Laszlo Alexandru

 

COME FU TEMPRATO L’ACETO



            Sono convinto che, negli anni successivi alla sconfitta dell’hitlerismo, nessun intellettuale tedesco avrebbe avuto il coraggio di pubblicare un libro dal titolo L’Illusione dell’antifascismo. Ma dalle nostre parti, nei Balcani, dove la sfacciataggine rappresenta la principale unità di  misura del valore individuale, un gruppo di intellettuali romeni ha progettato la propria affermazione, a pochi anni dalla caduta del ceausismo, per mezzo del volume L’Illusione dell’anticomunismo.

            Il pretesto superficiale è collegato ad alcune dissociazioni nei confronti del Rapporto Finale, pubblicato dalla Commissione Presidenziale per l’Analisi della Dittatura Comunista in Romania, coordinato da Vladimir Tismăneanu. In essenza, però, un gruppo di pensatori cerca di screditare l’attività di ricerca e la globale condanna del comunismo in Romania, compiuta da un altro gruppo di pensatori. Ecco una strana situazione, che vale la pena di essere considerata con piena attenzione. Gli autori contestatari sono disposti in ordine alfabetico e, con un’ampia diversità di motivazioni e strategie, si esibiscono sotto la direzione di quattro giovani coordinatori: Vasile Ernu, Costi Rogozanu, Ciprian Şiulea e Ovidiu Ţichindeleanu.

            Altri scrittori, favorevoli al Rapporto pubblicato da V. Tismăneanu, hanno rifiutato di partecipare alle feste invernali agevolate dall'opuscoletto ribelle. Sarà stato per le assurde premesse con le quali gli anti-anticomunisti iniziavano il loro viaggio, sin dalle prime frasi? “La presente antologia è nata come reazione al dibattito pubblico anemico e povero in contenuti intellettuali intorno al Rapporto di condanna del comunismo in Romania e intorno all’intera azione che aveva accompagnato la produzione e la promozione di tale atto. Sullo sfondo di un pubblico interesse molto scarso, grande parte degli autori del Rapporto e di coloro coinvolti in questo processo hanno rifiutato di giustificare le loro opzioni e, in genere, di discutere in modo applicato dei significati e delle conseguenze del comunismo in Romania...” (p. 5). Be’, se il pubblico interesse è stato davvero “molto scarso”, perché mai avrebbero dovuto giustificare, in seguito, gli autori del Rapporto... le loro opzioni? La logica dell’argomentazione rivela una sincope, sin dalle prime righe dei detrattori.

            Il libro portato alla luce da ben quattro matrigne è venuto fuori piuttosto malfatto. Permettendosi di lanciare accuse di inconseguenza contro un’altra ricerca collettiva, avremmo apprezzato se non fosse stata, a sua volta, piena di incongruenze. Purtroppo, è così. Ecco, per esempio, Florin Abraham che rimprovera al Rapporto di Tismăneanu che, nel discorso sul passato comunista, stia nascondendo un’importante scommessa politica del presente (“Ha la pretesa di ufficializzare una prospettiva sul passato recente della Romania”, p. 8). Al contrario, Daniel Barbu imputa allo stesso Rapporto di Tismăneanu che, artificialmente, stacca il comunismo dalla causalità politica del presente, per diverse finalità di manipolazione (“una strategia eminamente politica, in cui viene circoscritto il presente, nei confronti della storia recente, e il comunismo viene spinto lontano in un tempo revoluto e si nega il valore politico che il recente passato potrebbe ancora avere, in qualità di esperienza sociale”, p. 72). Ora, se la società comunista descritta dallo studio della commissione presidenziale influisca sul nostro presente ovvero se, tutt’anzi, essa galleggi staccata in un vago indefinito, i lettori del libricino denigratore non riescono a capirlo fino in fondo.

