Laszlo Alexandru
COME FU TEMPRATO L’ACETO
Sono
convinto che, negli anni successivi alla sconfitta dell’hitlerismo, nessun intellettuale
tedesco avrebbe avuto il coraggio di pubblicare un libro dal titolo L’Illusione dell’antifascismo. Ma dalle nostre
parti, nei Balcani, dove la sfacciataggine rappresenta la principale unità di misura del valore individuale, un gruppo di
intellettuali romeni ha progettato la propria affermazione, a pochi anni dalla
caduta del ceausismo, per mezzo del volume L’Illusione
dell’anticomunismo.
Il pretesto
superficiale è collegato ad alcune dissociazioni nei confronti del Rapporto Finale, pubblicato dalla Commissione
Presidenziale per l’Analisi della Dittatura Comunista in Romania, coordinato da
Vladimir Tismăneanu. In essenza, però, un gruppo di pensatori cerca di screditare
l’attività di ricerca e la globale condanna del comunismo in Romania, compiuta da
un altro gruppo di pensatori. Ecco una strana situazione, che vale la pena di
essere considerata con piena attenzione. Gli autori contestatari sono disposti in
ordine alfabetico e, con un’ampia diversità di motivazioni e strategie, si
esibiscono sotto la direzione di quattro giovani coordinatori: Vasile Ernu,
Costi Rogozanu, Ciprian Şiulea e Ovidiu Ţichindeleanu.
Altri
scrittori, favorevoli al Rapporto pubblicato
da V. Tismăneanu, hanno rifiutato di partecipare alle feste invernali agevolate
dall'opuscoletto ribelle. Sarà stato per le assurde premesse con le quali gli anti-anticomunisti
iniziavano il loro viaggio, sin dalle prime frasi? “La presente antologia è nata come reazione al dibattito pubblico
anemico e povero in contenuti intellettuali intorno al Rapporto di condanna del
comunismo in Romania e intorno all’intera azione che aveva accompagnato la produzione
e la promozione di tale atto. Sullo sfondo di un pubblico interesse molto
scarso, grande parte degli autori del Rapporto e di coloro coinvolti in questo
processo hanno rifiutato di giustificare le loro opzioni e, in genere, di
discutere in modo applicato dei significati e delle conseguenze del comunismo
in Romania...” (p. 5). Be’, se il pubblico interesse è stato davvero “molto scarso”, perché mai avrebbero
dovuto giustificare, in seguito, gli autori del Rapporto... le loro opzioni? La logica dell’argomentazione rivela una
sincope, sin dalle prime righe dei detrattori.
Il
libro portato alla luce da ben quattro matrigne è venuto fuori piuttosto
malfatto. Permettendosi di lanciare accuse di inconseguenza contro un’altra
ricerca collettiva, avremmo apprezzato se non fosse stata, a sua volta, piena di
incongruenze. Purtroppo, è così. Ecco, per esempio, Florin Abraham che rimprovera
al Rapporto di Tismăneanu che, nel discorso sul passato comunista, stia
nascondendo un’importante scommessa politica del presente (“Ha la pretesa di ufficializzare una prospettiva sul passato recente della
Romania”, p. 8). Al contrario, Daniel Barbu imputa allo stesso Rapporto di Tismăneanu che, artificialmente, stacca il comunismo dalla
causalità politica del presente, per diverse finalità di manipolazione (“una strategia eminamente politica, in cui
viene circoscritto il presente, nei confronti della storia recente, e il
comunismo viene spinto lontano in un tempo revoluto e si nega il valore
politico che il recente passato potrebbe ancora avere, in qualità di esperienza
sociale”, p. 72). Ora, se la società comunista descritta dallo studio della
commissione presidenziale influisca sul nostro presente ovvero se, tutt’anzi, essa
galleggi staccata in un vago indefinito, i lettori del libricino denigratore
non riescono a capirlo fino in fondo.
