Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


«LA SINTESI DEI SUOI TEMPI»

SESTO DIALOGO

2 luglio 2007



O.P.: Lo spirito geometrico si manifesta nella principale opera di Dante, la Divina Commedia, molto prima di Spinoza, che concepiva la sua etica «more geometrico», in uno spirito geometrico. Come mai questa scelta di organizzare razionalmente un universo, sia nella sua parte visibile, quanto in quella trascendente? Benché egli si riferisca al mondo dell’aldilà, che il protagonista percorre, tuttavia le proiezioni di questo mondo si mantengono, come sappiamo. Coloro finiti nell’Inferno, nel Purgatorio o nel Paradiso si portano addosso i fatti compiuti nella vita terrena. Loro sono puniti o ricompensati per i peccati e per le virtù, secondo le promese della Chiesa. Come ti sembra quest’idea? È come se un geometra avesse cominciato a tirare le sue linee. D’altronde ci sono anche molte rappresentazioni dell’altro mondo, conformemente alla visione di Dante. Come mai si manifestano, in un poeta, visioni del genere?

L.A.: Andiamo avanti con i nostri dialoghi su Dante, dopo un anno e mezzo circa di pausa. Abbiamo attraversato la sua opera cosiddetta minore. Abbiamo dialogato sui suoi scritti in latino e sulle creazioni che prefigurano la Divina Commedia, che preannunciano qualcosa di quello che Dante voleva dirci. Veniamo alla domanda che mi hai fatto. Questa situazione razionale ci può sembrare molto strana, adesso, nel secolo XXI. In modo inspiegabile, la mentalità (post)moderna ha diviso il mondo in una zona dell’intelletto e una dell’anima. La zona intellettuale, «razionale», fa i calcoli e le analisi molto precise della realtà concreta, fisica, scientifica, mentre il mondo dello spirito, dell’anima, della fede ci parla di metafisica, di Dio, di cose astratte. Questa divisione, che per noi è ormai assolutamente normale, non era valida nel Medioevo! L’intero periodo era segnato dalla concezione in base a cui la fede si potesse confermare, si potesse dimostrare per mezzo della ragione. Il più grande filosofo del tempo, San Tommaso d’Aquino, che Dante ammira e segue, ha avuto l’ambizione di dimostrare con la sua logica, quasi per sillogismi, l’esistenza di Dio e il fatto che siamo tutti quanti vassalli, nella nostra vita, davanti a questa presenza suprema del Creatore. Quindi nel Medioevo non c’era un distacco tra la ragione, da una parte, e la fede, da un’altra parte. Una battuta preferita oggi, ripresa anche da N. Steinhardt nel Diario della felicità (Jurnalul fericirii), è «credo quia absurdum» (credo perché è assurdo). A quei tempi niente era assurdo! L’esistenza di Dio era «dimostrabile», secondo ragionamenti concatenati.

O.P.: Qui concedimi di intervenire. La tua visione senz’altro utile e, credo, didattica, rischia di semplificare alquanto il Medioevo. Le cose stavano così come dici, ma quando Tommaso d’Aquino cercava di imporre questa visione e alla fine ci riusciva, si trattava di una concezione rivoluzionaria! Infatti il Medioevo era pieno di paure, di angosce fondate su quello che pareva irrazionale, su quanto sembrava essere il trascendente che invadeva la realtà. C’era l’invasione dei tartari o dei normanni – questo era punizione di Dio, inattesa, ma meritata! I tempi erano considerati apocalittici non solo intorno all’anno Mille. Se guardiamo le sculture sui frontoni, sulle facciate e all’interno delle grandi chiese romaniche, vediamo – come lo notavano, per giusta ragione, Henri Focillon e tanti altri – diverse creature senza una reale equivalenza, il frutto di terribili fantasmi che ossessionavano la gente e che erano assolutamente privi di una traccia razionale. Credo che quello che tu dici e quello che realmente poi si è anche imposto come visione dominante – almeno nella Chiesa Cattolica, che non era unica, ha avuto anch’essa i suoi scismi e le sue eresie – sia stato una vera rivoluzione, messa in atto da un erudito, un uomo di elevata spiritualità, parliamo di San Tommaso, certo, ma che è stato anche un visionario, e allo stesso tempo anche un razionalista, a suo modo, che ha cercato di trasporre nel campo della ragione tutto questo, di dare una guida, una sistemazione, una cartografia di tutti i paesaggi con rilevanza metafisica. Che ne dici?

L.A.: L’apparizione di Dante, nella zona letteraria, fa soprattutto questo: impone il punto di vista razionale sulla religione, che San Tommaso sosteneva e promuoveva. È una verità estesa nella spiritualità medievale…

O.P.: …occidentale, comunque. Ma forse mi aiuti a capire se Dante sia quello che impone la visione tomistica nella letteratura, nella poesia epica, o egli è piuttosto colui che svela la nuova alba, di un’altra sensibilità, di un nuovo mondo che sarebbe stato quello dell’Umanesimo, del Rinascimento. E allora non so in che misura l’Umanesimo e il Rinascimento si trovino ancora sotto il mantello, sotto la divisa monacale di San Tommaso.

L.A.: Questo è un tema estremamente interessante: della periodizzazione e della cronologia. Ti faccio un esempio alquanto diverso: se avessi chiesto agli intellettuali interbellici in quale periodo si trovavano loro, nessuno ti avrebbe detto di appartenere alla zona interbellica. Nessuno poteva sapere, ovviamente, che ci sarebbe stata la seconda guerra mondiale! Quindi, in fin dei conti, possiamo stabilire le grandi tappe soltanto in un momento ulteriore (lo diceva G. Călinescu, quando sottolineava che il Rinascimento o il Romanticismo rappresentano, infatti, la forma immaginata, concettualizzata, che Jakob Burckhardt o Madame de Staël avevano attribuito ad alcune realtà del passato). Anche questo può essere un interessante dibattito: Dante è medievale o meno?

O.P.: Io penso qui non tanto alla cronologia dei fatti, quanto alla loro tipologia.

L.A.: Sì. Nelle nostre precedenti discussioni ci riferivamo a Ulisse, del canto XXVI dell’Inferno, un personaggio di stampo rinascimentale, che supera il suo tempo. O ricordavamo Francesca da Rimini, del canto V dell’Inferno, un personaggio di stampo romantico. Il confronto, nella sua situazione, avviene tra il legittimo dovere nei confronti del marito e l’amore illegittimo, passionale, carnale, per il cognato. Ecco che ci sono accenti che superano le mentalità di quel momento. Tuttavia l’idea più diffusa e più affidabile è che Dante rappresenti la sintesi del Medioevo. Anche se esprime certe premonizioni, egli è essenzialmente un medievale: nella concezione filosofica profondamente indebitata con San Tommaso, per quanto riguarda l’intreccio della fede con la ragione, che rappresenta la colonna vertebrale della Divina Commedia, o nello spirito geometrico, che hai ricordato all’inizio della nostra conversazione. L’universo metafisico che egli immagina, prima, e dipinge poi nella Commedia, non si costituisce intorno a una persona, come sarebbe successo poi in Petrarca. Il poeta umanista ci parla a lungo di Laura, delle sofferenze e della gioia che il suo amore provoca. In Dante, invece, l’universo gira intorno a Dio, che ha creato l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Dio è quello che decide il posto del più piccolo insetto in questo Cosmo, che rappresenta un sistema armonioso, preciso, ripreso dal pensiero greco. Abbiamo davanti agli occhi l’ordine dell’insieme. Con la caduta del Medioevo, l’«ordine» scompare. Nel Rinascimento ormai avvengono le grandi scoperte geografiche, le grandi avventure, l’essere umano arriva al primo piano dei pittori, degli scultori, degli scrittori ecc. Con Dante non siamo ancora in questa tappa. Dio è ancora onnipossente.