Florin Abraham ammonisce poi Vladimir Tismăneanu per aver ripreso dei brani della Dichiarazione anticomunista di Timişoara, coinvolgendosi in questo modo, da partigiano, nelle battaglie politiche. Ecco però che Gabriel Andreescu, il successivo autore in ordine alfabetico, sta elogiando la stessa scelta, perché “la Proclamazione di Timişoara è stata assunta da un grande numero di cittadini e di organizzazioni e rimane, probabilmente, la dichiarazione anticomunista più popolare dopo il 1989, con la maggiore forza di attivizzazione” (p. 45). Che cosa ci sarebbe da capire? Per non dire niente del fatto che le simpatie politiche presidenziali di Vl. Tismăneanu sono rimproverate, in nome... dell’oggettività epistemologica, dallo stesso “direttore scientifico dell’Istituto «Ovidiu Şincai»” (ovviamente, del P.S.D.)! Sarebbe divertente, se non fosse troppo triste... Sempre Florin Abraham insiste sull’idea che il vero processo del comunismo “non debba sostenere le colpevolezze collettive, e le punizioni morali o penali si debbano adeguare alla gravità dei fatti” (p. 37), tralasciando l’aspetto che, il più spesso delle volte, coloro che commettevano i misfatti politici durante il comunismo lo facevano costretti proprio dal sistema, in virtù della loro posizione e dando la colpa alle circostanze. Così viene tracciato, con perfidia, un meraviglioso circolo vizioso: la colpa, nel comunismo, non è stata collettiva, perché è stata dovuta a certe persone; ma essa non è stata neanche individuale, perché le persone hanno dato la colpa al sistema. Tuttavia, quando il Rapporto di Tismăneanu cerca di cacciare via una tale tendenziosa ambiguità, facendo un preciso elenco della nomenklatura e particolareggiando, così, la colpa, la sua azione viene respinta con sufficienza perché, tanto per dire, sarebbe priva di una chiara gerarchia della colpevolezza. Florin Abraham si dimostra inconseguente e contraddittorio, se ci manteniamo soltanto al vocabolario eufemistico.

Ma per fortuna arriva Daniel Barbu e rimprovera al Rapporto coordinato da Vladimir Tismăneanu, proprio al contrario, il tentativo “di esonerare sia lo Stato, che la società romena nel suo insieme, dalla responsabilità politica per i fatti costitutivi, repressivi e produttivi di un regime” comunista (p. 72). Ecco che, lungo il comunismo, non si può attribuire una colpa collettiva (dal punto di vista di Florin Abraham), invece l’esonero della società dalla colpa collettiva rappresenta un difetto del Rapporto di Tismăneanu (dal punto di vista di Daniel Barbu). Non si capisce più nulla!

È interessante leggere questo libricino per trovarci delle contraddizioni non solo tra i dodici autori, ma anche tra le affermazioni dello stesso artefice. Secondo Daniel Barbu, il Rapporto di Tismăneanu rappresenta solo un’operazione scientifica “destinata a coprire un deficit di natura politica” (p. 73). Comunque, due frasi più tardi, tutt’al contrario, “le virtù del Rapporto si dimostrano piuttosto politiche, e non scientifiche” (p. 74). Quanta scienza e quanta politica ci sarà nel libro analizzato, nemmeno l’intelligenza di D. Barbu ce lo potrebbe chiarire.

Leggiamo e ci stupiamo, poi, a vedere la disinvoltura con cui i contestatari calpestano le più chiare evidenze. Così, il professor Daniel Barbu si schiera contro “l’incapacità dei responsabili politici di pronunciarsi apertamente sul defunto regime...”  (p. 73). Ricordiamo al sig. Barbu la clamorosa riunione di entrambe le Camere parlamentari, davanti alle quali il presidente Băsescu ha condannato in parole chiare il defunto regime comunista, come illegittimo e criminale. Lo stesso ricercatore considera poi le raccomandazioni del Rapporto di Tismăneanu, sull’organizzazione di conferenze internazionali, trasmissioni televisive, esposizioni permanenti, libri scolastici e modifiche legislative per far conoscere meglio il passato comunista, tutt’al contrario, come un tentativo di nascondere quel passato (“Il comunismo romeno è, quindi, immaginato come un oggetto ristretto, con l’accesso limitato, controllato, organizzato e reglementato, che ha dei curatori e delle guide autorizzate, che può essere esposto e contemplato, ma che, dopo essere stato fissato in museo, non fa parte più del presente”, p. 79). Come mai? Lo studio organizzato e istituzionalizzato di un fenomeno ne determina la distruzione?! Ecco una logica indegna di uno scienziato.