Florin Abraham ammonisce poi Vladimir Tismăneanu
per aver ripreso dei brani della Dichiarazione anticomunista di Timişoara,
coinvolgendosi in questo modo, da partigiano, nelle battaglie politiche. Ecco
però che Gabriel Andreescu, il successivo autore in ordine alfabetico, sta elogiando
la stessa scelta, perché “la Proclamazione
di Timişoara è stata assunta da un grande numero di cittadini e di organizzazioni
e rimane, probabilmente, la dichiarazione anticomunista più popolare dopo il
1989, con la maggiore forza di attivizzazione” (p. 45). Che cosa ci sarebbe
da capire? Per non dire niente del fatto che le simpatie politiche presidenziali
di Vl. Tismăneanu sono rimproverate, in nome... dell’oggettività epistemologica,
dallo stesso “direttore scientifico dell’Istituto
«Ovidiu Şincai»” (ovviamente, del P.S.D.)! Sarebbe divertente, se non
fosse troppo triste... Sempre Florin Abraham insiste sull’idea che il vero processo
del comunismo “non debba sostenere le
colpevolezze collettive, e le punizioni morali o penali si debbano adeguare alla
gravità dei fatti” (p. 37), tralasciando l’aspetto che, il più spesso delle
volte, coloro che commettevano i misfatti politici durante il comunismo lo facevano
costretti proprio dal sistema, in virtù della loro posizione e dando la colpa
alle circostanze. Così viene tracciato, con perfidia, un meraviglioso circolo
vizioso: la colpa, nel comunismo, non è stata collettiva, perché è stata dovuta
a certe persone; ma essa non è stata neanche individuale, perché le persone hanno
dato la colpa al sistema. Tuttavia, quando il Rapporto di Tismăneanu cerca di cacciare via una tale tendenziosa
ambiguità, facendo un preciso elenco della nomenklatura e particolareggiando, così,
la colpa, la sua azione viene respinta con sufficienza perché, tanto per dire,
sarebbe priva di una chiara gerarchia della colpevolezza. Florin Abraham si dimostra
inconseguente e contraddittorio, se ci manteniamo soltanto al vocabolario
eufemistico.
Ma per fortuna arriva Daniel Barbu e rimprovera al Rapporto coordinato da Vladimir Tismăneanu,
proprio al contrario, il tentativo “di esonerare
sia lo Stato, che la società romena nel suo insieme, dalla responsabilità
politica per i fatti costitutivi, repressivi e produttivi di un regime”
comunista (p. 72). Ecco che, lungo il comunismo, non si può attribuire una colpa
collettiva (dal punto di vista di Florin Abraham), invece l’esonero della società
dalla colpa collettiva rappresenta un difetto del Rapporto di Tismăneanu (dal punto di vista di Daniel Barbu).
Non si capisce più nulla!
È interessante leggere questo libricino per trovarci
delle contraddizioni non solo tra i dodici autori, ma anche tra le affermazioni
dello stesso artefice. Secondo Daniel Barbu, il Rapporto di Tismăneanu rappresenta solo un’operazione scientifica
“destinata a coprire un deficit di natura
politica” (p. 73). Comunque, due frasi più tardi, tutt’al contrario, “le virtù del Rapporto si dimostrano piuttosto politiche, e non scientifiche”
(p. 74). Quanta scienza e quanta politica ci sarà nel libro analizzato, nemmeno
l’intelligenza di D. Barbu ce lo potrebbe chiarire.
Leggiamo e ci stupiamo, poi, a vedere la disinvoltura
con cui i contestatari calpestano le più chiare evidenze. Così, il professor Daniel
Barbu si schiera contro “l’incapacità dei
responsabili politici di pronunciarsi apertamente sul defunto regime...” (p. 73). Ricordiamo al sig. Barbu la clamorosa
riunione di entrambe le Camere parlamentari, davanti alle quali il presidente
Băsescu ha condannato in parole chiare il defunto regime comunista, come
illegittimo e criminale. Lo stesso ricercatore considera poi le raccomandazioni
del Rapporto di Tismăneanu, sull’organizzazione
di conferenze internazionali, trasmissioni televisive, esposizioni permanenti, libri
scolastici e modifiche legislative per far conoscere meglio il passato comunista,
tutt’al contrario, come un tentativo di nascondere quel passato (“Il comunismo romeno è, quindi, immaginato come
un oggetto ristretto, con l’accesso limitato, controllato, organizzato e
reglementato, che ha dei curatori e delle guide autorizzate, che può essere esposto
e contemplato, ma che, dopo essere stato fissato in museo, non fa parte più del
presente”, p. 79). Come mai? Lo studio organizzato e istituzionalizzato di un
fenomeno ne determina la distruzione?! Ecco una logica indegna di uno
scienziato.