O.P.: La mia opinione è diversa! Io credo, per esempio, che utilizzare Virgilio da guida e evocare Ulisse, nonché tutta questa visione di grande precisione, a suo modo, di spirito geometrico, appartengano piuttosto ai nuovi tempi. Ho la tendenza di vedere il Medioevo come un periodo buio e asimmetrico. Comunque meno preoccupato di un equilibrio che voleva imitare l’antichità classica, greco-latina. Forse abbiamo tutti e due ragione, o forse ci sbagliamo entrambi. O, chi lo sa, avrà ragione solo uno di noi. Ma secondo me, in un certo senso, Dante rimane un precursore, o l’esponente di una mentalità che sta cambiando. Troviamo questo spirito geometrico anche in Michelangelo, nonché in tutti i i grandi architetti del Rinascimento che erano sia pittori, sia poeti. Dante, da questo punto di vista, non rappresenta una eccezione. Il fattto che sia un diplomatico e che scriva allo stesso tempo delle poesie e che pensi l’universo in modo geometrico e che sia grande padrone dei segreti della metafisica cristiana (cattolica, ma questo è meno importante) non fa di lui un solitario, ma forse un precursore. Comunque non era una presenza singolare, se non per l’ampiezza della sua opera e della sua visione. Egli è tuttavia attaccato al Dolce stil nuovo, come abbiamo già visto, si trova in una specie di avanguardia (sebbene questo termine sia troppo moderno per descrivere quello che succedeva). In tale senso, mi sembra degno notare che Dante può essere considerato – cronologicamente parlando questa volta – come il primo di tutt’una fila di personalità incluse in questo modo di vedere le cose. Non andrei così lontano a vedere in lui un geniale precursore della fisica moderna o perfino postmoderna, se possiamo parlare di qualcosa del genere. Ma a me sembra molto vicino, come tipo di sensibilità – tu dici: a Tommaso d’Aquino –, io dico: all’ebreo che limava lenti in Olanda, Baruch Spinoza.

L.A.: Ti do uno strano esempio di quanto possa essere soggettiva la periodizzazione. Abbiamo la situazione di Giovanni Boccaccio che, nell’interpretazione degli italiani, viene collocato nel Medioevo, verso la sua tappa umanistica, cioè nel periodo che fa da legame tra il Medioevo e il Rinascimento. L’umanesimo si può riconoscere per certi tratti molto chiari, che mettono insieme le reminiscenze medievali e preannunciano le particolarità rinascimentali. Invece, per la mia sorpresa, da oltre un decennio i miei alunni romeni continuano a ripetermi quello che gli viene insegnato alle ore di storia, cioè che Boccaccio sarebbe un rinascimentale! Mi hanno fatto vedere perfino un libro di testo. Poi ho domandato l’opinione di altri colleghi, insegnanti di storia, che mi hanno confermato che loro l’hanno studiato proprio così all’università. Quindi una certa scuola romena immagina ormai Boccaccio da rinascimentale, invece la scuola italiana lo considera ancora, per giusta ragione, solo medievale-umanista. Ecco una bella storia su quanto possano essere soggettive e imprevedibili le classifiche.

O.P.: Ma saresti d’accordo a vedere in Dante un semplice illustratore – di genio, tra l’altro – della concezione teologica di San Tommaso?

L.A.: Dante è una personalità gigantesca, schiacciante. Secondo me si tratterebbe di un approccio inadeguato considerarlo il precursore o il successore di qualcuno. Egli riempie di tanto contenuto e personalità questo capolavoro che si chiama La Divina Commedia, che mette gli stessi pilastri di alcune categorie. Stabilisce lui le regole, per mezzo della propria creazione. Ci sono interessanti discussioni sugli echi dell’eresia gioachimita nell’opera dantesca, quindi non si tratta solo di un diligente seguace del tomismo.

O.P.: Siamo quindi nell’imbarazzo delle categorie?

L.A.: No. Dante, per un ampio consenso, è considerato il più grande uomo di lettere del Medioevo, colui che fa la sintesi dei suoi tempi. Anche se, come ho detto, ci sembra a volte vederlo fare degli accenni a quello che sarebbe seguito, egli rimane il più significativo artista medievale. Ma se abbiamo parlato di questa struttura gerarchica, geometrica, forse sarebbe il momento di cominciare la discussione più dettagliata sulla Divina Commedia.

O.P.: Non prima di chiederti se, nella tua opinione e nell’opinione dei critici che hai studiato, Dante abbia tracciato il suo intero progetto nella mente, prima di cominciare l’elaborazione di quello che oggi conosciamo come il primo volume, o la prima tappa: la discesa all’Inferno.

L.A.: Sì, è più che sicuro che egli abbia avuto sotto gli occhi lo schema dell’insieme. Questo risulta da uno sguardo dall’alto, panoramico, «dall’aereo». Si nota la simmetria di tutti i piccoli angoli e dettagli, disposti con precisione matematica così che si assomigliassero e si corrispondessero. Per esempio il problema politico è trattato successivamente e progressivamente. Nell’Inferno, canto VI: la politica di Firenze; nel Purgatorio, canto VI: la politica dell’Italia; nel Paradiso, canto VI: la politica dell’Imperio. La stessa problematica trattata nello stesso canto. O non dimentichiamo la parola «le stelle», che si ripete alla fine di ogni cantica, come un metronomo, per dare continuità, unità e corrispondenza tra le parti.

O.P.: Gli specialisti che cosa credono? Dante avrà elaborato la sua opera nella successione dei canti e dei volumi, come li conosciamo noi oggi, o si poteva trattare di parziali elaborazioni del terzo volume, intercalate tra certi canti del primo volume ecc.? Come viene immaginata la camera di studio del poeta Dante?

L.A.: Da quello che si presume – perché si tratta di un periodo molto lontano (abbiamo visto prima che non ci è rimasta nessuna riga scritta dalla mano di Dante) – per testimonianze indirette e per deduzioni, sembra che la progressione sia stata cronologica. Prima ha scritto l’Inferno…

O.P.: Verso dopo verso?