Altro perseverente denigratore della ricerca e della condanna del passato comunista, Ciprian Şiulea, non si vergogna, a sua volta, di contraddire le evidenze vissute da tutti i romeni. Così, Şiulea si inventa tre categorie di cittadini esistenti durante il comunismo. Una minoranza di vittime effettive (“coloro uccisi, gettati in prigione, aggrediti fisicamente e psichicamente, espropriati, perseguitati ecc.”), un numero alquanto maggiore di “vittime soft del comunismo” (coloro privati dalle libertà di espressione, di viaggio, di associazione ecc.) e la grande maggioranza degli altri (“un numero ancor più grande di persone, però, non credo possano essere considerate vittime, perché loro stesse non si ritenevano come tali”, p. 227). Da questa falsa tassonomia postfabbricata si potrebbe dedurre che i più dei romeni avessero goduto, comunque, delle più ampie libertà, che avessero viaggiato, che si fossero espressi senza inibizioni, che avessero costituito dei partiti politici e dei sindacati liberi, che avessero serenamente approfittato dei benefici del comunismo autoctono. Perché mai questo Ciprian Şiulea mente a faccia tosta?!

Comunque, per più grande chiarezza, propongo anch’io una tassonomia a mo’ d’esempio e dello stesso impressionante livello d’intelligenza: ci sono al mondo tre categorie di persone: coloro dagli occhi verdi, coloro dagli occhi castani e la grande maggioranza degli altri, che indossano i blue jeans...

Una pietosa furbizia dei contestatari del Rapporto di Tismăneanu è dovuta all’invocazione di personalità scientifiche notevoli. Così, il professor Daniel Barbu, rifacendosi alle conclusioni di una pubblicazione bruxellese, ci informa sull’“idea weberiana delle scienze sociali come scienze dell’esperienza, che non si propongono (e forse non ne sono nemmeno capaci) di scoprire delle norme a carattere imperativo, le  quali potrebbero ulteriormente guidare la pratica sociale; a differenza delle scienze naturali, le scienze sociali non spiegano e non producono delle istruzioni per l’uso dei fatti e degli eventi studiati, invece tentano a capire il sistema di sensi lasciato dietro a sé da una puntuale esperienza di una puntuale società” (p. 78). Dopo la messa in circolazione di questa aberrazione, secondo cui le scienze sociali dovrebbero non spiegare, ma soltanto capire (come se qualsiasi comprensione non fosse necessariamente collegata a una spiegazione e viceversa!), l’imbecillità nascosta sotto l’ombrello di Max Weber continua la sua vita fiorente e acquisisce le qualità magiche di un passe-partout. Eccone i risultati concreti, come sono stati registrati con sarcasmo da un giornalista di Bucarest, durante la presentazione del libro sull’Illusione dell’anticomunismo: “Ho voluto mettere a prova il loro coraggio intellettuale e rivoluzionario e ho chiesto, in nome di tutti noi, perché ci togliessero dal nostro stato di stupidità: «Il comunismo è stato bello o brutto, doveva essere condannato o meno?». Le grandi coscienze dell’umanità sono rimaste un po’ confuse. Mi hanno balbettato una risposta di un quarto d’ora, sull’approccio «neoweberiano» del problema, da cui, secondo il detto del mio amico, il Gatto, ho capito che «ne parleremo ancora in silenzio»” (George Scarlat, I pappagalli anti-anti-comunisti, in Ziua, 26.11.2008).

