Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


«ESEMPI DELL’IMMAGINARIO SCIENTIFICO»

QUINTO DIALOGO

22 febbraio 2006



O.P.: Parliamo dell’opera latina di Dante. Le divisioni sono state fatte, certo, in diversi modi. Per altri autori, dove le cose sono più precise per quanto riguarda la biografia, si parla dell’opera giovanile, dell’opera matura ecc. Alcuni parlano del giovane Hegel, altri dell’ultimo Heidegger e così via. Noi parliamo del Dante latino e del Dante italiano. Egli infatti era italiano anche mentre scriveva in latino, ma era il partigiano della lingua parlata (non mi piace chiamarla «volgare»).

L.A.: È un latinismo quest’espressione, la «lingua volgare».

O.P.: C’entrava con la gente vivente sul Volga – i… «volgari»?

L.A.: C’entrava con vulgus

O.P.: D’accordo. Se dovessimo fare una classifica delle sue opere latine, quale ti sembra più rappresentativa in questo momento? Certo che, nel contesto in cui le ha scritte, potevano essere incitanti, appunto, i suoi discorsi «all’avanguardia», che provocavano di più. In questa categoria, secondo me, si potrebbero includere sia De vulgari eloquentia, sia Monarchia. La prima, dal punto di vista della linguistica, della retorica, della dialettica stilistica. L’ultima, nel campo delle aperture che proponeva nel pensiero politico. Ma comunque, parlando per un eventuale lettore dei nostri giorni, che ne pensi, che cosa si leggerebbe più facilmente e con più grande profitto di Dante, autore che si esprimeva nella lingua degli scienziati della sua epoca?

L.A.: Mi ricordo che, per quanto riguarda il capolavoro di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, in un certo momento si è detto che sia come una cattedrale, con tutti i suoi elementi d’architettura disposti in modo molto armonioso. Quello che sembrava una creazione spontanea, un flusso incontrollato del ricordo dell’artista esaltato – il primo volume, Dalla parte di Swann, sappiamo che è stato addirittura rifiutato dalla maggior parte degli editori – si è dimostrato, con il passar del tempo e con il compimento dell’opera, infatti, una costruzione unitaria, armoniosa, attenta, una creazione premeditata nei suoi minimi dettagli. Un po’ la stessa cosa si potrebbe dire anche dell’intera opera di Dante. È chiaro che la Divina Commedia rappresenta il capolavoro e il punto di convergenza di tutta la scienza e competenza dell’autore, invece gli altri suoi scritti si dispongono come pilastri del capolavoro. Quindi non potremo stabilire una gerarchia tra le altre opere…

O.P.: …ma esprimiamo comunque un’opinione soggettiva…

L.A.: …perché ciascuna ha il suo specifico. Allo stesso modo non possiamo paragonare le mele con le prugne, le patate con le carote. Che cosa ti piace di più: una mela, una patata o un’arancia?

O.P.: A me piace la patata…

L.A.: Quando hai fame, preferisci una patata, dopo pranzo ti prendi una mela, e quandi hai sete assaggi un’arancia. Allo stesso modo è molto diversificata l’opera dantesca detta «minore». De vulgari eloquentia è un trattato di linguistica e di dialettologia, Monarchia è un trattato di politologia, e poi abbiamo in questo settore, delle opere scritte in latino, un trattato di fisica e di astronomia: Questio de aqua et terra. È forse il più contestabile tra gli scritti danteschi. L’autore esprime qui diverse sue opinioni scientifiche. Dante costruisce una scrupolosa argomentazione in cui vorrebbe descrivere l’aspetto della Terra.

O.P.: Riprendeva la tradizione di Aristotele.

L.A.: Sì. Una descrizione fatta dal punto di vista «fisico»: il territorio delle acque, il territorio della terra ferma, come si è formato il globo terrestre e così via. Egli si impegna in tutto questo con una straordinaria erudizione, ma i suoi grandi sforzi finiscono nel vuoto, perché egli prende come punto d’appoggio il sistema tolemaico, l’unico accettato in quei tempi medievali. La Terra è al centro dell’universo. Tutto ruota intorno alla Terra. Dante inizia con queste premesse, che intanto si sono dimostrate sbagliate, ma che egli accetta e ci costruisce sopra una seducente teoria scientifica, molto impressionante per la sua erudizione, come dicevo, ma priva di basi nella realtà.

O.P.: Qui mi consentirai di attirare la tua attenzione, con piena amicizia, sul fatto che la severa critica contro la teoria sull’aspetto fisico della Terra, come si trova in Dante, o la critica della teoria sbagliata – lo sappiamo oggi – sui colori, come si ritrova in una formula tuttavia famosa di Goethe, o la visione tolemaica dell’universo, che Nichita Stănescu prende in prestito per ragioni poetiche e forse per diversi suggerimenti filosofici, in Laus Ptolemei, sono…

L.A.: Non so se questa serie sia proprio giusta, ma…

O.P.: … pensavo non dal punto di vista del loro valore, ma come un atteggiamento…

L.A.: I primi due autori ci stanno davvero, ma il terzo è alquanto inutile…

O.P.: Accettali per un momento, perché volevo costituire una tipologia di almeno tre nomi. Forse cercando un po’ in Borges, possiamo aggiungere anche un altro riferimento. Certo che sono riuniti per caso, in fretta… Ma non sul carattere assiologico della selezione vorrei insistere in quanto segue. Invece direi che, in seguito a Einstein, in seguito alla sua teoria della relatività, le cose sono un po’ cambiate. Non condanniamo più queste teorie artistiche, in base al nostro newtonianismo e al nostro copernicanesimo, ma le vediamo soprattutto dalla prospettiva di Thomas Kuhn, che parlava di una successione di paradigmi, di alcuni esempi dell’immaginario scientifico. Quindi le possiamo sfruttare non per le loro conseguenze utilitarie, pratiche, di oggi, ma per una certa bellezza interiore, uno spirito geometrico, che nel caso di Dante viene notato anche dagli altri. Ricordavi le interpretazioni, seguite anche da schemi ampi e dettagliati, dell’universo fisico e metafisico, così come esso traspare dall’esegesi della Divina Commedia. Non se ne può contestare la complessità, anche se un fisico o un geologo o un metafisico o un teologo potrebbero esprimere diverse riserve nei confronti di tali formule, che si appoggiano su una conoscenza differente, su un’altra visione del mondo. Forse, così come ci provano alcuni filosofi di oggi, prima di condannare, potremmo notare la bellezza di queste visioni. C’è l’abitudine di leggere Platone attraverso Heidegger, sebbene ci sia una grande distanza tra i due. Heidegger era più vicino agli autori presocratici. E più vicino a Hölderlin. Secondo me possiamo fare questo viaggio di andata-ritorno, possiamo rovesciare, in base a un nuovo sguardo, le abitudini di un’esegesi («che cosa» attraverso «chi» stiamo leggendo?) e non vorrei screditare Dante, che cerca di offrire ai suoi contemporanei una comprensione tolomeica del mondo, vedendo in questa semplicemente un raccordo, con nuovi strumenti, alle metodologie della sua epoca, a una visione dominante. Certo che possiamo rimpiangere che Leonardo da Vinci abbia immaginato in un certo modo il volo dell’essere umano – e non come i missili americani della NASA. Ma questo non vuol dire che Leonardo non abbia avuto i suoi seguaci. Guarda i deltaplani di oggi e la bellezza dello sport al deltaplano, perfino il suo rischio, che non invalidano Leonardo, ma lo collocano ad altri livelli. Secondo me possiamo recuperare culturalmente queste avventure, anche se esse finiscono, dal punto di vista epistemologico, in un vicolo cieco. Che ne dici?