L.A.: Sembra di sì. L’Inferno ha cominciato a diventare noto, a girare in manoscritto e a essere elogiato dai contemporanei, sin dai tempi della redazione del capolavoro. L’autore ha continuato con il Purgatorio e ha concluso con il Paradiso. Alcuni commentatori immaginano una pausa nella stesura della Divina Commedia, dopo i primi sette canti. La prova starebbe all’inizio del canto VIII dell’Inferno, dove il poeta riprende con «Io dico, seguitando». Non sappiamo quanto sia reale questa interruzione della redazione, o se si tratti solo di una ipotesi. Un’altra leggenda ci viene raccontata nella biografia scritta da Giovanni Boccaccio. Gli ultimi tredici canti del Paradiso non si trovavano da nessuna parte. Alla morte inattesa e sconvolgente di Dante, in seguito a quel viaggio diplomatico a Venezia, mancavano tredici canti. Tutta la gente era addolorata. Gli hanno fatto dei funerali cerimoniosi, è stato elogiato da tutti. L’insieme della sua opera cominciava a farsi conoscere, ma senza i canti conclusivi, destinati appunto a edificare l’apoteosi, perché l’ultimo canto del Paradiso giustifica lo scopo dell’intero viaggio compiuto di Dante, racconta il suo arrivo davanti al trono di Dio. Ebbene, in questo contesto frustrante, dopo alcuni mesi, una notte, il figlio Jacopo sogna suo padre, che gli conferma di trovarsi ormai nella «vita vera» e gli consiglia di cercare in un angolo nascosto, un ripostiglio della camera dove ha dormito e dove ha scritto. Al risveglio, il figlio di Dante va al posto indicato, trova davvero i manoscritti coperti di muffa, li pulisce, li trascrive con attenzione e così l’opera diventa completa. Può trattarsi solo di una leggenda, ma forse ci dà un indizio sull’ordine della stesura dei tre libri.

O.P.: Un’altra domanda sul significato generale dell’opera. Per quale impulso si considera sia sorta la stesura della Divina Commedia? Si trattava della storia d’amore incompiuta per Beatrice? O si trattava piuttosto del bisogno di diffondere una visione teologica, che Dante sottoscriveva? O si trattava della volontà di concepire un mondo alternativo, di dare carne ad alcune idee, angosce e speranze che la sua vita intima conteneva, rifletteva?

L.A.: Tutto questo insieme e altre ragioni ancora. Facciamo un passo alla volta. Verso la fine del libro di giovinezza, la Vita nuova, dove mette in primo piano Beatrice, l’autore si confessa estremamente addolorato della morte di lei e promette di scrivere un libro in cui le farà un elogio più grande che a nessun’altra donna al mondo. È questa una promessa fatta alla persona amata. D’altronde è anche una rivincita che Dante vuole prendersi davanti ai contemporanei. Su questo tema ha scritto lo stesso Papini che ricordo sempre, perché il suo destino di dantologo mi pare triste e ingiusto. Giovanni Papini ha pubblicato un libro molto consistente, Dante vivo, una monografia che dimostra profonda e dettagliata padronanza della vita e dell’opera dantesche. Probabilmente per la sua immagine personale scomoda è stato trascurato dai dantologi, e le sue osservazioni sono rimaste ignorate. Papini ha un capitolo che si chiama proprio così, La «Commedia» come rivincita. È certo che Dante, come qualsiasi artista che si rispetta, ha messo la sua opera sotto il segno della rivincita contro le ingiustizie che lo avevano fatto soffrire, contro l’esilio che gli era stato imposto, contro le calunnie e le bugie che gli erano state buttate addosso, contro la povertà che lo aveva seguito e non lo aveva risparmiato, contro lo statuto sociale non proprio brillante che aveva dovuto sopportare, contro l’incertezza di ogni giornata che aveva affrontato. Tutto questo si doveva trasporre in un capolavoro. Però non è soltanto una rivincita e non è soltanto la sofferenza spirituale di un uomo rancoroso che cerca di sfogarsi.

O.P.: O di un frustrato…

L.A.: Appunto. Sarebbe uno sbaglio ridurre solo a questo la Commedia. Chiaramente, per la sua struttura ben lavorata, per queste corrispondenze di cui abbiamo appena parlato, per le interne simmetrie molto squisite, per le abili alternanze, la Divina Commedia è un’opera a lungo meditata, nel suo intero, e poi attentamente cesellata, nei suoi dettagli.

O.P.: Non credi che ci potesse essere semplicemente l’orgoglioso desiderio del poeta di dimostrare che la sua lira era altrettanto forte quanto la penna del teologo, una competizione con Tommaso d’Aquino?

L.A.: C’era anche questo. Ma non con Tommaso, bensì con Guido Cavalcanti, il suo grande amico. San Tommaso non era artista, ma filosofo. Dante non compete con la filosofia di Tommaso, che egli riprende e porta avanti, ma con gli scrittori del suo tempo. D’altronde si tratta di una competizione piuttosto condiscendente, perché Dante è estremamente cosciente del proprio valore e lo confessa parecchie volte. Parlando in un certo contesto di Cavalcanti, riconosce a questo il talento con cui ha staccato Guinizzelli (il fondatore della corrente del Dolce stil nuovo) dall’onorifico palcoscenico della poesia. Ma, dice il nostro poeta, forse è nato già il terzo, che caccerà dal nido l’uno e l’altro Guido.

                   «Così ha tolto l’uno a l’altro Guido

          la gloria de la lingua; e forse è nato

          chi l’uno e l’altro caccerà del nido.» (Purg., XI, 97-99)

Secondo tutte le probabilità, alludeva a se stesso. Era cosciente della realtà che, nel campo della destrezza artistica e dell’ampiezza filosofico-estetica, era molto oltre a quello che c’era stato prima di lui e di quello che ci sarebbe stato nella letteratura italiana. Tornando alla Divina Commedia, essa rappresenta una sintesi delle esperienze personali, ma anche una rassegna di numerosissime manifestazioni di una civiltà. Costituisce la fusione di alcuni sentimenti, di visioni personali, e allo stesso tempo di alcuni temi universali dell’esistenza umana. L’individuo di nome Dante si confronta con le mentalità della società e le dipinge nello specchio delle concezioni teologali e morali. Di qui risulta una prima complessità. Un’altra è dovuta ai rapporti del capolavoro con la cronologia. Da una parte la Divina Commedia è un’opera datata. È chiaro che parla delle realtà del suo tempo, di avventure, disgrazie e fatti storici la cui conseguenza è subita dai contemporanei medievali. Ma, da un’altra parte, la Divina Commedia è anche un’opera con il messaggio perenne. Dante ha quest’abilità di inserire tutto nel segno dell’eternità e di estrarre da un’avventura o da un dettaglio il suo valore generalmente umano, in guisa d’esempio. Non è una semplice opera d’arte, che suscita soltanto il nostro diletto, ma abbiamo l’immagine di un Dante professore, che vuole costruire exempla: colui che insegna a noi, in questo momento, nel XXI secolo, come evitare certi sbagli e come seguire certe virtù. L’intreccio delle sue proprie esperienze e delle profonde riflessioni sull’eterna condizione umana costituisce il tratto che rende più ricca la Divina Commedia.

O.P.: La visione didattica sarà forse di Dante, o invece è tutta nostra, nei confronti di Dante? Non gliela attribuiamo noi per caso? Avrà voluto fare proprio così, parlare attraverso i secoli? Aveva davvero il dono della «profezia», che noi oggi riconosciamo ad alcuni che l’hanno assunto come tale? A Nostradamus, per esempio e a Paracelso e al Conte di Cagliostro. O forse semplicemente, per l’ampiezza dell’opera e della sua profondità, dell’insistenza sui particolari e delle capacità di sintesi, la Divina Commedia riceve simili dimensioni che possiamo progettare sopra la nostra propria sensibilità e mettere a conto suo anche le cose che forse non ha? Non saremo noi coloro che facciamo la lettura dell’opera aperta, di cui parlava Umberto Eco, e, vista la polisemia, le sue molteplici valenze, ma anche per le sofisticate metodologie di cui noi oggi disponiamo nell’interpretazione di un’opera letteraria, la rivestiamo con le luci che forse non ci sono, o non sono possibili, o le esageriamo?