In realtà, Max Weber ha mostrato, lungo la sua esistenza, un perseverente impegno nelle realtà sociali e politiche del suo tempo: da volontario sul fronte, nella prima guerra mondiale, da negoziatore della pace, da riformatore della Costituzione tedesca (il famoso Articolo 48), da fondatore di un partito politico ecc. Nel libro considerato la più importante ricerca sociologica del XXo secolo, Économie et société, Weber proclama appunto l’interdipendenza tra la comprensione per mezzo dell’interpretazione e la spiegazione causale: “Nous appelons sociologie une science qui se propose de comprendre par interprétation l'action sociale et par là d’expliquer causalement son déroulement et ses effets”. Nella sua attività, invece di chiudere in recipienti ermetici ogni singola disciplina, ha contribuito a un approccio interdisciplinare della sociologia, della storia, dell’economia politica, della politologia e della filosofia culturale. Parlando apertamente del rapporto tra scienza e politica, nella conferenza pubblicata poi in Francia con il titolo Le savant et le politique, Max Weber condanna, davvero, l’ingresso del messaggio politico tra le mura dell’Università e la sua propagazione dalla cattedra. La necessità della neutralità politica degli insegnanti, nell’esercizio delle loro funzioni professionali, non impedisce tuttavia la loro ulteriore uscita nello spazio pubblico, anche se lo scienziato tedesco ne dubita l’efficienza: “On dit, et j’y souscris, que la politique n’a pas sa place dans la salle de cours d’une université. (...) Si l’on me demandait maintenant pourquoi cette dernière série de questions doit être exclue d‘un amphithéâtre, je répondrai que le prophète et le démagogue n’ont pas leur place dans une chaire universitaire. Il est dit au prophète aussi bien qu’au démagogue: «Va dans la rue et parle en public», ce qui veut dire là où l’on peut te critiquer. Dans un amphithéâtre au contraire on fait face à son auditoire d’une tout autre manière: le professeur y a la parole, mais les étudiants sont condamnés au silence. Les circonstances veulent que les étudiants soient obligés de suivre les cours d’un professeur en vue de leur future carrière et qu’aucune personne présente dans la salle de cours ne puisse critiquer le maître. Aussi un professeur est-il inexcusable de profiter de cette situation pour essayer de marquer ses élèves de ses propres conceptions politiques au lieu de leur être utile, comme il en a le devoir, par l’apport de ses connaissances et de son expérience scientifique”.

Se adattiamo la penetrante osservazione weberiana alla realtà romena, si può affermare che l’atteggiamento di Nae Ionescu, professore che aveva attirato, durante la seconda guerra mondiale, i suoi discepoli all’adesione fascista, abbusando, dall’altezza della cattedra, del suo statuto magistrale, rimane profondamente condannabile. Al contrario, se Vladimir Tismăneanu ha lasciato oggi le mura universitarie per la ricerca, a finalità educativa, dei disastri prodotti dal regime comunista, questo non si può, nemmeno (neo)weberianamente parlando, condannare, poiché l’oratore si è pienamente assunto il rischio di parlare davanti a un pubblico libero di valutare in modo critico i suoi argomenti.

Sono fastidiosi anche altri sforzi fatti da Daniel Barbu per contraddire i fatti più evidenti. Così il Rapporto finale, che si concentra a mettere in luce i terribili effetti del comunismo in Romania e si conclude con un elenco nominale della nomenklatura, viene accusato, nonostante le evidenze, che potrebbe trasmettere un messaggio falsificatore: “il comunismo romeno è esistito, ma all’infuori delle persone della sua contemporaneità, esso ha avuto forse degli agenti, ma, in fin dei conti, è stato privo di sostanza” (p. 72). Probabilmente D. Barbu non ha letto con la mente chiara il libro di cui ha scritto.