L.A.: La differenza è che il deltaplano di Leonardo vola ancora tutt’oggi, invece il sistema di Dante non funziona. È stato invalidato dall’evoluzione del pensiero scientifico. È vero che ci può aiutare a capire meglio l’immagine di una personalità polimorfica. Ma Dante non si deve cercare nel campo scientifico. Soprattutto se prendiamo in considerazione anche la sua piccola ostinazione nell’imporre non la forma artistica della sua dimostrazione, ma lo stesso contenuto di validità pragmatica.

O.P.: Dai, non andiamo avanti così presto. Mi ricordo, intanto, di una famosa miniatura dei romanzi popolari dell’Alexandria, in cui Alessandro Magno è visto come l’avo dei palombari. Egli si immerge nell’acqua del mare, in uno scafandro. Oggi questa storia sembra risibile, o comunque divertente e interessante, ma vediamo in televisione sul canale Discovery tale squadra di scienziati pazzi, composta di fisici, archeologi, falegnami e così via, che cerca di rifare le macchine da guerra del Medioevo o di riscoprire il segreto del fuoco ai tempi dei greci, o anche una immersione nelle acque del mare. In quei tempi, l’orizzonte scientifico era questo e mi sembrerebbe ingiusto considerare Dante come un povero ingenuo o un imbecille, nei suoi tentativi, perché non credo sia così. Sarebbe forse interessante domandarci che cosa gli sarà venuto in mente a cercare la decifrazione dei segreti del mondo visibile. Tu che cosa credi?

L.A.: Egli aveva senz’altro un’ambizione enciclopedica nei suoi approcci intellettuali. È stato una specie di Leonardo del Medioevo, potremmo dire, se non peccassimo di troppa audacia terminologica.

O.P.: Era una sorta di uomo universale, secondo te?

L.A.: Volevo dire proprio questo. Pensa un attimo agli elementi che prefigurano il Rinascimento, con le distinte preoccupazioni per diversi campi in apparenza incompatibili, o comunque lontani. Dante ha fatto già questa strada! Dalle meditazioni morali, filosofiche e ecclesiastiche, alle ricerche di linguistica, quelle di politologia, di fisica e astronomia. E veniamo adesso al suo titolo successivo: Eclogae, cioè una serie di frivoli versi campestri, che ha composto sempre per una sfida poetica, nei suoi ultimi anni, o nei suoi ultimi mesi di vita – Dante ha coperto quasi tutti i campi di ricerca umanistica di quel periodo.

O.P.: C’era un’influenza del modello antico qui? Orazio, Properzio ecc.?

L.A.: Sì, senz’altro. Dunque l’uomo universale è nato in Italia prima di Leonardo, ed è stato Dante Alighieri! Un importante punto di vista ci offre anche la lettura della raccolta di lettere dantesche in latino: Epistolae. Sono tredici testi, attestati come scritti da Dante. Secondo alcuni, ce ne sono anche altri.

O.P.: È il primo a scrivere epistole liriche?

L.A.: Non sono epistole liriche. Si tratta di diversi messaggi con finalità pratica, pragmatica.

O.P.: In prosa?

L.A.: Sono effettivamente delle lettere.

O.P.: Pensavo che assomigliassero ai poemi Le lettere di Eminescu.

L.A.: No, sono lettere vere e proprie, in cui egli comunica certe idee ai suoi contemporanei.

O.P.: Non si conservano le copie originali, da quello che capisco.

L.A.: Non abbiamo neanche una parola scritta personalmente dalla mano di Dante, esse sono ricopiate. Due tra queste rappresentano addirittura delle «lettere aperte», come si chiamerebbero oggi. Il poeta si rivolge ai fiorentini, che esorta a evitare qualsiasi gesto di resistenza contro l’imperatore Enrico VII, al suo arrivo con esercito in Italia, perché questo sarebbe il più terribile tradimento del suddito, che si ribella contro il sovrano. Certo che Dante non è stato ascoltato, anzi, queste brucianti missive passionali gli hanno creato altri inconvenienti da parte dei contemporanei, che lo hanno percepito come un traditore. Dante scrive poi un messaggio infiammato ai re, ai senatori e ai popoli dell’Italia, attirando la loro attenzione sulla nuova opportunità storica. Un’altra lettera è rivolta allo stesso Enrico VII, un imperatore giovane, senza grande esperienza militare, strategica. Egli si era «bloccato» a Nord, in diverse piccole battaglie. Rimandava la sua grande spedizione contro Firenze, la città che, secondo Dante, era il peggiore nemico, il più ricco Stato di quel tempo, che con i suoi soldi attirava i mercenari, pagava gli ambasciatori e tirava le corde dietro le quinte contro l’Imperatore. Si doveva schiacciare la testa del serpente! L’esercito imperiale doveva venire e conquistare Firenze! Invece questo giovane e inesperto Enrico VII rimaneva bloccato nel Nord e rimandava la sua campagna. Dante lo sprona a accorgersi della vera origine del male. (Riassumo in poche parole che cosa è successo di seguito. Dante trasmette all’Imperatore anche personalmente questo messaggio, nell’unica udienza che gli è stata concessa e che egli ricorda in parole veneranti. Alla fine Enrico arriva con l’esercito sotto le mura di Firenze, ma la sua determinazione ormai sta per scadere. La moglie Margherita era morta a Genova. L’esercito era demoralizzato e dopo qualche settimana di assedio piuttosto anemico, l’imperatore si ritira senza insisterci, in breve tempo diventa malato di malaria e muore. Dante rimpiange con amarezza la morte di quest’ultima speranza di ritorno nella sua città e nella sua patria. Riserva un posto glorioso nel Paradiso a Enrico VII, l’uomo che ha voluto portare il progresso e la pace sulla terra italiana, ma la furbizia e l’infamia dei contemporanei non gliel’hanno concesso.)

O.P.: Tutte le sue lettere hanno un contenuto politico?