L.A.: Un paradosso estremamente interessante nell’espressione di Dante è questo. L’autore sa essere molto preciso, conciso. In due parole, in mezzo verso, egli scolpisce un’immagine inconfondibile.

O.P.: È la capacità di qualunque grande autore.

L.A.: Egli ha la precisione che non concede nemmeno un attimo di dubbio, su quello che vuole dire. Lo stesso Dante, però, sa essere anche misterioso, in certe situazioni. Sa esprimere le cose a doppio senso.

O.P.: Comunque non gli stiamo alzando un monumento forse più alto di quello che comunque ha?

L.A.: Ci sono brani che, nell’accezione generale dell’interpretazione, sono enigmatici, hanno un valore profetico, sono stati ornati di tratti vaticinatori: quando Beatrice annuncia l’arrivo di un DUX, il messo di Dio, che farà giustizia (Purg., XXXIII, 37-54). O quando Dante parla del «veltro», il cane da caccia che rimetterà la lupa – una delle immagini del diavolo – nell’Inferno (Inf., I, 100-111). Chi è questo Veltro? Alcuni hanno detto che sarebbe stato un principe straniero. Altri che si sarebbe trattato di un nobile italiano, nato tra Feltro e Feltro. Altri che è addirittura un’allusione allo Spirito Santo. Un riferimento unilaterale non si può stabilire. Ci sono brani che Dante costruisce con deliberazione in modo enigmatico e lancia come dei messaggi in bottiglia, buttati nell’acqua del mare verso il futuro, lasciando agli altri la preoccupazione di decifrare le allusioni o le speranze in un mondo migliore.

O.P.: Non si trattava per caso di un’abitudine dell’epoca, o era proprio un riflesso di Dante? Certo che i sacerdoti, che usavano exempla, cioè piccole narrazioni a carattere moralizzante per illustrare le loro omelie, si servivano anche di simboli ispirati all’esempio biblico, all’Apocalisse di Giovanni. Che cosa sono le profezie, tutto sommato? Sono il ricorso ai simboli enigmatici, agli avvertimenti a volte tenebrosi, destinati a incoraggiare moralmente e perfino civicamente. E Dante non poteva farne a meno, come poeta cristiano, come uomo con un’educazione religiosa e che trovava, al livello del suo pensiero, una così stretta relazione con la teologia di San Tommaso e dell’Occidente latino di quell’epoca. Ma mi chiedo in che misura questo fosse prevedibile, da parte di un poeta che si proponeva niente meno che di portarci in giro per l’Inferno, per il Purgatorio e per il Paradiso, o se per caso questa storia non fosse alquanto banale e non si potesse ritrovare nel repertorio di qualsiasi frate che, come avrebbe fatto Savonarola a un certo momento, si fermava, con la croce in mano, in mezzo alla strada per profetare ai viaggiatori le cose sinistre che sarebbero accadute, per colpa dei peccati di questo mondo.

L.A.: È chiaro che a questa frequentazione della Chiesa si debbano tutti gli accenti vaticinatori della Divina Commedia. Dante è un fedele, prima di essere un artista. Egli fa le profezie per essere in consonanza con il suo tempo. Ma, ugualmente, egli attribuisce un valore più che profetico o di semplice gesto di minaccia, alla sua opera. È quel libro – come lo dice nel Paradiso – a cui hanno contribuito insieme il Cielo e la Terra.

                                      «...‘l poema sacro

          al quale ha posto mano e cielo e terra.» (Parad., XXV, 1-2)

Oltre al valore secolare, estetico, egli immagina per il suo capolavoro anche le virtù dell’ispirazione religiosa. Concedimi, tuttavia, di portare avanti la nostra discussione con un gruppo di esempi di un’altra categoria, quella delle virtù artistiche. Ho cominciato sottolineando il carattere paradossale della scrittura dantesca. Ho detto che, per quant’è preciso in certi aspetti, tant’è volutamente ambiguo in altri. Dante è colui che ha creato effettivamente alcune formule epigrafiche. Ci sono dei veri proverbi lasciati da lui. Delle frasi che, appena pronunciate, si possono identificare nella storia della letteratura universale. Quando dice qualcuno «Nel mezzo del cammin di nostra vita» (Inf., I, 1), quest’è un’espressione inconfondibile, su cui si può mettere l’iscrizione: «copyright Dante Alighieri». O ecco un’altro detto celebre: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» (Inf., III, 9), la nota formula sulla porta dell’Inferno. Non ci vogliono altri chiarimenti, anche una persona meno istruita saprà che l’allusione viene fatta alla Divina Commedia. Le espressioni risuonanti si trovano a ogni passo, nei momenti più inattesi. Per dire che era esausto per lo sforzo dell’ascensione, il protagonista si esprime così: «La lena m’era del polmon sì munta / quand’ io fui sù» (Inf., XXIV, 43-44). Virgilio esorta Dante a continuare la strada, usando espressioni di questo tipo:

                   «“Omai convien che tu così ti spoltre”,
                   disse ‘l maestro; “ché, seggendo in piuma,
                   in fama non si vien, né sotto coltre;

                   sanza la qual chi sua vita consuma,
                   cotal vestigio in terra di sé lascia,
                   qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

                   E però leva sù; vinci l’ambascia
                   con l’animo che vince ogni battaglia,
                   se col suo grave corpo non s’accascia.”»
(Inf., XXIV, 46-54)

Ma abbiamo anche giochi di parola molto interessanti, come per esempio il ritornello che sentiamo alcune volte nell’Inferno, come una magica parola d’ordine, una specie di «Apriti, Sesamo!» dei racconti orientali. A volte, quando Dante e Virgilio si confrontano con un ostacolo difficile da superare, la guida si fa avanti e, con un tono energico, pronuncia la formula: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non domandare» (Inf., III, 94-95; Inf., V, 23-24; vedi anche Inf., VII, 11). Quando Caron o Minos interpellano Dante: che fai da queste parti, non puoi venire qui, non sei ancora morto, soltanto gli spiriti privi di corpo hanno il permesso di passare…

O.P.: Virgilio fa vedere al diavolo che ha superato le sue competenze!

L.A.: Esattamente. Però non si tratta solo di una formula sentenziosa, misteriosa e alquanto minacciosa. In questo ritornello usato nei momenti difficili, durante la spedizione nell’Inferno, abbiamo ugualmente un abile gioco di parole, costruito intorno ai verbi servili italiani «volere» e «potere». O ecco un’altra situazione, concretizzata nella formula retorica delle intermediazioni inconfessate: «Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse» (Inf., XIII, 25). In certe circostanze non ci vogliono le parole, basta guardarci per indovinare i pensieri dell’altro. Dante è un grande maestro dell’espressione. Uno dei giudizi avventati, nei suoi confronti, è che sarebbe uno scrittore rozzo, volgare, duro, brutale, che non conoscerebbe l’importanza e la gerarchia delle parole. Neanche per sogno! Egli è duro, è brutale, ma lo fa con piena deliberazione. Sa essere, nella successione degli eventi, meditativo, malinconico, giocoso, sarcastico, sardonico. Intanto se siamo entrati su questo territorio, degli strumenti dell’artista Dante, facciamo altri due passi. Sono memorabili e a volte di estrema complessità le similitudini che l’autore fa. Esse sono molto diversificate, da quelle costruite soltanto con due parole, fino alle più complicate e arborescenti. Sappiamo che la Divina Commedia è scritta in terzine, in gruppi di tre versi. Ecco sin dal canto I che si fanno strada le similitudini, per adesso non molto ampie. L’autore forse non vuole «spaventare» i lettori sin dall’inizio. Egli intende sottolineare la difficoltà che ha sentito e dice così:

                   «E qual è quei che volontieri acquista,

          e giugne ‘l tempo che perder lo face,

          che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

                   tal mi fece la bestia sanza pace,

          che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco

          mi ripigneva là dove ‘l sol tace.» (Inf., I, 55-60)

Nella prima terzina si apre il sorprendente elemento comparativo, mentre nella seconda si ritorna alla situazione epica conosciuta: «qual…» ecc., «tal…» ecc. La prima sezione costruisce l’immagine inattesa, che sembra non avere nessun legame con il tema del discorso, e poi si torna, con maggiore forza di colpo, alla linea principale. O ecco un altro paragone interessante, che si trova pochi versi prima:

                   «E come quei che con lena affannata,
                   uscito fuor del pelago a la riva,
                   si volge a l’acqua perigliosa e guata,

                   così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
                   si volse a retro a rimirar lo passo
                   che non lasciò già mai persona viva.»
(Inf., I, 22-27)

Ma le similitudini di Dante possono essere anche straordinariamente complesse. Mi vengono adesso in mente due, le più spettacolari, che non mi posso trattenere di citare, nella speranza che i nostri lettori non perderanno la pazienza di seguirci. E sono convinto che non lo rimpiangeranno, se manterranno la perseveranza. In un certo momento, i due arrivano alle Malebolge, al posto di dannazione dei barattieri, che giacciono immersi nella pece bollente. L’autore, per introdurre il «paesaggio» nella nostra mente, fa questo favoloso paragone con le officine dei veneziani che, d’inverno, si rifanno le loro navi. È una similitudine estesa a nientemeno di quattro terzine (cioè dodici versi), nella struttura 3 + 1. Abbiamo 3 terzine (nove versi) che costruiscono la prima immagine, di grande dinamismo e di azione frenetica, e poi un’altra terzina (gli ultimi tre versi) che configurano il secondo «braccio», di ritorno al filo principale della storia.

                   «Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
                   bolle l’inverno la tenace pece
                   a rimpalmare i legni lor non sani,

                   ché navicar non ponno – in quella vece
                   chi fa suo legno novo e chi ristoppa
                   le coste a quel che più viaggi fece;

                   chi ribatte da proda e chi da poppa;
                   altri fa remi e altri volge sarte;
                   chi terzeruolo e artimon rintoppa – :

                   tal, non per foco ma per divin’ arte,
                   bollia là giuso una pegola spessa,
                   che ‘nviscava la ripa d’ogni parte.»
(Inf., XXI, 7-18)

La prima parte della similitudine ci parla dei lavori nei cantieri navali medievali. Qual è la sua finalità? Doppia: quella di farci una descrizione delle vere attività, nelle officine veneziane, e quella di prefigurare l’ambiente fantastico della bolgia dei barattieri: era proprio così che bolliva la pegola nera, in fondo alla fossa.

Ma questo non è tutto! Ecco un altro brano, ancora più complesso del precedente! Mettendo a prova la perspicacia del lettore, Dante Alighieri costruisce una catena di due similitudini estese, che hanno, come nello specchio, la stessa struttura complessa di 2 + 1 terzine la prima, 2 + 1 terzine la seconda. Si tratta di addirittura 18 versi interconnessi!

                   «Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,
                   nel tempo che colui che ‘l mondo schiara
                   la faccia sua a noi tien meno ascosa,

                   come la mosca cede a la zanzara,
                   vede lucciole giù per la vallea,
                   forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:

                   di tante fiamme tutta risplendea
                   l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
                   tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.

                   E qual colui che si vengiò con li orsi
                   vide ‘l carro d’Elia al dipartire,
                   quando i cavalli al cielo erti levorsi,

                   che nol potea sì con li occhi seguire,
                   ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
                   sì come nuvoletta, in sù salire:

                   tal si move ciascuna per la gola
                   del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,
                   e ogne fiamma un peccatore invola.»
(Inf., XXVI, 25-42)

Abbiamo diversi livelli di «codificazione» stilistica dei versi, che fanno il lavoro dell’esploratore difficile, ma anche incitante. Oltre alle ampie similitudini, troviamo la struttura «puzzle» di cui abbiamo già parlato (cioè la disposizione mescolata delle parole nella frase), l’espressione allusiva, il richiamo mitologico ecc. Ecco, per primo, il senso letterale del primo paragone, e mettiamo in evidenza i suoi elementi introduttivi. «Quante lucciole vede giù nella valle, forse proprio dove egli vendemmia e ara, il contadino che si riposa al pozzo, mentre quello che schiarisce il mondo (cioè il sole) tiene la sua faccia meno nascosta a noi (cioè d’estate), quando la mosca viene sostituita dalla zanzara (cioè al calar della sera) / di altrettante fiamme splendeva l’ottava bolgia, come mi accorsi appena fui là dove il suo fondo appariva».

E la meravigliosa catena si prolunga nel secondo paragone: «E così come colui che si vendicò per mezzo degli orsi [cioè il profeta biblico Eliseo] vide il carro di Elia in partenza, / quando i cavalli si alzarono dritto al cielo, sicché non si poteva vedere altro con gli occhi che una sola fiamma, la quale saliva come una piccola nuvola / allo stesso modo si muove ciascuna [lingua di fuoco] nella fossa, perché nessuna fa vedere quello che ha dentro e ogni fiamma avvolge un peccatore». Conta meno che Dante parli qui del profeta Eliseo, che ha chiamato due orsi a vendicarlo per l’offesa sofferta (vedi 2 Re II, 23-24), nonché dell’ascensione al cielo del profeta Elia (vezi 2 Re II, 11-12). La storia centrale ci descrive la bolgia dei consiglieri fraudolenti, come un grande numero di luci, in realtà delle fiamme che nascondono al loro interno le anime peccatrici. Però, oltre al messaggio principale e in una concatenazione serpeggiante, insinuante, ci viene detta la breve storia del contadino esausto che, dopo un giorno di lavoro al campo, ammira dall’alto la valle sopraffatta dalle lucciole, sul far della sera. Viene rievocato l’incidente biblico della terribile vendetta fatta dal profeta Eliseo. Viene ricordata l’avventura dell’ascensione al cielo, in mezzo a una nuvola di fuoco, del profeta Elia.

O.P.: Vorrei intervenire con la seguente questione. Che ne dici, un editore di oggi, se Dante scrivesse con queste ampie similitudini, non gli restituirebbe forse il manoscritto, dicendo: «mi raccomando, faccia più semplice, la gente non legge più ‘ste cose complicate»? È senz’altro un segno d’ingegno, di profondità. Ma sarà anche a vantaggio dell’opera? O è soltanto un tributo pagato alla medievalità, che costringeva a una specie di simbolistica cifrata, complicata, arborescente?