E l’universitario di Bucarest combatte non solo il passato storico, ma anche la realtà contemporanea. Lui se la prende, per esempio, con la terribile mania dei denunci di oggi: “La stampa romena del momento ha l’aspetto dei giornali americani di un secolo fa: lo smascheramento e la denuncia degli uomini politici, con o senza prove, stabilisce la misura dell’impegno civico. Il Ministero dell’Educazione Nazionale incoraggia istituzionalmente gli studenti a denunciare i loro professori. Gli insegnanti costituiti in associazioni civiche denunciano globalmente e in anticipo tutti i loro colleghi, sia presso il C.N.S.A.S. [Consiglio Nazionale per lo Studio degli Archivi della Securitate], quanto presso le istituzioni abilitate a verificare le dichiarazioni dei redditi degli alti dignitari. Le coalizioni della società civile fanno l’inventario delle proteste formulate contro i candidati alle elezioni parlamentari e lo distribuiscono in ampia tiratura. Il Governo e il Parlamento hanno costituito un’agenzia nazionale di integrità, la cui principale attività è la raccolta e la verifica delle denunce, delle proteste e delle querele fatte da privati contro tutti coloro che hanno una posizione prestigiosa nello Stato, nei partiti, nelle chiese, nelle scuole, nei sindacati. La passione per le querele e la cultura del denuncio impongono, nella vita pubblica romena, i comportamenti con il più elevato grado di permissività morale” (pp. 86-87). Il punto di vista apocalittico dell’egregio professore appartiene alla più assurda fantasia. Secondo le realtà dei documenti internazionali, la Romania si trova agli ultimi posti, nella classifica dell’Unione Europea, per quanto riguarda le sanzioni decise contro la corruzione. Non l’ossessionante denuncia contro gli ipotetici delinquenti, come si immagina D. Barbu, ma tutt’al contrario, l’immunità dei grandi corrotti rappresenta, nelle statistiche europee, il nostro vero problema, che ci mantiene nel sottosviluppo economico.

Altrettanto fantasmagorica è un’altra impressione dello stesso ricercatore, spaventato dall’eventuale smascheramento dei collaborazionisti: “identificando, in nome e a spese dello Stato romeno, gli informatori della polizia segreta comunista nell’archivio della Securitate, C.N.S.A.S. studia, in realtà, la natura umana e deve valutare moralmente i comportamenti delle persone private. La natura del comunismo, in quanto regime politico repressivo, rimane, quindi, all’infuori delle sue legali preoccupazioni” (p. 85). Ovviamente il C.N.S.A.S. non è interessato a studiare qualsiasi comportamento privato (quante volte abbiamo mangiato, quante ore abbiamo dormito ecc.), ma solo quei fatti privati che hanno una rilevanza sociale (chi esattamente abbiamo denunciato alla polizia politica e, per conseguenza, a chi abbiamo bloccato la carriera, a chi abbiamo rovinato la famiglia, a chi abbiamo ristretto la libertà ecc.). Sarebbe triste se un professore universitario non facesse la differenza tra queste due categorie di fatti “privati”.

Altre furbizie messe in gioco dai contestatari dello studio sono piuttosto ingenue, ai limiti del ridicolo. Alex. Cistelecan, notando la proposta legislativa della Commissione Presidenziale, sull’incriminazione penale del negazionismo contro i crimini comunisti, finge di spaventarsi che una simile decisione potrebbe limitare, a se stesso, il diritto di criticare il Rapporto: “o siamo pienamente d’accordo con gli autori del Rapporto finale, e allora accompagniamo inutilmente il loro discorso; o non siamo totalmente d’accordo con loro, e allora siamo passibili di negazionismo e della punizione riguardante” (p. 106). E il sofisma viene rinforzato per ripetizione: “Negare o criticare Il Rapporto significa, implicitamente, negare i crimini del comunismo e, per via di conseguenza, significa farsi punire dal codice penale” (ibid.). Fino alla più spettacolare aberrazione – secondo cui l’obbligo di contestare Tismăneanu vale per una lotta a favore della libertà dell’espressione – è rimasto ancora un solo passo. E, infatti, la realtà è molto più semplice, anche se non si adegua agli adolescenziali processi delle intenzioni: Alex. Cistelecan assimila una raccomandazione in fase di proposta, con l’effettiva adozione di una legge; lui scambia il Rapporto con... gli stessi crimini del comunismo (!). Così come il dibattito scientifico in margine alle ricerche sull’Olocausto si svolge liberamente, da qualche decennio, invece la negazione della barbarie effettivamente accaduta è vietata per legge, lo stesso dovrebbe farsi anche per l’equivalente orrore del XXo secolo, il comunismo. Cistelecan jr. potrà stare, quindi, molto tranquillo: se si adottasse una simile legislazione, lui non finirebbe in carcere per aver commentato con sarcasmo il Rapporto di Tismăneanu, ma solo per l’eventuale contestazione delle realtà che hanno deformato la biografia dei suoi genitori e dei suoi nonni.