L.A.: Più importanti – dal punto di vista strategico – sono non queste, che ho appena ricordato, ma altre due. Penso soprattutto a quella rivolta a Cangrande della Scala (seppure la sua autenticità sia contestata da alcuni). A che cosa si riferisce? Cangrande è stato uno dei grandi protettori di Dante. Il poeta, rimasto in esilio, si è successivamente fermato in diverse corti, dove i signori locali lo hanno onorato e lo hanno protetto. Altri invece non più di tanto, e Dante ha dovuto riprendere la sua strada, perché è stato ignorato. Tra i suoi notevoli protettori c’è stato questo Cangrande della Scala, molto generoso con Dante. Il poeta non esita a ringraziarlo, in una delle terzine del Paradiso (gesto che ha provocato le smorfie scontente di Papini, per esempio). Si deve ugualmente aggiungere che egli dedica in modo esplicito il Paradiso, la terza cantica, a Cangrande della Scala, in segno di gratitudine. Quindi c’è questa significativa lettera, la tredicesima, che il poeta rivolge a Cangrande. Perché estremamente importante? Dante confessa e descrive le sue intenzioni estetiche, che cosa si è proposto di raggiungere per mezzo della Divina Commedia.

O.P.: Cangrande non era per caso uno dei grandi condottieri del suo tempo?

L.A.: Esatto. Era un guerriero, un capitano, uomo bravo e pieno di iniziativa, e sembra sia stato anche generoso con alcuni artisti, e Dante si è ritrovato tra loro senz’altro.

O.P.: Il modello del Mecenate che sarebbe diventato famoso nell’epoca successiva.

L.A.: Sì. Con Lorenzo de’ Medici e tutti gli altri. Che cosa dice Dante nella sua lettera a Cangrande? Ricorda il fatto – che abbiamo spiegato anche altre volte – che ci sono diversi livelli di comprensione di un testo (secondo il modello biblico) e che lui, di proposito, ha costruito l’opera a diversi livelli. Il libro si deve comprendere da punti di vista distinti. E lo dice anche in modo insistente ed esplicito che il suo primo scopo, mentre scriveva la Divina Commedia, è stato quello di creare un’opera di insegnamento per i contemporanei e i posteri. Dunque la finalità pedagogica-utilitaria. Prima di qualsiasi riflessione di natura metafisica, letteraria – la bellezza, la strategia estetica, l’intertestualità ecc. – che si può fare senz’altro, la prima finalità che si era proposto con tutta la determinazione è stata questa: offrire un libro di studio! Anche per questo (sebbene Dante non ce lo dica più apertamente), non è avventato mettere in analogia la Divina Commedia con la Bibbia. È il libro che ha una finalità pratica, che vuole agire e influire sulla vita dei contemporanei. Non è semplice opera teorica. Per niente staccata dalla realtà, per niente dedicata alla creazione fantasiosa, romanzesca e immaginaria di territori inaccessibili. Assolutamente no. Gli spazi soprannaturali rappresentano il pretesto per l’azione diretta e immediata sulla contemporaneità.

O.P.: Forse questo richiamo soltanto alla Bibbia è alquanto un esercizio d’orgoglio. O comunque un gesto unilaterale, che varrebbe la pena di sfumare un po’. Nella Divina Commedia, l’Antichità ha il suo messaggero preminente, che diventa una specie di personaggio con fuzione psicopompa, che porta dappertutto il protagonista Dante nel suo periplo. Sia nei mondi freddi, infernali, quanto in quelli lacrimosi, purgatoriali.

L.A.: Questa ormai è una strategia letteraria, per mezzo della quale l’autore mette in pagina il suo messaggio.

O.P.: D’accordo. Aggiungo ugualmente che, con la sua trasformazione in personaggio, in eroe di questo periplo, Dante crea a se stesso l’opportunità di diventare, almeno in un modo umano e molto partigiano, il giudice di mondi diversi – quelli che sono stati e quelli che ci superano. Tantissimi tra i suoi contemporanei più anziani, che si sono spenti, tantissimi predecessori sono ben fissati là, nei buchi dell’inferno. Mentre gli altri godono dei premi di Dante. Non è quindi per caso se, da un certo punto di vista, la Divina Commedia può essere considerata una specie di classifica della gente che contava per la coscienza di Dante e dell’epoca, tra i suoi contemporanei.

L.A.: È vero. I commentatori hanno insistito su queste «classifiche». Ma secondo me, tutto questo si dovrebbe apprezzare piuttosto come un valore aggiunto. Giovanni Papini ha nella sua monografia un capitolo incitante, che si chiama proprio così: Dante professore. Papini ha grande ragione a osservare qualcosa: le strategie di presentazione didattica, professorale, sono meravigliosamente messe in pratica dal poeta. Non ci sono testimonianze attendibili che Dante abbia mai insegnato da qualche parte, ma lui, con la sua intuizione, con il riflesso dell’intellettuale squisito, si è straordinariamente impadronito delle strategie retoriche. Una tra queste è che l’insegnante, appena presenta una teoria o una meditazione, la deve subito illustrare attraverso degli esempi, per spiegarsi meglio. Se egli si isola nella rigida e secca teoria, rischia l’ipotesi di parlare solo per se stesso. Ma una cosa del genere, secondo me, non desidera nessun vero professore. Dante è cosciente di un simile rischio e lo evita spesso: egli enuncia il peccato, lo illustra con diverse torture, e poi lo esemplifica con persone, personaggi, personalità che hanno commesso quello sbaglio. O enuncia la virtù, la colloca come in un insettario, in un cerchio della salvezza, e poi ne fa l’illustrazione con diversi santi e spiriti beati.

O.P.: Però questo non mi sembra un metodo biblico, ma piuttosto la strategia dei predicatori…

L.A.: Certo. È una strategia di espressione pedagogica…

O.P.: È quello che facevano i monaci, nelle loro prediche, con i cosiddetti exempla. Predicavano una virtù o combattevano un vizio, e poi ne davano gli esempi. Quindi mi sembra più vicino alla tradizione, che non a quello che diventa centrale dalla Riforma in poi: il testo biblico. Certo che ritroviamo l’orizzonte biblico in Dante, ma comunque esso appartiene a una Chiesa Cattolica trovatasi prima dell’aspra critica che dava l’ultima parola al testo della Bibbia e che Martin Lutero esprimeva. Io non ho mai più trovato descrizioni talmente pregnanti dell’Inferno. Mi sia perdonato: forse egli qui ha avuto una rivelazione! Non lo sappiamo. Comunque sappiamo che sta immaginando, lavora con gli strumenti dell’immaginazione letteraria. È assolutamente impressionante. Talmente impressionante che il suo Purgatorio, per esempio, determina oggi Jacques Le Goff a scrivere un libro su La nascita del Purgatorio. In Dante abbiamo l’apogeo della teoria del Purgatorio. In questo senso vorrei insistere su quello che hai detto. Certo che Dante è, con la sua grande opera, nella situazione di dare un contributo – non rovesciata – della Bibbia (adesso forse dico un’eresia!), egli non vuole completarla, ma intende interpretarla, con la sua propria sensibilità e intelligenza, nel contesto dell’epoca in cui si trovava, della gente guidata da preti che forse non conoscevano proprio l’integralità della Bibbia, anche se si includevano in una tradizione biblica senz’altro.