L.A.: La mia risposta ha due parti. La storia è successa anche nel Novecento a Marcel Proust, impegnato nella costruzione di frasi ampie e complicate, che è stato rifiutato da tutti i grandi editori. André Gide ha perfino cestinato il manoscritto, anche se in seguito, quando il genio di Proust è scoppiato nrl firmamento della letteratura francese, l’improvvisato editore ha chiesto scusa, dicendo che aveva fatto in fretta, che non aveva letto ecc. Il primo volume, Du côté de chez Swann, è stato stampato da una modesta casa editrice, con le spese dell’autore. Il rischio di farti stroncare, se ti permetti simili costruzioni audaci, è grande anche ai nostri tempi, come ai tempi di Dante.

O.P.: Vuoi dire che non questo dà il valore dell’opera: il suo momentaneo insucceso.

L.A.: Certo. E la seconda parte della risposta è questa: secondo me, anche Dante era cosciente di un tale rischio! Come ho detto, egli combina i periodi lunghi, quasi barocchi, con gli enunciati lapidari: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate»«Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non domandare». Dopo aver letto simili gioielli di concentrazione artistica, lessicale, certo che puoi avere anche la pazienza di gustare le sei terzine di una similitudine complessa. Il carattere contraddittorio della scrittura dantesca è quel che suscita l’attenzione dei lettori. Dante ti coglie all’improvviso. Egli ha estremamente interessanti cambiamenti di ritmo. Per esempio, sin dal canto I, quando s’incammina e comincia a raccontarci della selva del peccato, le tre bestie spaventose che gli chiudono la strada, il terribile sgomento vissuto, l’orribile paura, non sapeva più cosa fare ecc. In mezzo a questa tensione in crescendo, arriva inaspettatamente il verso 37 e comincia a raccontarci che:

                   «Temp’ era dal principio del mattino,
                   e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
                   ch’eran con lui quando l’amor divino

                   mosse di prima quelle cose belle;
                   sì ch’a bene sperar m’era cagione
                   di quella fiera a la gaetta pelle

                   l’ora del tempo e la dolce stagione…» (Inf., I, 37-43)

Il  poeta lascia sospeso il momento di tensione, che forse ci porterebbe al parossismo, per farci una descrizione della natura! O un altro cambiamento di ritmo, tipicamente dantesco, meraviglioso, incontriamo nel canto IX. Virgilio e Dante cercano di entrare nella Città di Dite, una fortezza demonica di stile medievale, con le mura, i ponti mobili, i diavoli che stanno in cima e gli rifiutano l’ingresso. Virgilio si fa avanti e pronuncia la formula magica, chiedendo libero accesso a Dante, che è inviato dal Cielo nel suo viaggio ecc. E invece quelli li mandano via con impertinenza, dicono di non fregarsene proprio. Virgilio ritorna confuso, non sapendo come potranno continuare la loro strada. Dante, vedendo che esita, si spaventa, perché ha messo in lui tutte le sue speranze: se perfino il maestro è disorientato, tanto più sgomentato è il discepolo. In questo contesto di angoscia, di dubbio anche morale (i due riceveranno mai il diritto di entrare nella città del peccato?), con i diavoli che gli urlano di togliersi di mezzo, con Dante che comincia a dubitare della «professionalità» della sua guida e si mette a deplorare la sua sorte, temendo di non uscire più sano e salvo, in mezzo alla confusione e al caos generalizzato, all’improvviso, Virgilio grida: ecco, arriva là il messaggero del Signore. Piegati davanti a lui e non dire più nessuna parola! Dante obbedisce. Succede allora una delle cose più impressionanti, per me, dell’intero Inferno. In lontananza, sopra le acque fangose, cammina un’ombra (non la vediamo ancora chiaramente). Avanza come su terra ferma. I peccatori immersi nella melma dello Stige gli scappano via davanti, da tutte le parti, «come le rane innanzi a la nimica / biscia per l’acqua si dileguan tutte» (Inf., IX, 76-77), non gli devono toccare nemmeno le piante dei piedi. L’angelo di Dio arriva lentamente, con massima maestà. Passa accanto ai due, Dante e Virgilio, non li guarda. Viene degno, solenne, con la testa alzata, con movimenti decisi, si avvicina alla porta chiusa della città dei diavoli e la tocca appena, con una «verghetta». E la porta crolla, fatta a pezzi da questo semplice gesto del messaggero divino! E poi, con massimo disprezzo, si rivolge ai diavoli caduti dalle mura: come mai avete pensato di sfidare la volontà di Dio?! Come ve lo siete permessi?! «Ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?» Ma così, con un tono terribilmente sprezzante. E poi si gira, passa con indifferenza accanto ai due poeti, che sono prosternati, rimasti di sasso davanti all’impressionante onnipotenza. Se ne allontana, come una persona tormentata già da altri pensieri. Aveva altre cose ormai da risolvere! («Poi si rivolse per la strada lorda / e non fé motto a noi, ma fé sembiante / l’omo cui altra cura stringa e morda / che quella di colui che li è davante», Inf., IX, 100-103). Sono formidabili questi cambiamenti di ritmo e le messe in scena! Non per caso si può parlare di una qualità davvero drammaturgica di tali sequenze.

O.P.: Visto che abbiamo parlato di drammatismo, di aspetti sia stilistici, che di mise en scène del racconto, ma anche visto che la Grande Storia è composta di una serie di episodi, lo sappiamo, come ti sembra Dante in veste di autore epico? Ci sono delle cose che valgono la pena di essere lette? Potrebbero ancora attirare l’attenzione del lettore medio, con le avventure che presentano?

L.A.: Senz’altro. Proprio questo rappresenta il sale e il pepe dell’Inferno.

O.P.: E nel Paradiso?

L.A.: Il Paradiso è più lirico. È vero che anche lì ci sono diversi personaggi che si scatenano in imprecazioni contro i peccatori, come San Pietro o San Pietro Damiano. Invece l’Inferno è molto epico, è pieno di personaggi e di avventure, è zeppo di colpi di teatro.

O.P.: Questo non sarà per l’esaurimento del poeta, verso il finale? Non avrà per caso esaurito le sue fonti immaginative?

L.A.: No. Egli adatta le strategie di comunicazione letteraria alla realtà che esprime. Un’atmosfera appiccicosa, sordida…

O.P.: …piena di vizi…

L.A.: …e anche sorprendente, con cambiamenti di ritmo, non sarebbe raccomandabile in cielo. Il Paradiso deve riconfortare, addolcire. Ma per adesso parliamo ancora dell’Inferno. Qui troviamo i colpi di scena e tante strategie retoriche usate spesso dall’autore, come sono gli appelli diretti al lettore. In certe situazioni, il narratore si rivolge direttamente a noi – una tecnica molto efficiente di comunicazione. Ci esorta a proseguire nello sforzo di decifrazione dei messaggi nascosti, a non affrettarci riconoscendo e ammettendo solo il senso superficiale. Penso ai celebri versi, spesse volte citati:

                   «O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,

          mirate la dottrina che s'asconde

          sotto ‘l velame de li versi strani.» (Inf., IX, 61-63)

O, voi, con gli intelletti sani, non accontentatevi solo delle apparenze, solo della «storia»! Io, l’autore, voglio dirvi molto più di questo! Continuate il vostro viaggio accanto a me! Vedrete che non rimarrete delusi. È un’arma retorica che il poeta usa, per tenere sveglia l’attenzione del lettore. O le famose ripetizioni del canto V, nel racconto di Francesca: «Amor ch’a nullo amato amar perdona» (Inf. V, 103). C’è tutt’una discussione che può girare intorno a questo punto essenziale, della costruzione della terzina: la ripetizione impregnata nell’intertestualità. O le altre strategie per conquistare l’attenzione: l’umorismo grossolano, sordido.