Adrian-Paul Iliescu, che prima del 1989 è stato, da quello che si scrive, un passionale propagandista politico, ammette oggi che il regime comunista si deve, indiscutibilmente, condannare. Meno male, facciamo comunque un passo avanti... Le sue riserve sono collegate, però, al contributo dei commentatori con atteggiamento chiaramente anticomunista, i quali sarebbero privi di legittimità e di oggettività, in questo campo di studio. Sul serio? Solo i comunisti avrebbero l’innata vocazione di biasimare il comunismo? Superiamo in volo d’uccello questa ipocrisia di dozzina (tutto sommato, Hitler o Goering non hanno stampato, nemmeno loro, ricerche accademiche sulle camere a gas). Adrian-Paul Iliescu, un vero conoscitore del fenomeno, dall’interno, potrà pubblicare con comodo il suo proprio Rapporto finale di condanna del comunismo.

C. Rogozanu dimostra, per quanto lo riguarda, un banale sofisma di inadeguatezza cronologica: lui deplora il presente corrotto e sostiene che, in un simile contesto, l’analisi critica del passato sarebbe comunque priva di senso: “Come mai permettersi un principio etico intransigente, nel regime democratico romeno in cui hanno trionfato i «valori» dell’ex-sistema (gli ufficiali della polizia politica sono stati e sono rimasti coinvolti negli affari romeni, le banche, le televisioni, le assicurazioni, gli immobiliari, tutti accompagnati dall’appoggio politico)?” (p. 178). Può avere anche lui ragione, parlando di adesso, come ha anche Tismăneanu ragione, mentre parla di allora. Comunque, è assurdo commentare la partita di calcio rimproverando ai giocatori che non ci mettono la mano, secondo le regole in pallamano.

In un discorso incendiario, che ostenta numerose carenze di logica e di buon senso, Andrei State riprende, tra l’altro, il noto ritornello di “Non era il momento giusto!”: “Se, subito dopo 22 dicembre 1989, come componente del processo rivoluzionario, la condanna [del comunismo] avesse avuto un senso, essa risulta adesso, in questa messa in scena, sospetta e piena di rancore” (p. 206). Purtroppo io non sono riuscito a sentire la voce di Andrei State, subito dopo il 22 dicembre 1989, mentre condannava il comunismo – a quei tempi, il primo piano era occupato da Ion Iliescu e dalla seconda fila tra le strutture comuniste rimanenti che avevano, certo, altre preoccupazioni. Ma il frenetico fariseo può stare tranquillo. I crimini fascisti sono analizzati anche adesso, dopo più di 50 anni. I crimini comunisti hanno, quindi, anch’essi il diritto di essere passati in rassegna, perfino con un ritardo di 20 anni.