Altro perseverente denigratore della ricerca e della condanna
del passato comunista, Ciprian Şiulea, non si vergogna, a sua volta, di contraddire
le evidenze vissute da tutti i romeni. Così, Şiulea si inventa tre
categorie di cittadini esistenti durante il comunismo. Una minoranza di vittime
effettive (“coloro uccisi, gettati in
prigione, aggrediti fisicamente e psichicamente, espropriati, perseguitati ecc.”),
un numero alquanto maggiore di “vittime
soft del comunismo” (coloro privati dalle libertà di espressione, di
viaggio, di associazione ecc.) e la grande maggioranza degli altri (“un numero ancor più grande di persone,
però, non credo possano essere considerate vittime, perché loro stesse non si ritenevano
come tali”, p. 227). Da questa falsa tassonomia postfabbricata si potrebbe
dedurre che i più dei romeni avessero goduto, comunque, delle più ampie libertà,
che avessero viaggiato, che si fossero espressi senza inibizioni, che avessero costituito
dei partiti politici e dei sindacati liberi, che avessero serenamente approfittato
dei benefici del comunismo autoctono. Perché mai questo Ciprian Şiulea
mente a faccia tosta?!
Comunque, per più grande chiarezza, propongo anch’io una
tassonomia a mo’ d’esempio e dello stesso impressionante livello d’intelligenza:
ci sono al mondo tre categorie di persone: coloro dagli occhi verdi, coloro dagli
occhi castani e la grande maggioranza degli altri, che indossano i blue jeans...
Una pietosa furbizia dei contestatari del Rapporto di Tismăneanu è dovuta all’invocazione di personalità scientifiche notevoli. Così, il professor Daniel Barbu, rifacendosi alle conclusioni di una pubblicazione bruxellese, ci informa sull’“idea weberiana delle scienze sociali come scienze dell’esperienza, che non si propongono (e forse non ne sono nemmeno capaci) di scoprire delle norme a carattere imperativo, le quali potrebbero ulteriormente guidare la pratica sociale; a differenza delle scienze naturali, le scienze sociali non spiegano e non producono delle istruzioni per l’uso dei fatti e degli eventi studiati, invece tentano a capire il sistema di sensi lasciato dietro a sé da una puntuale esperienza di una puntuale società” (p. 78). Dopo la messa in circolazione di questa aberrazione, secondo cui le scienze sociali dovrebbero non spiegare, ma soltanto capire (come se qualsiasi comprensione non fosse necessariamente collegata a una spiegazione e viceversa!), l’imbecillità nascosta sotto l’ombrello di Max Weber continua la sua vita fiorente e acquisisce le qualità magiche di un passe-partout. Eccone i risultati concreti, come sono stati registrati con sarcasmo da un giornalista di Bucarest, durante la presentazione del libro sull’Illusione dell’anticomunismo: “Ho voluto mettere a prova il loro coraggio intellettuale e rivoluzionario e ho chiesto, in nome di tutti noi, perché ci togliessero dal nostro stato di stupidità: «Il comunismo è stato bello o brutto, doveva essere condannato o meno?». Le grandi coscienze dell’umanità sono rimaste un po’ confuse. Mi hanno balbettato una risposta di un quarto d’ora, sull’approccio «neoweberiano» del problema, da cui, secondo il detto del mio amico, il Gatto, ho capito che «ne parleremo ancora in silenzio»” (George Scarlat, I pappagalli anti-anti-comunisti, in Ziua, 26.11.2008).