L.A.: Vorrei tornare e insistere su quello che dicevo. Alcuni si sono stupiti dei nomi celebri: le straordinarie personalità, imperatori, papi che si ritrovano specialmente nell’Inferno. Perciò Dante fu accusato di orgoglio, di aver fatto vendetta personale e di aver avuto diversi atteggiamenti partigiani. Essi ci sono, senz’altro. Tutti gli artisti hanno – se sono rilevanti – un forte punto di vista personale da esprimere. Ma, come capisco le cose dal mio punto di vista, adesso, nel XXI secolo, quei nomi citati e conosciuti – ce ne sono a centinaia –, nomi di spicco della cultura mondiale, della religione…

O.P.: …della politica…

L.A.: …hanno il ruolo di esempi! Il rischio è di dare troppa importanza all’esempio, e non alla teoria!

O.P.: Non c’è da meravigliarsi, perché l’esempio è concreto. Ti colpisce.

L.A.: Sì. È più plastico. Ma, nella mia intuizione, dal modo in cui ho letto la Divina Commedia, ho le mie ragioni di credere che per Dante fosse più importante la teoria presentata! È vero che la teoria era più secca, e quindi l’attenzione dei lettori si è concentrata appunto su questa «audacia», questa «imprudenza», quest’ «orgoglio» – come alcuni avranno considerato – di citare nomi gloriosi in contesti infamanti. E non i nomi erano importanti, ma il peccato che essi illustravano! Concludiamo insistendo che la lettera a Cangrande della Scala è essenziale per l’espressione di una (auto)coscienza estetica estremamente chiara e matura per il periodo e il contesto in cui si manifestava. Un’altra lettera importante, perché ci ritroviamo l’orgoglio, ma anche la dignità, la verticalità e il carattere netto di alcune prese di posizione dantesche, è la cosiddetta epistola All’amico fiorentino (che ho tradotto e ho commentato anch’io sulla rivista România literară dieci anni fa).

O.P.: Si è stabilito chi fosse il destinatario della lettera?

L.A.:  Ci sono diverse ipotesi. Alcuni dicono che sarebbe un nipote di Dante, rimasto a Firenze e che non viene nominato appunto per non essere messo in pericolo. Altri dicono che sarebbe un amico di un parente. Insomma.

          O.P.: Sai che cosa mi ricorda questo? La corrispondenza di Cioran con Noica… Non credi?

L.A.: Sì, forse. Di che cosa parla questa epistola e perché è così impressionante, perfino oggi? Ci ricordiamo che Dante fu condannato a morte, a essere bruciato sul rogo, dopo che era rimasto in esilio e si era impegnato, insieme ad altri profughi, contro Firenze. Poi egli si ritirò dalle attività politiche e si concentrò sulla redazione della Divina Commeda e proseguì la sua biografia tormentata, segnata da numerosi pellegrinaggi e rifugi. Tornò per la seconda volta al centro dell’attenzione politica, in occasione della campagna militare di Enrico VII, quando intervenne ancora con grande insistenza, per violente lettere aperte, contro Firenze. In seguito, i fiorentini se ne vendicarono di nuovo e lo condannarono la seconda volta a morte, questa volta per decapitazione, appena fosse stato preso. Ecco Dante, destinato due volte alla pena capitale, successivamente. Ci fu tuttavia, in seguito a questa situazione, un tentativo di riconciliazione da parte della città. In che senso? Il governo di Firenze proclamò un editto di perdono, di grazia al riguardo di tuti i proscritti. Loro potevano tornare a casa senza problemi, la patria generosa li perdonava. Ma a due condizioni: dovevano ammettere la loro colpa, pagando una cifra simbolica, e dovevano accettare di sfilare per il centro della città, di fronte alla prigione e fino all’ingresso in chiesa, vestiti di penitenza, come una pubblica umiliazione che loro accettavano nei confronti della patria che avevano insultato. Se loro accettavano queste due condizioni (cioè di pagare una cifra modesta e di chiedere il perdono partecipando alla processione), la città li perdonava e li riaccettava. L’amico – rimasto senza identità – fa conoscere questa situazione al poeta, credendo di fargli grande piacere. Ma l’esiliato gli risponde in modo estremamente netto e tagliente: questa sarà la strada che Dante, l’uomo di lettere, dovrebbe seguire per venire in patria? Io, che ho sudato sulle carte e ho lottato per il bene della mia patria, dovrei tornare a casa, dopo più di quindici anni, come l’ultimo malfattore, accanto a un Ciolo?! (I ricercatori hanno poi trovato che il detto Ciolo era un delinquente che aveva bruciato i suoi documenti contabili e che, in quell’occasione, era tornato e si era fatto perdonare per tutti i misfatti.)

O.P.: Ciolo – il nostro contemporaneo!

L.A.: Sì. Abbiamo diversi Ciolo anche tra di noi… Dunque al delinquente si poteva perdonare, invece Dante, la grande personalità fiorentina, doveva mettersi in fila, accanto agli trasgressori e riconoscere una colpa che non aveva commesso. Che cosa doveva ammettere? Di aver rubato soldi pubblici? Ma lui non aveva rubato! Era stato solo il pretesto dei nemici per cacciarlo via, in quanto avversario politico. O le sue profonde convinzioni etiche e morali? Ma queste non erano fondamentalmente cambiate. Egli si schierava ugualmente contro l’impostura, l’ingiustizia e l’ignominia, da qualunque parte della barricata si trovassero. In un tale contesto, Dante rifiutò di tornare, con il tono dell’indignazione e dell’orgoglio oltraggiato. Egli disse: potevo trovare anche in esilio un pezzo di pane e i raggi del sole, come li avevo trovati anche prima. Andavo avanti a scrivere i miei lì libri dove mi trovavo. Se Firenze mi voleva riavere solo così, come delinquente, io così a casa mia non andavo! Se invece Firenze trovava un’altra strada, e cioè mi accoglieva con gli onori e voleva mettermi sulla fronte la corona di alloro, nel Battistero di San Giovanni (uno dei punti di centrale prestigio della città), allora sarei venuto a passi veloci! Se loro mi richiamavano da poeta eccelso, che volevano omaggiare, ci sarei venuto volentieri. Ma se mi volevano vedere da delinquente che chiedeva il perdono, io a Firenze non ci avrei messo il piede mai più!