Ciprian Şiulea è infastidito dal fatto che il Rapporto di Tismăneanu si sia proposto di fare un briciolo di giustizia, dando la parola alle vittime: “il punto di vista del documento, nel suo insieme, non doveva essere quello delle vittime del comunismo, perché si trattava di un approccio che voleva rappresentare l’intera società attuale” (p. 228). Insomma! Gli umiliati e gli offesi dovevano farsi sentire da qualche parte, perché la voce dei carnefici si sente comunque sempre, da tutte le parti. Però, pazienza, il ruolo degli attivisti e degli sbirri è coperto, con jodler insistenti, dallo stesso Şiulea. Con tali comunisti – tali analisti! Le ripugnanti invettive, che il commentatore sente l’obbligo di cospargere tra le impressioni provocategli dalla ricerca della Commissione Presidenziale (“È un atto primitivo dal punto di vista intellettuale e un campione almeno spiacevole di demagogia e di propaganda, che spinge la grandiloquenza e il tono bombastico fino all’indecenza”, p. 241), definiscono pienamente il suo proprio calibro concettuale e morale.

Non meritano più di una smorfia disprezzante le opinioni di un Ovidiu Ţichindeleanu, con la sua insolenza di esprimere i propri “dubbi etici [sic!! – L.A.] davanti all’intransigenza anticomunista postcomunista” (p. 247), oppure di un Dan Ungureanu, impegnato anche lui a raccontare, in registro frivolo, beffardo e menefreghista, gli eventi e i personaggi dei tempi passati. Cosa rispondere a colui che prende in giro l’orribile decreto del 1966, che vietava gli aborti e ordinava a tutte le donne del Paese di mettersi in fila davanti al ginecologo, quando quest’altro commentatore fa paragoni sarcastici con la Francia, dove l’aborto è stato liberalizzato soltanto nel 1974? Cosa replicare al giovanotto rimasto in estasi davanti alla “genialità” del mostruoso scrittore Eugen Barbu (“Ci sarà almeno una riga del romanzo Groapa-La Fossa che non sia grande letteratura?”, p. 274)? Nemmeno gridargli “Viva la faccia sua!”, perché sembra davvero sprovvisto di un simile accessorio.

In questo stagno grandiloquente e stupefacente, gli interventi che si ingegnano ancora a salvare le apparenze rischiano di farsi inghiottire dalla promiscuità circostante. Michael Shafir ha ragione a contestare la funzionalità di alcuni concetti usati dal Rapporto di Tismăneanu. Gabriel Andreescu sottolinea, in modo legittimo, la composizione discutibile ed eteroclita della Commissione Presidenziale, l’inadeguatezza terminologica e le improprietà stilistiche del testo analizzato, la lacunosa o inesistente caratterizzazione giuridica di alcuni fatti presentati.

Che cosa ci sarebbe da aggiungere? Durante la rivoluzione anticomunista in Romania quando, la sera del 21 dicembre 1989, per poco non sono rimasto ucciso in una sparatoria per le strade di Cluj, non mi sono immaginato che, dopo meno di vent’anni, avrei trovato nelle librerie un volume dal titolo L’Illusione dell’anticomunismo. Cioè, come sarebbe a dire? Le centinaia di persone che andavamo in marcia verso il centro città gridando “Abbasso Ceauşescu!”, “Abbasso il comunismo!” avevamo delle illusioni? Oppure i proiettili traccianti che hanno colpito l’asfalto, a qualche centimetro dalla mia testa, mentre ero crollato nel fango, sono stati una illusione? Oppure la giovane Luminiţa Mişan, colpita a morte dalle pallottole, pochi metri alla mia sinistra, è stata una illusione? Sfogliando, con questo tipo di esperienze, la presa di parola di un simile titolo, in cui alcuni intellettuali argomentano, con fievole destrezza, non contro gli abusi e i crimini dei comunisti, ma contro coloro che cercano di condannarli, ho sentito all’improvviso il fetore prodotto dal cocktail tra il gauchisme e il balcanismo. E non mi ha abbandonato il pensiero che alcuni di noi siamo usciti a protestare contro il comunismo, rischiando o sacrificando la nostra vita, solo perché altri si godano la libertà di recriminare l’acquisizione di questa stessa libertà.

(gennaio 2009)