In
realtà, Max Weber ha mostrato, lungo la sua esistenza, un perseverente impegno
nelle realtà sociali e politiche del suo tempo: da volontario sul fronte, nella
prima guerra mondiale, da negoziatore della pace, da riformatore della Costituzione
tedesca (il famoso Articolo 48), da fondatore di un partito politico ecc. Nel
libro considerato la più importante ricerca sociologica del XXo
secolo, Économie et société, Weber
proclama appunto l’interdipendenza tra la comprensione
per mezzo dell’interpretazione e la spiegazione
causale: “Nous appelons sociologie une
science qui se propose de comprendre par interprétation l'action sociale et par
là d’expliquer causalement son déroulement et ses effets”. Nella sua
attività, invece di chiudere in recipienti ermetici ogni singola disciplina, ha
contribuito a un approccio interdisciplinare della sociologia, della storia,
dell’economia politica, della politologia e della filosofia culturale. Parlando
apertamente del rapporto tra scienza e politica, nella conferenza pubblicata poi in
Francia con il titolo Le savant et le politique,
Max Weber condanna, davvero, l’ingresso del messaggio politico tra le mura dell’Università
e la sua propagazione dalla cattedra. La necessità della neutralità politica degli
insegnanti, nell’esercizio delle loro funzioni professionali, non impedisce
tuttavia la loro ulteriore uscita nello spazio pubblico, anche se lo scienziato
tedesco ne dubita l’efficienza: “On
dit, et j’y souscris, que la politique n’a pas sa place dans la salle de cours
d’une université. (...) Si l’on me
demandait maintenant pourquoi cette dernière série de questions doit être
exclue d‘un amphithéâtre, je répondrai que le prophète et le démagogue n’ont
pas leur place dans une chaire universitaire. Il est dit au prophète aussi bien
qu’au démagogue: «Va dans la rue et parle en public», ce qui veut dire là où l’on
peut te critiquer. Dans un amphithéâtre au contraire on fait face à son auditoire
d’une tout autre manière: le professeur y a la parole, mais les étudiants sont
condamnés au silence. Les circonstances veulent que les étudiants soient
obligés de suivre les cours d’un professeur en vue de leur future carrière et
qu’aucune personne présente dans la salle de cours ne puisse critiquer le
maître. Aussi un professeur est-il inexcusable de profiter de cette situation
pour essayer de marquer ses élèves de ses propres conceptions politiques au
lieu de leur être utile, comme il en a le devoir, par l’apport de ses
connaissances et de son expérience scientifique”.
Se adattiamo la penetrante osservazione weberiana alla
realtà romena, si può affermare che l’atteggiamento di Nae Ionescu, professore
che aveva attirato, durante la seconda guerra mondiale, i suoi discepoli all’adesione
fascista, abbusando, dall’altezza della cattedra, del suo statuto magistrale,
rimane profondamente condannabile. Al contrario, se Vladimir Tismăneanu ha
lasciato oggi le mura universitarie per la ricerca, a finalità educativa, dei
disastri prodotti dal regime comunista, questo non si può, nemmeno
(neo)weberianamente parlando, condannare, poiché l’oratore si è pienamente assunto
il rischio di parlare davanti a un pubblico libero di valutare in modo critico
i suoi argomenti.
Sono fastidiosi anche altri sforzi fatti da Daniel
Barbu per contraddire i fatti più evidenti. Così il Rapporto finale, che si
concentra a mettere in luce i terribili effetti del comunismo in Romania e si conclude
con un elenco nominale della nomenklatura, viene accusato, nonostante le evidenze,
che potrebbe trasmettere un messaggio falsificatore: “il comunismo romeno è esistito, ma all’infuori delle persone della sua
contemporaneità, esso ha avuto forse degli agenti, ma, in fin dei conti, è stato
privo di sostanza” (p. 72). Probabilmente D. Barbu non ha letto con la mente
chiara il libro di cui ha scritto.