O.P.: Qui, oltre alla posizione orgogliosa e alla propria coscienza artistica che dimostra un simile discorso, io riconosco i temi culturali prestigiosi, sin dalla pretesa apparentemente assurda di Socrate, portato davanti al giudice, di ricevere da mangiare nel pritaneo, e fino a un autore che tu, Alex, ammiri moltissimo, e mi riferisco proprio allo scrittore, questa volta, non necessariamente anche al suo pubblico atteggiamento, Paul Goma, che ha rifiutato l’invito del presidente Ion Iliescu di ritornare in patria. Anzi, perfino lo stesso invito del presidente moldavo Mircea Snegur.

L.A.: Il suo motivo è stato assomigliante: egli non voleva viaggiare in Paesi comunisti!

O.P.: Come nella storia di Dante!

L.A.: Sì, in qualche modo. Certo che la personalità di spicco, per il Novecento romeno, di Paul Goma è destinata a impressionare e a suscitare un’ammirazione non cancellata dalle riserve che lo stesso Paul Goma provoca, questa volta, con i suoi scritti antisemitici del XXI secolo. Ecco dunque, in breve, le opere latine di Dante Alighieri. Diciamolo un’altra volta: esse rispecchiano, ciascuna, una certa sfera di attività, un certo campo. Abbiamo un Dante bravo linguista, un Dante bravo dialettologo, un Dante bravo politologo nei suoi scritti teorici, un Dante con una personalità degna e orgogliosa, un Dante molto cosciente dei suoi concetti estetici, che presenta in teoria, spiegando con estrema chiarezza quello che mette poi in pratica, e un Dante come ostinato scienziato, anche se le sue tesi non sono ormai valide, con il passar del tempo. Dante Alighieri, con l’opera cosiddetta minore, in latino, fa i primi passi verso l’edificazione del concetto di uomo universale, che poi sarebbe brillantemente illustrato da Leonardo.

O.P.: Nella tua opinione, se leggiamo sia i testi pubblicati prima in latino (tradotti oggi in italiano e in romeno), sia quelli italiani, dove credi che Dante si ritrovasse più «a suo agio»? A prescindere dal suo chiaro discorso a favore della lingua italiana… Nei suoi testi sapienti, tra i membri della élite, che usavano ancora il latino, con tutto quello che ne implicava la buona padronanza, ma anche con un pizzico d’orgoglio della saccenteria, o tra coloro che usavano l’italiano, dunque in mezzo agli autori che potevano stabilire una comunicazione più diretta, più provocante con i lettori, con i consumatori in un senso molto ampio (si tratta anche di pubbliche letture, di recitazioni a memoria) delle opere italiane?

L.A.: Certi specialisti esprimono l’ipotesi che Dante abbia fatto un soggiorno anche a Parigi. O per studiare, o successivamente, in esilio. Questo viaggio parigino non è scientificamente attestato, da tanti dei suoi biografi italiani, quindi non lo possiamo prendere în considerazione. Fatto sta che ci sono numerosi echi della lingua francese, tanto dal punto di vista lessicale che sintattico, perfino nella Divina Commedia. Potrei quindi lanciarmi in questa ipotesi, che Dante avesse, oltre all’italiano e al latino, anche una buona padronanza del francese. Comunque Parigi era la capitale culturale di quell’Europa.

O.P.: Si poteva trattare di influenze culturali che non imponevano un viaggio effettivo di Dante su terra francese.

L.A.: Certo. Poteva aver conosciuto alcuni manoscritti, o diversi «girovaghi», gli artisti ambulanti con cui avrà scambiato diverse idee.

O.P.: Ma ti chiedo un’altra cosa: la sua corrispondenza è in italiano o in francese?

L.A.: La sua corrispondenza è in latino. Tutt’e tredici i testi attestati.

O.P.: Allora forse egli avrà rispettato l’abitudine dell’epoca, così come, per dare maggior prestigio alle sue prese di posizione, avrà scelto apposta il latino, non necessariamente perché ci si sarebbe sentito meglio.

L.A.: Fammi rispondere alla domanda precedente: secondo me, oltre all’italiano  e al latino, potremmo presumere, con un po’ d’audacia, anche le sue conoscenze di francese. Ripeto: forti reminiscenze di questa lingua si ritrovano nella Divina Commedia. Ma dove si sentiva Dante più «a suo agio»? La mia ipotesi è che, anche oggi, mentre assistiamo allo scoppio del plurilinguismo, se chiediamo a un poliglotta in che lingua sta meglio, forse ci risponderà che in realtà la lingua è uno strumento, per mezzo di cui la persona trasmette i propri concetti, sentimenti, stati d’animo, immagini del mondo e dell’universo e che egli sta adeguando la sua lingua d’espressione all’interlocutore. Sarà stato questo anche il caso di Dante. Egli aveva dei concetti chiarissimi. Sono convinto che si appoggiasse, prima di tutto, su un complesso di precetti di natura etica, morale, a cui rimase fedele per tutta la sua vita. Questo è interessante: dal punto di vista politico, possiamo notare che in giovinezza fu guelfo bianco, andò in esilio e si allontanò dai guelfi, si avvicinò ai ghibellini, come se fosse passato dall’altra parte della barricata. Un osservatore superficiale potrebbe concludere che Dante avesse abbandonato le sue scelte. Ma no. Egli rimase conseguente ai principi di natura etica. Si ribellava contro l’impostura, contro il tradimento (che era per lui la colpa più orrenda). Quindi puniva – almeno con le parole – il tradimento, là dove lo trovava, in qualsiasi campo. Non era un attivista politico, nel senso stretto, quotidiano, ma un partigiano dei concetti etici. Da questi deriva poi un insieme di concezioni di stampo sociale: mettere ordine in un territorio geografico caotico, della penisola italiana, incoraggiare una nuova lingua (l’italiano). A mano a mano, dalle basi etiche si erge la sua «costruzione» a diversi piani: quello sociale, che si appoggia su quello linguistico. E tutto quanto, raccolto nella concezione politologica, espressa nell’equilibrio tra le antitesi, tra il Papa e l’Imperatore. L’armonia politologica è destinata a omogeneizzare l’edificio, con i suoi diversi scompartimenti e livelli. Che questo edificio fosse esposto da Dante in latino, quando parlò del suo lato linguistico, o in italiano, quando compì la Divina Commedia, è meno importante. È invece significativo che egli sia rimasto conseguente e pertinente in tutta la sua costruzione.

