nei confronti dei quali il Cid si definisce come un cavaliere senza macchia e senza paura, come furono chiamati sia Bertrand Du Guesclin, che tanti altri prodi. Non si tratterà forse, come lo incontriamo in Miron Costin, della prefigurazione di un motivo fondamentale del barocco: il mondo che gira, la vita che passa e si consuma? O come ritroviamo in François Villon, questa meditazione sul destino e la fortuna, presente anche nelle canzoni goliardiche come Carmina Burana e non solo? È molto interessante vedere se per caso si intrecciano qui diverse possibili sorgenti di ispirazione, diversi riverberi in Dante, sia in rapporto a una proposta culturale che egli faceva, sia in rapporto a una realtà dell’epoca e a un codice di valori, appartenente alle circostanze e a lui stesso, un codice interiorizzato.

L.A.: È indiscutibile che Dante sia stato un buon conoscitore delle opere letterarie e filosofiche, e ugualmente delle mentalità. Devo aggiungere, però, che il tradimento è l’unico peccato che si rispecchi in quattro diverse sfumature. Questa è la conferma che l’autore gli dà un grandissimo peso, nella sintomatologia della delinquenza. Non solo collocandolo proprio al fondo dell’Inferno, ma…

O.P.: Il più vicino a Lucifero!

L.A.: Sì. Del resto è questa la teoria: più ci si avvicina a Lucifero, e più grave è il peccato punito. Più se ne rimane lontani, e meno pesante è la colpa. Ma queste quattro zone del tradimento hanno dei nomi in cui l’intertestualità è evidente, addirittura ostentata. Abbiamo la prima zona, la «Caina», con i traditori dei parenti. Il nome viene da Caino, il fratello che ha tradito Abele e lo ha ucciso, nella Genesi.

O.P.: «Caina» è un topos?

L.A.: Sì. La seconda zona è quella di «Antenora», secondo il principe troiano Antenore, considerato nel Medioevo traditore, perché ha aperto le porte della città a far introdurre il cavallo di legno lasciato in regalo dai greci. Ecco che tutto gira intorno alla guerra troiana e a Omero e alla mitologia della vecchia Grecia.

O.P.: Nel Medioevo tale mitologia (ho studiato questo problema perché mi ha particolarmente appassionato), figurati, non era principalmente ripresa dai testi omerici, ma dagli apocrifi che vennero dall’Oriente e si tramandarono poi in diverse opere occidentali, specialmente dopo l’anno Mille. I famosi racconti di Dario Frigio e di Ditti Cretese, due autori apocrifi, la cui precisa identità non è conosciuta. Recentemente sono stato a Münster e, frugando in quelle biblioteche, sulle tracce delle mie vecchie passioni, ho scoperto una straordinaria edizione, uscita duecento-trecento anni fa, a Parigi, di un’opera su questo argomento, della guerra troiana, che, riprendendo una decina di pagine di Ditti Cretese, le accompagnava di altre 400 pagine di commenti e bibliografia, e approfondiva la ricerca di questo tema in modo esemplare. L’editore non avrebbe potuto pubblicare un intervento a un simile livello, sull’argomento discusso, se non ci fosse già stata una tradizione enorme, proliferante, in tutti i Paesi occidentali, nonché in alcuni orientali. L’ossessione troiana era sempre presente ed è interessante che ti ci sia soffermato, nella nostra discussione. Dovrò vedere la situazione di Antenore, perché lui appare come uno di quelli che hanno guidato il popolo troiano sulla terra italiana. È passato poi, figurati, nella mitologia romena dei secoli XIII e XIV, e ha subito diverse modifiche, che parlano della mitica patria del fondatore troiano, il quale andò e, dopo aver creato Roma, creò anche Venezia (i romeni pensavano di risalire ai veneziani).

L.A.: Sì, confermo che anche in Dante la leggenda omerica della guerra troiana ha lasciato tracce molto profonde. Non fosse che per la storia del canto XXVI, che egli riprende da Omero e trasfigura, includendo anche altri valori eroici, tipici per il tardo Medioevo e l’inizio del Rinascimento. Ma andiamo avanti con questa dimostrazione di intertestualità consapevolmente assunta da Dante. Dopo «Caina» e «Antenora», la terza zona dove sono puniti i traditori di ospiti si chiama «Tolomea», da Tolomeo, presente nel 1 Maccabei della Bibbia. Si tratta del personaggio che invitò suo suocero e due figli di questo a un banchetto, dove li uccise. Infine, la quarta zona, «Giudecca», dove sono puniti i traditori dei benefattori, prende il nome da Giuda Iscariota, che tradì Gesù.

O.P.: Come si traducono da noi?

L.A.: In romeno non ci sono delle specifiche equivalenze. Vengono ripresi  i nomi italiani: Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca. È questa dunque la macrostruttura, giustificata con argomenti profondamente morali, come dicevo, al crocevia tra le tre discipline: mitologia, geografia e morale.

O.P.: E quale sarebbe l’importanza della storia? Essa riempie tutto di contenuto, vero?