O.P.: Questo piace sempre. Anche alle persone più sottili. Lo ritroviamo sia in Rabelais, sia in Cervantes.

L.A.: Dante arriva anche prima di Rabelais per raccontarci di un branco di diavoli che, alla partenza per una spedizione, si dispongono in colonna dietro all’improvvisato capo militare e, per dargli un segno di obbedienza, tirano fuori la lingua nella sua direzione. Invece questo, per dare loro il segnale di partenza:

                   «avea del cul fatto trombetta.» (Inf., XXI, 139)

O.P.: Sembrerebbe che non solo nel nostro folclore il diavolo facesse figura di balordo. È piuttosto ridicolo, non necessariamente simpatico.

L.A.: È vero. O gli insulti che si ritrovano nell’Inferno. Vediamo Virgilio come urla a un bastardo che, giacendo nelle acque dello Stige, cerca di impedire il loro viaggio, di rovesciare la loro barca. La guida gli dà uno spintone, lo rimanda nel fango e gli grida: «via costà con li altri cani…» (Inf., VIII, 42)! Accanto alle violenze verbali, vediamo anche la violenza dei gesti. Quando Dante arriva tra i traditori, li trova sommersi nel ghiaccio, alcuni soltanto con la testa sopra. Domanda a uno di loro chi è e, visto che quello non solo rifiuta di dirglielo, ma lo insulta anche, il protagonista, arrabbiato,

                   «Allor lo presi per la cuticagna

           e dissi: “El converrà che tu ti nomi,

          o che capel qui sù non ti rimagna”.» (Inf., XXXII, 97-99)

L’estrema violenza dei gesti corrisponde ai passi più drammatici. O ecco una meravigliosa prova di ingegno letterario, illustrato attraverso un’antitesi negata. Siamo verso la fine dell’Inferno, con l’orrenda apparizione di Lucifero. Il narratore si rivolge di nuovo direttamente al lettore, per appellarsi alla sua comprensione e al suo affettuoso appoggio, davanti a questa prova fondamentale:

                   «Com’io divenni allor gelato e fioco,

          nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,

          però ch’ogni parlar sarebbe poco.

                   Io non mori’ e non rimasi vivo:

          pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,

          qual io divenni, d’uno e d’altro privo.» (Inf., XXXIV, 22-27)

Qualsiasi altro commento sembra superfluo.

Ma abbiamo anche numerose situazioni grottesche nell’Inferno. Per esempio il demonio Caron («prestato» dalla mitologia antica) si occupa del trasporto delle anime dannate sull’altra riva. Questo nocchiere è un vecchio con aspetto spaventoso, con la faccia rotonda, rossa di furia, con «le lanose gote» (Inf., III, 97), la barba bianca e gli occhi spalancati per lo sdegno. Egli urla ai peccatori, gli grida di venire più presto sulla barca, perché non ha tempo da perdere. Anzi «batte col remo qualunque s’adagia» (Inf., III, 111). Sono dettagli, frammenti di verso, di una vischiosità e d’un impatto semantico e stilistico che sconvolgono l’indifferenza, impressionano.

O.P.: Nella tua opinione quali sono le tre storie più forti, in tutta la Divina Commedia? Se ritrovi nell’Inferno tutte e tre, tanto meglio, visto che questo sarà più epico.

L.A.: Non credo si possa stabilire una gerarchia…

O.P.: Fallo tu adesso, in fretta. Quali sono le tre storie che ti sembrano più impressionanti?

L.A.: Si possono davvero ricordare alcuni punti fondamentali, se imbocchiamo la strada della lettura epica. L’ho già detto che la Divina Commedia è ugualmente epica, lirica e drammatica. Ma si può insistere ogni tanto, per giusta ragione, su una sola delle letture. Tra le storie tipicamente dantesche, di straordinario impatto, si trova quella del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggieri.

O.P.: Che cosa gli è successo?

L.A.: Ugolino fu chiuso, a Pisa, in una torre chiamata la Muda, dove erano tenuti appunto gli uccelli per mudare, per mutare le penne. (Sarà un’allusione all’incostanza politica del conte?) Egli fu messo in carcere dall’arcivescovo Ruggieri, come punizione: Ugolino era stato ghibellino, ma aveva tradito il suo partito, quando il regime politico era cambiato, era diventato guelfo per mantenersi al potere amministrativo. Al ritorno dei ghibellini, fu punito appunto dall’arcivescovo che, normalmente, con il suo mantello ecclesiastico, avrebbe dovuto ritrovarsi tra i guelfi, e invece capeggiava i ghibellini, come un vero traditore che era egli stesso. Il conte fu incarcerato insieme a due figli e a due nipoti, bambini, adolescenti, e tutti e cinque furono lasciati a morire di fame. Secondo lo stesso personaggio Ugolino, che ce lo racconta, soltanto la situazione come tale forse non è impressionante. Però diventa tragica se la esaminiamo nei suoi dettagli. I cinque stanno dentro alla torre e, dopo un tempo, sentono che da fuori è murata la porta d’uscita. Capiscono così che la loro vita sarebbe finita in quel posto, senza nessun altro avviso. Dopo alcuni giorni il conte, sempre più abbattuto, in un accesso di disperazione, vedendo i bambini sull’orlo dell’agonia, si morde le mani per il dolore. In quel momento uno dei figli, credendo che il padre faccia quel gesto a causa della fame, si butta ai suoi piedi e lo esorta: mangia piuttosto noi stessi, padre! Tu ci hai dato questo corpo e tu puoi prendere via la nostra carne dalle ossa! («Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi: tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia.») Una situazione sconvolgente, che costringe il conte Ugolino a nascondere il suo spavento, per non aumentare ancora la disperazione dei bambini che gli stanno accanto. Nei giorni successivi, loro crollano uno dietro l’altro e muoiono, così che alla fine rimane vivo il conte, tutto solo, brancolando impazzito sopra i loro cadaveri, gridando il loro nome e cercando di riportarli alla vita. Abbiamo poi un passo volutamente oscuro e polisemantico, il disgraziato dice che «poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno» (Inf., XXXIII, 75). Un verso commentato a lungo. Che cosa fece Ugolino? Mangiò i suoi propri figli, e dopo questo morì lui stesso? O scelse di morire di fame, invece che di dolore? Non lo sapremo mai. Le strade dell’interpretazione rimangono aperte. Parlavamo della legge del contrapasso. Qual è nell’Inferno la punizione per quest’episodio che fa rabbrividire? Ugolino e Ruggieri stanno immersi nel ghiaccio, una testa dietro all’altra e, per l’eternità, il conte divora la zucca dell’arcivescovo, dandogli così la punizione per l’orrenda fine che aveva fatto. D’altronde questa è anche la terribile scena che salta agli occhi di Dante: due teste, di cui quella di dietro rosicchia quella davanti, e quando egli si avvicina per chiedergli che cosa gli è successo, qual è la loro storia, la testa acchiappa con l’angolo della bocca l’altra, per non concederle di spostarsi, per non perdersi il «festino». Si asciuga la bocca contro la nuca pelosa dell’altro e solo dopo racconta i suoi supplizi.