O.P.: Certo che la mia risposta è contraria alla bella ipotesi intellettuale che stai proponendo. Altrimenti ci annoieremmo! Direi molto semplicemente che Dante non poteva non sentirsi a suoi agio nella sua lingua madre. L’ha imparata da piccolo, l’ha sentita dappertutto intorno a sé. Tutte le canzoni, la poesia erano in «fiorentino», quel dialetto «volgare» che si parlava nella sua zona, in Toscana. Certo che abbiamo delle situazioni, nella storia della cultura moderna, di persone che si sentirono come il pesce in acqua in una  prestigiosa lingua straniera internazionale. Non vorrei cominciare con Cioran, che è molto conosciuto in Romania e che rifiuto in modo conseguente, dagli anni Cinquanta fino alla fine della sua vita, di scrivere ancora in romeno – e per un lungo periodo perfino di parlare con i suoi compatrioti –, a favore del francese. Mi riferirei a Leibniz, che si rivolse nelle sue opere, con una notevole conseguenza e abilità, verso il francese, la lingua franca di quei tempi. Nell’età dell’Illuminismo, era comunque la più prestigiosa. L’archivio di Leibniz – che ho visitato a Münster e che (lo dico solo come un aneddoto, perché siamo arrivati a questo punto) è dovuto in grande misura allo sforzo dei ricercatori della Germania occidentale che si sono recati nella Repubblica Democratica Tedesca, a quei tempi, e hanno trasportato, spesse volte di nascosto, nello zaino, fotografati con gli apparecchi di cui disponevano, come in un film d’azione di James Bond, pagina dopo pagina, molti dei manoscritti leibniziani che allora si trovavano oltre frontiera, nell’Europa socialista – è pieno zeppo quindi, quest’archivio, di manoscritti francesi. La sua corrispondenza con i reali europei, tutta quanta, si svolge in francese.

L.A.: Una situazione analoga si nota nel caso di Carlo Goldoni, il più importante commediografo italiano. Negli ultimi anni di vita, per l’ostilità sempre più insistente dei veneziani, egli fu costretto a stabilirsi fino alla morte a Parigi. Fu stipendiato e protetto del re di Francia. Le ultime sue opere furono scritte in francese. Si conservano ancora queste Mémoires di Goldoni.

O.P.: Sono tradotte in romeno.

L.A.: E perfino in italiano.

O.P.: Non dobbiamo escludere quindi simili situazioni dalla nostra discussione, ma istintivamente credo, siccome la sua principale opera è scritta in toscano, che Dante si sia sentito a suo agio proprio in questa lingua.

L.A.: Quest’idea è indiscutibile. Vorrei sottolineare che ci sono numerosi passi testuali, in cui Dante confessa apertamente…

O.P.: …il suo affetto…

L.A.: …anzi la sua passione per la lingua italiana. Egli scrive un intero trattato in difesa e per la promozione di questa meravigliosa lingua che è l’italiano (De vulgari eloquentia). Il primo libro del Convivio tratta proprio di questo. È ovvio che le scelte sentimentali – e anche razionali – di Dante vanno verso la nuova lingua del popolo. Da un’altra parte, però, quello che volevo dire io è che Dante aveva per riflesso, secondo me, questa eleganza, o almeno la cortesia di rivolgersi a ciascuno nella propria lingua. Quando parlava con uno scienziato, usava il latino. Se gli parlava in italiano, rischiava di non essere preso sul serio. Perché l’«Unione Europea» Medievale usava il latino. O egli correva anche il rischio di non farsi capire. Oltre a quello di essere eventualmente disprezzato, perché usava un dialetto «popolare». O la Monarchia, trattato di politologia che si rivolge non solo alla penisola italiana, ma si confronta con una realtà imperiale, continentale, del rapporto tra il Papa e l’Imperatore, esprime un problema europeo. Anzi mitteleuropeo. Parla non solo agli abitanti della penisola, ma anche a tanti scienziati che si scambiano tra loro le informazioni in latino. C’è questo riflesso di parlare a ciascuno nella sua lingua. Ma la passione e la scelta cosciente sono a favore dell’italiano, quindi Dante scrive il più importante capolavoro in questa lingua (la Divina Commedia). Ma parliamo in quanto segue dell’opera dantesca in italiano. Il primo titolo, che abbiamo già ricordato brevemente, si chiama Vita Nuova. È un’opera di giovinezza, probabilmente dell’adolescenza o subito dopo.

O.P.: Si è stabilita la data con precisione?

L.A.: No. Come tutte le altre opere di Dante, tranne la Divina Commedia, è rimasta incompiuta. Tutte sono incompiute, per diverse ragioni: la biografia tormentata ecc. L’attenzione dell’autore si è concentrata sulla redazione e la conclusione della Divina Commeda. Che cos’è la Vita Nuova? È un’opera autobiografica composta, formalmente, di testo epico, ogni tanto combinato con versi. È un misto epico e lirico. Per quanto riguarda il tono dell’espressione, è soprattutto lirico. Dante ci racconta le sue esperienze giovanili e specialmente l’amore trascinante per Beatrice. Che egli ha visto – lo dicevamo anche l’altra volta – per la prima volta a nove anni, in chiesa. L’ha rivista dopo altri nove anni. Abbiamo queasta simbologia della cifra 9. Possiamo quindi considerare il testo a livello letterale e immaginarci un ragazzino che va in chiesa e osserva una fanciulla, di cui rimane innamorato per il resto della sua vita. O lo consideriamo a livello allegorico, e allora facciamo una meditazione sulle cifre, pensiamo che 9 significa 3 x 3. E 3 rappresenta la cifra della perfezione, una chiara allusione alla Santa Trinità. Pensiamo che 3 x 3 è la Trinità al cubo, dunque Beatrice è la perfezione stessa. In questa situazione, capiamo altro che la semplice informazione che Beatrice avrebbe avuto solo 9 anni, quando è stata osservata in chiesa. Il giovane Dante è di un sentimentalismo malato, non osa rivolgerle la parola, soltanto la ammira da lontano e scappa via, va a casa, nella «camera de le lagrime», e si mette a piangere, per l’intensa e eccessiva emozione che lo soffoca, al pensiero di aver visto la donna perfetta. Beatrice lo tratta con indifferenza. Invece lui, estremamente sensibile e introverso, non vuole esporre i suoi sentimenti alla beffa degli amici, e allora si nasconde, indossa una maschera, non dice niente a nessuno, anzi sta inventando un altro amore, la «donna-schermo». Finge di amare un’altra, per deviare i pettegolezzi e le cattiverie della gente su questa, che in realtà egli non ama, e per proteggere l’immagine della vera ragazza amata. C’è un’intera strategia di mezzo. Beatrice viene a sapere che Dante si sarebbe innamorato di un’altra – come dice la gente – e gli rifiuta il saluto. Motivo di tragedia. Dante va di nuovo a piangere. Un po’ in questo tono si svolge la Vita Nuova. Un’opera di giovinezza, molto dipendente dal Dolce Stil Nuovo, che abbiamo già ricordato di passaggio e su cui potremmo insistere qui, per coloro che forse non sono familiarizzati con la lirica medievale. Che cos’è? È una corrente letteraria che inizia con Guido Guinizzelli, poeta che aveva preceduto Dante di qualche decennio e che scrisse una poesia programmatica, intitolata Al cor gentil rempaira sempre amore. Il nome Dolce Stil Nuovo viene da una terzina dello stesso Dante. Qual è l’essenza concettuale di questa corrente letteraria tipicamente medievale? Siamo nel contesto della poesia aulica, aristocratica, dove al centro dell’attenzione si trova la signora, la donna amata. Ma lei è una presenza eterea, è tutta concettualizzata. Non ne troviamo una descrizione fisica. In Petrarca sappiamo che Laura era bionda. Di Beatrice non sappiamo né se fosse bionda o bruna, né se fosse magra o grassa, né se fosse alta o bassa. Abbiamo solo il concetto di donna, che è perfetto (come qualsiasi concetto). Un altro aspetto importante: non dimentichiamo che siamo nel Medioevo, con una cultura per eccellenza religiosa, ecclesiastica. Tutto quello che succede sulla terra è la proiezione della volontà del Cielo. Non possiamo fare nulla da soli, siamo predestinati a una certa vita, decisa da Dio quando ci ha portato al mondo. La donna – in quanto concetto della perfezione – dove trova il suo riposo? Nei cieli, certamente, vicino a Dio, che rappresenta la piena Perfezione. Ecco un concetto fondamentale per il Dolce Stil Nuovo, quello di «donna angelicata», che rappresenta il messaggero, l’ambasciatore venuto «da cielo in terra a miracol mostrare» (come dice Dante in uno dei suoi celebri sonetti). La donna è l’intermediario tra Dio, da una parte, e noi, gli esseri mortali pieni di peccati, dall’altra parte, che non siamo per niente attratti dal fascino corporale, istintivo, di lei. La nostra grande aspirazione è alla perfezione spirituale e al Paradiso, perché soltanto là saremo veramente felici. La donna è quella che ci apre la strada alla trascendenza. Lei è l’agente del mondo metafisico e l’intermediario della salvezza. Ecco una situazione molto audace, con delle connotazioni alquanto eretiche. Certi tratti di Beatrice sono davvero ai limiti del sacrilegio (come stava notando Papini). Dante parla di Beatrice usando le parole accese e passionali con cui la Chiesa si riferisce alla Madonna. Ma questo «sacrilegio» è frequente nel Dolce Stil Nuovo, la cui poetica è illustrata da Dante nella Vita Nuova e ripresa poi, in tanti passi del Paradiso.