E l’universitario di Bucarest combatte non solo il
passato storico, ma anche la realtà contemporanea. Lui se la prende, per
esempio, con la terribile mania dei denunci di oggi: “La stampa romena del momento ha l’aspetto dei giornali americani di un
secolo fa: lo smascheramento e la denuncia degli uomini politici, con o senza
prove, stabilisce la misura dell’impegno civico. Il Ministero dell’Educazione
Nazionale incoraggia istituzionalmente gli studenti a denunciare i loro professori.
Gli insegnanti costituiti in associazioni civiche denunciano globalmente e in anticipo
tutti i loro colleghi, sia presso il C.N.S.A.S. [Consiglio Nazionale per lo
Studio degli Archivi della Securitate], quanto
presso le istituzioni abilitate a verificare le dichiarazioni dei redditi degli
alti dignitari. Le coalizioni della società civile fanno l’inventario delle
proteste formulate contro i candidati alle elezioni parlamentari e lo
distribuiscono in ampia tiratura. Il Governo e il Parlamento hanno costituito un’agenzia
nazionale di integrità, la cui principale attività è la raccolta e la verifica delle
denunce, delle proteste e delle querele fatte da privati contro tutti coloro che
hanno una posizione prestigiosa nello Stato, nei partiti, nelle chiese, nelle scuole,
nei sindacati. La passione per le querele e la cultura del denuncio impongono,
nella vita pubblica romena, i comportamenti con il più elevato grado di permissività
morale” (pp. 86-87). Il punto di vista apocalittico dell’egregio professore
appartiene alla più assurda fantasia. Secondo le realtà dei documenti internazionali,
la Romania si trova agli ultimi posti, nella classifica dell’Unione Europea, per
quanto riguarda le sanzioni decise contro la corruzione. Non l’ossessionante
denuncia contro gli ipotetici delinquenti, come si immagina D. Barbu, ma
tutt’al contrario, l’immunità dei grandi corrotti rappresenta, nelle statistiche
europee, il nostro vero problema, che ci mantiene nel sottosviluppo economico.
Altrettanto fantasmagorica è un’altra impressione dello
stesso ricercatore, spaventato dall’eventuale smascheramento dei collaborazionisti:
“identificando, in nome e a spese dello Stato
romeno, gli informatori della polizia segreta comunista nell’archivio della Securitate,
C.N.S.A.S. studia, in realtà, la natura umana e deve valutare moralmente i
comportamenti delle persone private. La natura del comunismo, in quanto regime
politico repressivo, rimane, quindi, all’infuori delle sue legali preoccupazioni”
(p. 85). Ovviamente il C.N.S.A.S. non è interessato a studiare qualsiasi comportamento
privato (quante volte abbiamo mangiato, quante ore abbiamo dormito ecc.), ma
solo quei fatti privati che hanno una rilevanza sociale (chi esattamente abbiamo
denunciato alla polizia politica e, per conseguenza, a chi abbiamo bloccato la carriera,
a chi abbiamo rovinato la famiglia, a chi abbiamo ristretto la libertà ecc.). Sarebbe
triste se un professore universitario non facesse la differenza tra queste due
categorie di fatti “privati”.
Altre furbizie messe in gioco dai contestatari dello
studio sono piuttosto ingenue, ai limiti del ridicolo. Alex. Cistelecan, notando
la proposta legislativa della Commissione Presidenziale, sull’incriminazione
penale del negazionismo contro i crimini comunisti, finge di spaventarsi che una
simile decisione potrebbe limitare, a se stesso, il diritto di criticare il Rapporto: “o siamo pienamente d’accordo con gli autori del Rapporto finale, e allora accompagniamo inutilmente il loro discorso;
o non siamo totalmente d’accordo con loro, e allora siamo passibili di negazionismo
e della punizione riguardante” (p. 106). E il sofisma viene rinforzato per
ripetizione: “Negare o criticare Il Rapporto
significa, implicitamente, negare i crimini del comunismo e, per via di conseguenza,
significa farsi punire dal codice penale” (ibid.). Fino alla più spettacolare aberrazione – secondo cui l’obbligo
di contestare Tismăneanu vale per una lotta a favore della libertà dell’espressione
– è rimasto ancora un solo passo. E, infatti, la realtà è molto più semplice, anche
se non si adegua agli adolescenziali processi delle intenzioni: Alex.