                   «La bocca sollevò dal fiero pasto

          quel peccator, forbendola a’ capelli

          del capo ch’elli avea di retro guasto.» (Inf., XXXIII, 1-3)

È una tra le situazioni più macabre della letteratura universale.

O.P.: La seconda storia?

L.A.: Sono storie molto diverse, anche per i sentimenti che suscitano. Per questo ho detto che non se ne poteva stabilire una gerarchia. Una situazione ugualmente molto complessa, una tra le più famose dell’intera Divina Commedia, troviamo nel canto V, dove sono puniti gli infedeli in amore. Personaggi di riferimento sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta. Sappiamo che, secondo il codice medievale, i giovani non avevano il diritto di scegliersi la moglie o il marito, il matrimonio era un’unione strategica, decisa dai genitori. Così la graziosa Francesca diventa la moglie del vecchio conte Gianciotto Malatesta, il cui fratello invece è un giovane cultivato, gradevole e attraente. I due giovani finiscono per innamorarsi l’uno dell’altra e per tradire il brutto conte. Ma, di nuovo, non è la situazione stessa a impressionare, quanto il contesto, i particolari della storia immaginata dall’autore. Dante chiede a Francesca i dettagli della loro avventura: come ti sei accorta che il tuo amore era condiviso? Qual è stato il momento in cui avete svelato uno all’altra i vostri sentimenti? E lo spirito dannato glielo racconta: un giorno leggevamo per il nostro piacere la storia del cavaliere Lancillotto, che si era innamorato della regina Ginevra. Eravamo soli, noi due, e privi di qualsiasi sospetto. Ma quando colui che si trova accanto a me – e che mai sarà separato da me – ha letto il brano in cui il cavaliere aveva baciato il desiderato sorriso della regina, si è scolorito nel viso, mi ha guardato e mi ha baciato le labbra tutto tremante. Così ci siamo accorti, leggendo una storia d’amore, del fatto che noi stessi ci amavamo.

                   «Noi leggiavamo un giorno per diletto
                    di Lancialotto come amor lo strinse;
                   soli eravamo e sanza alcun sospetto.

                   Per più fïate li occhi ci sospinse
                   quella lettura, e scolorocci il viso;
                   ma solo un punto fu quel che ci vinse.

                   Quando leggemmo il disïato riso
                   esser basciato da cotanto amante,
                   questi, che mai da me non fia diviso,

                   la bocca mi basciò tutto tremante.
                   Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
                   quel giorno più non vi leggemmo avante.»
(Inf., V., 127-138)

Abbiamo qui non soltanto una bellissima storia d’amore, ma anche una complessa strategia epica, della «costruzione a diversi piani»: noi leggiamo del viaggio iniziatico del personaggio Dante (livello no. 1) che, fermandosi a parlare con il personaggio Francesca (livello no. 2), viene a sapere che leggeva del personaggio Lancillotto, che si era innamorato di Ginevra (livello no. 3). L’amore tra il cavaliere e la regina si rispecchia nell’amore tra Francesca e Paolo, che si rispecchia nei sentimenti di Dante.

O.P.: Abbiamo il libro che corrompe?

L.A.: Ma certo. Siamo in pieno Borges! È per questo che ho detto scherzando, qualche dialogo prima, che Dante era stato un maggiore borgesiano dell’argentino stesso. E Francesca da Rimini aggiunge: «Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse». Così come Galehault, l’amico intrigante del cavaliere, aveva fatto da legame tra Lancillotto e la Regina Ginevra, questa volta il libro fu l’emissario, il mediatore dell’amore tra loro. Abbiamo la costruzione nello specchio. Ma abbiamo anche la discussione più ampia, che può cominciare da questo punto, sui vizi e sulle virtù della letteratura, della lettura, in che misura siamo esposti o meno ai rischi, se leggiamo troppo. Di qui a Don Chisciotte abbiamo un solo passo da fare.

O.P.: Il nome di Galeotto si trova anche all’inizio del Decameron, vero?

L.A.: Sì. Ma la storia non è finita. Mentre uno dei personaggi, cioè Francesca, gli presenta la loro avventura, l’altro piange e Dante, per la pietà, sviene: «caddi come corpo morto cade» (c’è anche una meravigliosa allitterazione – Inf., V, 142). Per la pietà cade il protagonista, ma non solo per la pietà. Siamo di nuovo in presenza di un problema molto teso. Da una parte, Dante comprende e rimpiange i due cognati. Egli stesso amò platonicamene Beatrice, sposata con un altro, e forse si traspone con l’immaginazione nella propria situazione. Da un’altra parte, però, la legge divina è quella che vieta e punisce questo comportamento. Dante si trova davanti a una situazione estrema, è straziato tra la (com)passione e la ragione. Ebbene, egli non può fare una scelta evidente, non si permette di infrangere i precetti divini e quindi sviene. La sua opzione è bloccata. Egli non può opporre la compassione alla volontà e alla legge divina. Ecco un’altra prova che Dante è profondamente medievale. Alcuni secoli più tardi, i romantici avrebbero combattuto contro il Diavolo e contro il Buon Signore per difendere il loro amore. Avrebbero conquistato il loro diritto alla preminenza dei sentimenti. Dante non è arrivato a quel punto.

O.P.: E la terza e ultima storia per oggi?

L.A.: Non è necessariamente una storia, o una situazione epica da raccontare, ma un contesto impressionante. Nel canto III sono puniti gli ignavi. Dante fa qui un grande passo avanti, nell’identificazione e nella punizione dei peccati. Avremmo creduto che solo un’infrazione violenta, spettacolare, potesse attirare la sua attenzione, potesse mobilitare la sua fantasia nella condanna. Ebbene, no. Dante è colui che si esprime in modo molto pungente contro la vigliaccheria, contro coloro che vissero come le piante e non ebbero il potere personale di assumere una scelta. Se avessero sbagliato, avrebbero almeno dimostrato di essere vivi. Se avessero fatto i gesti virtuosi, si sarebbero salvati. Invece no: furono ignavi per tutta la vita, si allearono sempre con il più forte, calcolarono ogni singolo passo e rifiutarono di dire apertamente un’opinione, per non infastidire né uno dei campi, né l’altro. Gli ignavi vanno avanti, per l’eternità, nudi, girano in cerchio e sono punti da terribili insetti, sono frustati dalle vespe che solcano il loro viso. Il sangue e le lacrime di dolore e di vergogna cadono ai loro piedi, mentre schifosi vermi si gettano su questi frutti della tortura e li divorano in fretta.

                   «Incontanente intesi e certo fui
                    che questa era la setta d’i cattivi,
                   a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

                   Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
                   erano ignudi e stimolati molto
                   da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

                   Elle rigavan lor di sangue il volto,
                   che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
                   da fastidiosi vermi era ricolto.»
(Inf., III, 61-69)

Dante vorrebbe sapere, come in tutti gli altri cerchi, chi si trova là, chi è almeno uno di questi, per immortalarlo nella sua storia. Ma un tale privilegio non gli viene concesso. Virgilio gli lancia la memorabile frase: «non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Inf., III, 51). Furono ignavi durante la vita, non meritano nemmeno che il loro nome sia ricordato dopo la morte. La vigliaccheria è un peccato disonorante e umiliante. Non si tratta forse di un’avventura epica, ma di una circostanza morale di estrema rilevanza.

O.P.: Ti propongo una sosta provvisoria qui, davanti a queste immagini infernali che hai evocato.