O.P.: Certo che lo storico dentro di me sente il bisogno di dire che per quanto riformatrice fosse quest’idea del centralismo concesso non tanto al viso femminile, quanto al concetto di donna, essa aveva senz’altro dei precursori. Farei di nuovo un richiamo alla poesia dei trovatori della seconda metà del XII-o secolo, e poi l’intero XIII-o. I trovatori, ma anche i trovieri e i Minnesänger. Ricorderei il trattato di André Chapelain sull’amore cortese, guardato tra l’altro con grande sospetto dalla Chiesa.

L.A.: Sembra che una chiara allusione testuale, quasi una citazione tratta da Andreas Capellanus ci fosse nel canto V dell’Inferno, nella storia d’amore tra Francesca da Rimini e Paolo Malatesta.

O.P.: Allora le cose si ritrovano davvero in una comunicazione reciproca. Ma si è detto ugualmente che la poesia che include questa concezione, il cosiddetto amour courtois, sia influenzata da certi tipi di poesia araba. Quindi le crociate non sono finite senza episodi di acculturazione, senza le importazioni e i suggerimenti in questa zona delle mentalità, della cultura, e certo che si può invocare un’intera letteratura, le roman de la Rose, tutto lo stato d’animo che rappresenta una certezza per la gente colta e per gli ambienti ricchi. Non sappiamo quanto «scendessero» queste cose verso la grande folla. Forse erano meno romantiche, più brutali, con i rigori sociali e con la mancanza di cultura e di educazione. Comunque, ci sono senz’altro degli autori che hanno sostenuto che il secolo delle crociate avesse inventato l’amore occidentale e che esso è, se vogliamo, una innovazione che il Medioevo avanzato, mentre si trovava al suo apice, potesse rivendicare per sé. Per quanto riguarda la Vita Nuova, direi soltanto che, dal racconto che fai, risulta che Dante scriveva – a suo modo e assumendo tale esperienza in nome proprio – una prosa della seduzione, delle piccole furbizie dell’amore, a cui non puoi opporti. Ma con un particolare che mi fa pensare ai grandi e notevoli romanzi del Settecento, con i sospiri, con il pianto, con lo strategico ritiro e con le simboliche punizioni, ma vissute con passionale brutalità da una sensibilità che non era solo quella del poeta, ma anche dell’innamorato. Secondo me possiamo metterlo in valore anche così, non è vero? Non si tratterà per caso di una specie di Dolori del giovane Werther, perché tutti quanti continuano ancora a vivere per un tempo. Noi oggi sappiamo che Beatrice morì giovane. Ma vorrei dire una cosa, a proposito della discussione se Beatrice della Divina Commedia fosse davvero esistita o se si trattasse solo di un concetto, di una rappresentazione. Secondo me le due cose stanno insieme, non si escludono. Un discorso a tale punto passionale, come troviamo nella Vita Nuova, non poteva riferirsi a un semplice concetto.

L.A.: Certo. Dicevi che dovevamo chiarire un aspetto: la Vita Nuova è un romanzo della seduzione. Probabilmente. Ma spieghiamoci…

O.P.: Dante è quello sedotto!

L.A.: Appunto. Perché altrimenti si rischia di capire che egli metta in pratica un insieme di strategie per sedurre la donna.

O.P.: Comunque, una strategia è stata già ricordata…

L.A.: Ma è proprio l’opposto! Egli è sedotto in modo spontaneo e istantaneo, e la Vita Nuova ci descrive l’insieme dei fenomeni prodotti dalle sofferenze in amore.

O.P.: E di alcune strategie…

L.A.: Il risultato del fatto di essere già stato sedotto dalla donna.

O.P.: Tuttavia egli fa sì che arrivi a Beatrice la voce che Dante si sia innamorato di un’altra.

L.A.: Sì, ma questa è una strategia per proteggerla contro le cattiverie della gente.

O.P.: Ma anche per suscitare la sua invidia...

L.A.: Forse sì, forse no. Papini si domandava – torniamo sempre a lui – se Beatrice avesse amato davvero Dante. Il commentatore propendeva a credere piuttosto di no. Aggiungiamo adesso: se Dante non ha provveduto alle strategie adatte per sedurla, e invece si è fatto sedurre, allora sembra spiegabile che non abbia avuto troppo successo nella vita reale.