Cistelecan assimila una raccomandazione
in fase di proposta, con l’effettiva adozione di una legge; lui scambia il Rapporto con... gli stessi crimini del comunismo
(!). Così come il dibattito scientifico in margine alle ricerche sull’Olocausto
si svolge liberamente, da qualche decennio, invece la negazione della barbarie
effettivamente accaduta è vietata per legge, lo stesso dovrebbe farsi anche per
l’equivalente orrore del XXo secolo, il comunismo. Cistelecan jr.
potrà stare, quindi, molto tranquillo: se si adottasse una simile legislazione,
lui non finirebbe in carcere per aver commentato con sarcasmo il Rapporto di Tismăneanu, ma solo per
l’eventuale contestazione delle realtà che hanno deformato la biografia dei
suoi genitori e dei suoi nonni.
Adrian-Paul Iliescu, che prima del 1989 è stato, da quello
che si scrive, un passionale propagandista politico, ammette oggi che il regime
comunista si deve, indiscutibilmente, condannare. Meno male, facciamo comunque
un passo avanti... Le sue riserve sono collegate, però, al contributo dei commentatori
con atteggiamento chiaramente anticomunista, i quali sarebbero privi di legittimità
e di oggettività, in questo campo di studio. Sul serio? Solo i comunisti avrebbero
l’innata vocazione di biasimare il comunismo? Superiamo in volo d’uccello questa
ipocrisia di dozzina (tutto sommato, Hitler o Goering non hanno stampato,
nemmeno loro, ricerche accademiche sulle camere a gas). Adrian-Paul Iliescu, un
vero conoscitore del fenomeno, dall’interno, potrà pubblicare con comodo il suo
proprio Rapporto finale di condanna del
comunismo.
C. Rogozanu dimostra, per quanto lo riguarda, un banale
sofisma di inadeguatezza cronologica: lui deplora il presente corrotto e sostiene
che, in un simile contesto, l’analisi critica del passato sarebbe comunque
priva di senso: “Come mai permettersi un
principio etico intransigente, nel regime democratico romeno in cui hanno trionfato
i «valori» dell’ex-sistema (gli ufficiali della polizia politica sono stati e
sono rimasti coinvolti negli affari romeni, le banche, le televisioni, le assicurazioni,
gli immobiliari, tutti accompagnati dall’appoggio politico)?” (p. 178). Può
avere anche lui ragione, parlando di adesso,
come ha anche Tismăneanu ragione, mentre parla di allora. Comunque, è assurdo commentare la partita di calcio rimproverando
ai giocatori che non ci mettono la mano, secondo le regole in pallamano.
In un discorso incendiario, che ostenta numerose carenze
di logica e di buon senso, Andrei State riprende, tra l’altro, il noto ritornello
di “Non era il momento giusto!”: “Se, subito
dopo 22 dicembre 1989, come componente del processo rivoluzionario, la condanna
[del comunismo] avesse avuto un senso,
essa risulta adesso, in questa messa in scena, sospetta e piena di rancore”
(p. 206). Purtroppo io non sono riuscito a sentire la voce di Andrei State, subito
dopo il 22 dicembre 1989, mentre condannava il comunismo – a quei tempi, il primo
piano era occupato da Ion Iliescu e dalla seconda fila tra le strutture comuniste
rimanenti che avevano, certo, altre preoccupazioni. Ma il frenetico fariseo può
stare tranquillo. I crimini fascisti sono analizzati anche adesso, dopo più di
50 anni. I crimini comunisti hanno, quindi, anch’essi il diritto di essere passati
in rassegna, perfino con un ritardo di 20 anni.
Ciprian Şiulea è infastidito dal fatto che il Rapporto di Tismăneanu si sia proposto
di fare un briciolo di giustizia, dando la parola alle vittime: “il punto di vista del documento, nel suo
insieme, non doveva essere quello delle vittime del comunismo, perché si
trattava di un approccio che voleva rappresentare l’intera società attuale”
(p. 228). Insomma! Gli umiliati e gli offesi dovevano farsi sentire da qualche
parte, perché la voce dei carnefici si sente comunque sempre, da tutte le parti.