L.A.: Se le tre discipline potessero rappresentare lo scheletro, il sistema osseo, che ne delinea il profilo, allora la storia ne rappresenta la carne, che riempie di sostanza e di essenza questo organismo. In più si aggiunge l’esperienza personale, quotidiana, di Dante come autore, e tante altre situazioni. Per quanto riguarda i personaggi della Divina Commedia, ma con particolare riferimento all’Inferno, di cui stiamo parlando adesso, abbiamo la più diversa provenienza e consistenza. Per esempio abbiamo delle persone vere, che sono esistite come tali.

O.P.: Ti interrompo un attimo. Forse c’è anche una statistica: più numerosi sono gli italiani, vero?

L.A.: Sì.

O.P.: E più o meno contemporanei di Dante o vissuti poco prima di lui?

L.A.: I personaggi danteschi hanno una provenienza estremamente diversa. Troviamo delle persone vere, gente modesta, in carne e ossa. Poi abbiamo apparizioni eccezionali: re, principi, papi, vescovi. Sempre personaggi veri, ma di origini sociali fuori dal comune.

O.P.: Come se parlassimo dei tarocchi. Anche lì è sempre così: gli anonimi e poi le grandi figure.

L.A.: Abbiamo personaggi letterari, che anche qui rimangono personaggi. Per esempio c’è Ulisse, ripreso da Omero, che appare anche in Dante, sebbene con nuovi tratti. Dante parla nel canto V con Francesca da Rimini, una nobile figura femminile, realmente attestata nei documenti. Ci sta a dialogare, con la stessa naturalezza che ha anche davanti a Ulisse. Non c’è una differenza di consistenza ontologica tra le persone vere e i personaggi fittizi, inventati dagli altri.

O.P.: O differenze di trattamento…

L.A.: Assolutamente no. O vediamo i demoni, che stanno accanto ai personaggi della mitologia pagana. Ieri, nella nostra discussione, abbiamo visto che a un certo punto appare il nocchiero Caronte, che trasporta in barca le anime dei peccatori sull’Acheronte. Egli viene ripreso dalla cultura greca. È spaventoso, ha l’aspetto di un vecchio barbuto, che colpisce con il remo i suoi «clienti», litiga con Dante, rifiuta prima di aiutarlo. Ma Virgilio si fa avanti e gli dice la parola magica: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non domandare», e quindi Caronte si calma alquanto e accetta di giocare la sua parte. Però è un personaggio, ontologicamente parlando, che gode esattamente dello stesso statuto come un uomo vero, che è vissuto in realtà, o di qualsiasi altra figura di un’opera letteraria.

O.P.: Qui c’è il meraviglioso istinto di Dante, come artista, che lo aiuta ad aumentare probabilmente il drammatismo della sua narrazione poetica.

L.A.: Anche questo. O ecco, a un certo momento, si fanno vedere i Centauri, nel canto XII. Sono personaggi mitologici, metà di aspetto umano, metà con un corpo di cavallo, che qui, però, diventano degli agenti di tortura. Ma con un aspetto venerabile. Chirone, per esempio, ha una barba lunga, che fende per poter parlare con Dante, per far sentire le proprie parole. Ha la figura di un saggio che ascolta il racconto dei viaggiatori per l’Inferno, e poi attribuisce loro una guida, nella persona di Nesso.

O.P.: Il famoso Nesso, per cui rimase ucciso Ercole.

L.A.: Sono personaggi favolosi, che hanno la consistenza di qualsiasi altra presenza nella Divina Commedia.

O.P.: L’evocazione del centauro Chirone mi ricorda anche situazioni più tristi, della nostra storia recente, ai tempi del comunismo, con persone venerabili, straordinarie, che sono passate dalla parte dei torturatori e si sono dimostrate straordinari carnefici.

L.A.: Sì. Oppure abbiamo le Arpie, invenzioni che appartengono alla mitologia pagana, ma che fanno qui la parte dei torturatori, in diversi passi dei cerchi infernali.

O.P.: All’inferno le cose funzionano così! Forse dovremmo insisterci. È complessa questa storia. I torturatori fanno il male per eccellenza. E tutti questi sono a servizio di Lucifero. Ma in realtà, se pensiamo ai versi pronunciati da Virgilio e che hai citato poco fa, in quel posto succede quello che deve succedere. È la volontà divina.

L.A.: Certo. C’è una finalità non proprio rimediante, perché non c’è più via di ritorno…

O.P.: Loro ristabiliscono l’equilibrio, la legge morale.

L.A.: Sì. È strano che i diavoli, soprattutto alcuni di loro, come i centauri, abbiano un’apparenza rispettabile. Alcuni simboleggiano addirittura la saggezza.