O.P.: Penso solo a questo, che scopriamo un Dante estremamente labile in amore. Il povero Dante, sedotto o meno…

L.A.: Sedotto e abbandonato. Malgré soi

O.P.: Dante è, in questi scritti, un giovane che soffre per amore. Uno che non lo nasconde, ecco, in un’opera letteraria. Ma successivamente, nella maturità, nella sua opera politica, nelle epistole di cui abbiamo parlato, egli ci appare come una persona intransigente, spesso dura, che lancia il vituperio contro tutti. Sembra che ci siano stati degli angoli segreti nella formazione del suo carattere.

L.A.: È vero. I suoi scritti rispecchiano con meravigliosa trasparenza l’evoluzione della personalità: dall’adolescente ipersensibile, che scoppiava in lacrime, egli diventa l’uomo politico, lo statista, la personalità verticale che si prende il diritto di indicare anche agli altri la strada giusta. Un’interessante opera di maturità, nel campo degli scritti italiani, è Il Convivio. Si tratta di un’opera di ampio carattere estetico…

O.P.: C’entra in qualche modo con l’idea del Simposio platonico?

L.A.: Certo. Si rifà direttamente al Simposio di Platone. Cioè si tratta di un’esposizione di saggezza filosofica, in cui si riconoscono le reminiscenze di Platone, insieme ad Aristotele, citato sin dalle prime parole.

O.P.: Il convito non si svolge a un tavolo, con le squisitezze culinarie, ma con le bontà dello spirito.

L.A.: È ugualmente un’opera incompiuta. È strutturata, da quello che si conosce, in quattro libri. Come sono costituiti questi libri? Ciascuno inizia con una canzone di Dante, che in seguito l’autore, scontento di non essere stato capito secondo le sue prime intenzioni, comincia a interpretare, a commentare. È un trattato di critica letteraria, au pied de la lettre, ma dalle sue osservazioni stilistiche, lo scrittore arriva alle considerazioni di carattere estetico, che poi combina con quelle di carattere filosofico, riempie con citazioni e con analogie alla letteratura antica e medievale ecc. Praticamente fa una specie di sintesi della saggezza filosofica ed estetica dei suoi tempi e dei suoi predecessori. Si potrebbero dire tantissime cose sul Convivio. Nel nostro viaggio che si propone di essenzializzare e di sintetizzare gli aspetti che riguardano Dante, basti sottolineare la seguente cosa. Qui sono apertamente ripresi e analizzati i quattro sensi in cui si può capire la Bibbia: letterale, allegorico, morale e anagogico. Dante ci spiega che cosa vuol dire ciascuno di questi sensi, il modo in cui il passo biblico si può intendere a diversi livelli sovrapposti. Il discorso dantesco del Convivio è globalizzante, ma ha una finalità pratica. Non è per niente un abuso riprendere lo schema di lettura – con i suoi quattro livelli di comprensione – applicata alla Bibbia e adeguarlo alla stessa comprensione della Divina Commedia. Non insisto, perché «il tempo spinge». Dobbiamo ancora assolutamente ricordare un titolo, Rime, una raccolta di poesie dantesche, di carattere abbastanza diverso, dalle canzoni e fino ai sonetti… Poesie successive all’adolescenza.

O.P.: Un’antologia. Un florilegio.

L.A.: Sì. A questo punto possiamo di nuovo rilevarne alcune. Su due di loro insisterei proprio adesso. C’è un meraviglioso sonetto, che alcuni commentatori considerano tra i più armoniosi mai scritti in lingua italiana. Guido, i’ vorrei…, è questa la poesia che ho in mente. Ci troviamo nel contesto artistico di un’impressionante serenità, di tranquillità, di pace che il poeta stabilisce con l’universo e con se stesso, in compagnia dei migliori amici. Guido, io vorrei che tu (Cavalcanti) e Lapo (Gianni – un altro poeta) insieme a me (Dante), fossimo alzati come per un incantesimo e messi su un piccolo battello, che girasse i mari secondo la nostra volontà, sicché stando insieme e raccontando del più e del meno, la nostra gioia diventasse sempre più grande. E vorrei che il buon mago ci mettesse accanto anche le nostre signore, monna Vanna e monna Lagia nonché la mia donna amata (che è la trentesima tra le bellezze di Firenze). E quindi perdiamoci in parole d’amore e carezze, rendendo felice ciascuna di loro, come anche noi lo saremo sicuramente.

 

          «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento,

e messi in un vasel ch’ad ogni vento

per mare andasse al voler vostro e mio,

 

          sì che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento

anzi, vivendo sempre in un talento,

di stare insieme crescesse ‘l disio.

 

          E monna Vanna e monna Lagia poi

con quella ch’è sul numer de le trenta

con noi ponesse il buono incantatore:

 

          e quivi ragionar sempre d’amore,

e ciascuna di lor fosse contenta,

sì come i’ credo che saremmo noi.»

 

È una breve poesia, un sonetto, ma di grande risonanza e mi commuove a ogni lettura. La sensazione di pace, di serenità e di universale equilibrio che comunica è straordinaria. La spirituale conciliazione dei famosi amici, la loro comunicazione piena d’affetto, il riconfortante amore delle signore e, in questo contesto, il miracoloso acquietarsi della rabbia marina inducono un meraviglioso accordo tra l’armonia dei pensieri, dei sensi e della natura. Una poesia esattamente contraria – per farci vedere quanto possa essere diverso Dante nei suoi strumenti artistici – troviamo in una canzone furibonda, che il poeta dedica a una certa Pietra. Sembra trattarsi di una donna estremamente attraente, che aveva rifiutato il suo corteggiamento, e Dante urla la rabbia del desiderio sessuale e della frustrazione fisiologica. Egli confessa la sua furia contro questa Pietra.

 

                   «Così nel mio parlar voglio esser aspro

          com’è ne li atti questa bella petra,

          la quale ognora impetra

          maggior durezza e più natura cruda…»

 

La poesia si conclude con una gigantesca ira, in cui il poeta ci urla che sarebbe molto contento di afferrare i capelli della donna, di gettarla in un fosso e di impastarla nel fango bollente, per farle capire che cosa aveva perso quando lo aveva rifiutato.

 

                   «Omè, perché non latra

          per me, com’io per lei, nel caldo borro?

          ché tosto griderei: «Io vi soccorro» (…)

                   S’io avessi le belle trecce prese,

          che fatte son per me scudiscio e ferza,

          pigliandole anzi terza,

          con esse passerei vespero e squille:

          e non sarei pietoso né cortese,

          anzi farei com’orso quando scherza.»

 

Ecco due immagini estreme di Dante: quella serena, melodiosa, meditativa – ma anche quella passionale, violenta, lubrica.

O.P.: Forse era un collerico.

L.A.: Era un po’ di tutto. Ma proprio questo fa la sua impressionante ricchezza, la stupefacente diversità dei suoi versi.