Però, pazienza, il ruolo degli attivisti e degli sbirri è coperto, con jodler
insistenti, dallo stesso Şiulea. Con tali comunisti – tali analisti! Le
ripugnanti invettive, che il commentatore sente l’obbligo di cospargere tra le impressioni
provocategli dalla ricerca della Commissione Presidenziale (“È un atto primitivo dal punto di vista intellettuale
e un campione almeno spiacevole di demagogia e di propaganda, che spinge la grandiloquenza
e il tono bombastico fino all’indecenza”, p. 241), definiscono pienamente il
suo proprio calibro concettuale e morale.
Non meritano più di una smorfia disprezzante le opinioni
di un Ovidiu Ţichindeleanu, con la sua insolenza di esprimere i propri “dubbi etici [sic!! – L.A.] davanti all’intransigenza anticomunista
postcomunista” (p. 247), oppure di un Dan Ungureanu, impegnato anche lui a
raccontare, in registro frivolo, beffardo e menefreghista, gli eventi e i
personaggi dei tempi passati. Cosa rispondere a colui che prende in giro l’orribile
decreto del 1966, che vietava gli aborti e ordinava a tutte le donne del Paese
di mettersi in fila davanti al ginecologo, quando quest’altro commentatore fa paragoni
sarcastici con la Francia, dove l’aborto è stato liberalizzato soltanto nel
1974? Cosa replicare al giovanotto rimasto in estasi davanti alla “genialità” del
mostruoso scrittore Eugen Barbu (“Ci sarà
almeno una riga del romanzo Groapa-La
Fossa che non sia grande letteratura?”, p. 274)? Nemmeno gridargli
“Viva la faccia sua!”, perché sembra davvero sprovvisto di un simile
accessorio.
In questo stagno grandiloquente e stupefacente, gli interventi
che si ingegnano ancora a salvare le apparenze rischiano di farsi inghiottire dalla
promiscuità circostante. Michael Shafir ha ragione a contestare la funzionalità
di alcuni concetti usati dal Rapporto di
Tismăneanu. Gabriel Andreescu sottolinea, in modo legittimo, la composizione
discutibile ed eteroclita della Commissione Presidenziale, l’inadeguatezza
terminologica e le improprietà stilistiche del testo analizzato, la lacunosa o inesistente
caratterizzazione giuridica di alcuni fatti presentati.
Che cosa ci sarebbe da aggiungere? Durante la
rivoluzione anticomunista in Romania quando, la sera del 21 dicembre 1989, per poco
non sono rimasto ucciso in una sparatoria per le strade di Cluj, non mi sono immaginato
che, dopo meno di vent’anni, avrei trovato nelle librerie un volume dal titolo L’Illusione dell’anticomunismo. Cioè, come
sarebbe a dire? Le centinaia di persone che andavamo in marcia verso il centro città
gridando “Abbasso Ceauşescu!”, “Abbasso il comunismo!” avevamo delle illusioni?
Oppure i proiettili traccianti che hanno colpito l’asfalto, a qualche
centimetro dalla mia testa, mentre ero crollato nel fango, sono stati una illusione?
Oppure la giovane Luminiţa Mişan, colpita a morte dalle pallottole, pochi
metri alla mia sinistra, è stata una illusione? Sfogliando, con questo tipo di
esperienze, la presa di parola di un simile titolo, in cui alcuni intellettuali
argomentano, con fievole destrezza, non contro gli abusi e i crimini dei comunisti,
ma contro coloro che cercano di condannarli, ho sentito all’improvviso il
fetore prodotto dal cocktail tra il gauchisme
e il balcanismo. E non mi ha abbandonato il pensiero che alcuni di noi siamo
usciti a protestare contro il comunismo, rischiando o sacrificando la nostra vita,
solo perché altri si godano la libertà di recriminare l’acquisizione di questa stessa
libertà.
(gennaio 2009)