O.P.: Mentre altri fanno del culo trombetta…

L.A.: Appunto. Nei canti XXI e XXII si trovano i barattieri. I diavoli che li sorvegliano cercano di impedire il viaggio di Dante, lo inseguono minacciosi. Ma questo è davvero uno dei paradossi: i demoni sono impegnati a difendere l’ordine divino! Poi, oltre ai diavoli, oltre ai personaggi storici, ai papi, ai vescovi, ai re, ai grandi comandanti militari e politici, come Farinata degli Uberti, nel canto X, oltre ai personaggi letterari, come Ulisse, incontriamo gli scrittori e gli artisti «veri e propri». Per esempio Omero, Ovidio, Orazio e Lucano – Virgilio è addirittura una delle guide di Dante. Gli artisti, i filosofi sono tutti là, nel canto IV, nel Limbo. C’è un terribile affollamento, una consistenza strutturale estremamente diversificata, tra i personaggi danteschi dell’Inferno. Ma vorrei sottolineare che non c’è una distinzione secondo il prestigio, per esempio, tra un goloso e un eretico. Non importa se uno sia vissuto in realtà e sia stato, forse, il Papa di Roma, e l’altro sia stato presente solo nella finzione, nell’immaginazione di un autore. Sono, tutti quanti, collocati insieme nella dannazione. Quando diciamo “Inferno”, con la nostra sensibilità cristiana pensiamo alle regole conosciute. Ma Dante va oltre a questo, egli fa la sintesi perfino delle mitologie non-cristiane – quella greca e latina –, include nell’Inferno i personaggi letterari che con il cristianesimo non hanno avuto niente a che fare, alcuni filosofi, diverse situazioni artistiche, estetiche, le quali sono rivalutate. Ecco perché, partendo con la volontà di costituire un mondo immaginario, dell’aldilà, di fatto Dante mette insieme e fa la sintesi dei più diversi campi del sapere, di cui egli ha familiarità.

O.P.: Pensavo adesso a questa equipollenza delle diverse condizioni, dei diversi tipi di peccatori, delle persone che per colpa dei misfatti della loro vita sono finiti nell’Inferno…

L.A.: Sono messi accanto in base ai precetti morali! Hanno commesso gli stessi peccati! Vengono giudicati secondo il loro peccato, non secondo l’eventuale consistenza reale, o fittizia, o mitologica!

O.P.: È molto interessante se questa agglutinazione possa dirci qualcosa del subconscio dell’autore. Forse anche di un modo di rappresentare le cose più ampiamente, nella società in cui Dante viveva. Non abbiamo comunque la possibilità di andare qui troppo in profondità con l’analisi. Possiamo solo fare delle ipotesi. Carlo Ginsburg ha provato, nel suo famoso libro su Il formaggio e i vermi, a esaminare un po’ la sorgente mentale, immaginaria, dell’universo morale del Cinquecento, se non mi sbaglio. È un punto di riferimento metodologico, ma non so in quale misura per i tempi di Dante e per un grande creatore del suo tenore potremmo alquanto generalizzare una simile formula, che ha sperimentato anche un altro storico, francese, quando ha parlato delle idee di Rabelais. Pensavo a Lucien Lefebvre. La questione è interessante, forse, per gli psicanalisti, quelli junghiani, non quelli freudiani, perché Jung va alla ricerca delle strutture che compongono il subconscio oltre a quello che rappresenta l’ego, verso una sorta di memoria della specie, un deposito archetipico. La mia mente vola subito a questo, appena parliamo di persone che sono esistite, persone che non sono esistite, ma che sono state importanti come punti di riferimento mitologico, persone che sarebbero potute esistere, ma da semplici anonimi, persone inventate dallo stesso Dante. Chi lo sa, ce ne saranno state anche di questa categoria, nonostante il realismo, nella sua paradossale e fantastica costruzione epica. Da un certo punto di vista, l’esegesi ha ancora moltissimo da fare. Ma vorrei chiederti: ci sono degli interpreti che hanno cercato di leggerlo con gli strumenti della psicanalisi?

L.A.: È utile comunque cercare di identificare il filo rosso. Tanti personaggi possono creare una confusione, con la polifonia del loro statuto. Secondo me l’elemento d’ordine dovrebbe essere comunque quello che enunciavo poco fa: la colpa morale.

O.P.: Sì, è chiaro. Grazie a essa viene costituita la classifica.

L.A.: Loro obbediscono all’imperativo etico. E quindi: che si tratti di persone vere, di personaggi letterari, della finzione, che si tratti addirittura degli autori che hanno inventato i rispettivi personaggi, che si tratti di demoni o di altre apparizioni mitologiche, tutti quanti sono giudicati secondo gli stessi principi etici. È questo il filo rosso, strutturante, che impone anche una regola in tutti i campi.

O.P.: L’idea mi sembra molto importante: cioè che puoi essere dannato non solo se sei vissuto sulla terra, ma anche se esci dalla testa di un essere mortale, che ti ha creato come personaggio.

L.A.: Sì, perché ciò che interessava a Dante era l’esempio! E anche lui costruiva un libro «di insegnamento»! Sembra un registro di verbali, un giornale dell’epoca, ma in realtà è un’opera d’arte, e in più una tra le più brillanti di tutti i tempi. Per quanto riguarda la lettura psicanalitica di cui mi chiedevi, ti confesso di non aver approfondito gli studi danteschi in questa direzione.