Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


QUARTO DIALOGO

21 febbraio 2006



O.P.: Abbiamo parlato della vita di Dante, della sua fortuna in Romania. Forse non sarebbe inadeguato parlare anche della sua opera perché, tutto sommato, Dante è interessante prima di tutto non come personaggio, ma piuttosto come autore della sua propria opera. Certo che, da autore, egli è anche il personaggio del suo principale poema sul viaggio nell’aldilà, la Divina Commedia. Attraversa l’Inferno, il Purgatorio e arriva, nel terzo libro, nel Paradiso. Ma oltre al personaggio che egli inventa e di cui potremo parlare senz’altro al momento adatto, Dante, di cui abbiamo visto che aveva anche una carriera politica, rimane per eccellenza il poeta, lo scrittore in un senso più ampio. Dobbiamo parlare, in modo un po’ più sistematico di quanto ho appena fatto adesso nell’introduzione, di tutto questo. Tu come vedi il dibattito intorno all’opera di Dante?

L.A.: Possiamo dividere in due categorie gli scritti di Dante, secondo la lingua in cui furono stesi. Ricordiamoci che siamo al bivio e assistiamo alla formazione di una nuova lingua, l’italiano, sulle spalle del latino, la lingua dell’Alto Medioevo. Dante scrive in italiano, ma scrive anche in latino (che conosce molto bene). Egli è un artista, ma è ugualmente uno scienziato. Crea letteratura, ma anche scritti scientifici. Qui ci sarebbe la biforcatura dell’opera dantesca. Esaminiamo dunque successivamente queste due strade. Parliamo prima delle opere in latino. Vediamo che Dante rappresenta una sintesi delle conoscenze e della discipline intellettuali del suo tempo, che egli sperimenta in profondità. Un importante titolo da ricordare è De Vulgari Eloquentia, cioè della lingua volgare. È il primo trattato di linguistica della lingua italiana, ma anche il primo trattato di dialettologia. L’autore insiste sui diversi dialetti e modi di parlare, in diverse regioni dell’Italia. Qual è il principale scopo di questa ricerca incompiuta (come tutti i suoi scritti, all’eccezione della Divina Commedia)? Lo scrittore si propone, appunto, di attirare l’attenzione della gente istruita, degli intellettuali, sull’importanza della nuova lingua appena nata, ma ancora priva di tradizione culturale. C’era una certa concorrenza, comunque un parallelismo, un evidente bilinguismo a quei tempi tra l’italiano parlato dal popolo, dalle persone semplici, senza studio, e il latino, la lingua elevata delle cancellerie, della corrispondenza ufficiale, delle storie e delle gesta che venivano registrate. Dante considera che non sia normale avere questo parallelismo e che l’italiano si meriti una sorte migliore. Egli attira l’attenzione degli scienziati sulla ricchezza e sulle diversificate possibilità di espressione della nuova lingua appena costituita. Questo suo scritto ha, senza dubbio, una significativa importanza storico-letteraria e strategico-patriottica, anche se Dante non risparmia i colpi della frusta satirica contro tanti italiani, abitanti delle diverse regioni della penisola.

O.P.: Da quello che dici, quest’opera ha una semplice importanza storica. Non attira per niente la mia curiosità di lettura. Abbiamo anche noi, nella nostra letteratura, un sacco di simili ricerche. Penso soprattutto ai tentativi arroganti e eruditi della Şcoala ardeleană (la Scuola transilvana). Abbiamo tantissimi testi del genere sulla Lingua daco-romanica sivae valachica e così via. Non vorrei togliere fuori queste cose dal loro contesto storico: hanno avuto la loro importanza sia nel caso di Dante, sia nel caso di Samuil Micu Klein, Petru Maior e altri. Loro sapevano molto bene perché facevano quello che facevano, perché cercavano di scrivere tali trattati, che oggi ci sembrano noiosissimi. Ma potresti darmi, a proposito di De Vulgari Eloquentia, tre motivi per cui varrebbe la pena perdere un po’ di tempo a sfogliare questo testo oggi, ai nostri giorni?

L.A.: Il primo si può ennunciare appunto in questa forma comparativa, riprendendo l’analogia che hai costruito. Se, per esempio, i corifei della Scuola transilvana proponevano una scrittura latineggiante e cercavano i loro punti di riferimento indietro, in quello che è passato e non è mai più tornato, loro erano una specie di passatisti, Dante Alighieri, tutt’al contrario, progettava le sue soluzioni scientifiche nel futuro. Dunque lui prospettava…

O.P.: …non ricapitolava…

L.A.: Esatto. Non guardava indietro, ma buttava il suo sguardo avanti. È un’opera di straordinario coraggio e di prefigurazione di alcuni processi linguistici, che poi hanno confermato le previsioni di Dante. Il secondo motivo è che non si tratta di un arido trattato scientifico, ma, nella sua metodologia e nella sua meticolosità, include non pochi brani di vivacità, di scatti polemici, di pregi dell’espressione artistica. Il terzo motivo è che De Vulgari Eloquentia rappresenta la prima sintesi molto dettagliata dei dialetti italiani. Per la storia della lingua e della cultura italiana, è un gesto di formidabile importanza. Figurati se dalle nostre parti, nel 1521, quando fu scritta la Lettera di Neacşu, in parallelo a questa, dopo due-tre anni, avessimo un trattato di dialettologia, che parlasse di tutte le province romene di oggi! E se un simile trattato risalisse agli anni 1500!

O.P.: D’accordo. Ma oltre al tuo argomento che alludeva ai brani virulenti e alla spiegazione sull’espressività stilistica, le altre cose rimangono tuttavia poco interessanti, credo, per un lettore che appartenga al grande pubblico di oggi. Perché mai potresti raccomandare concretamente la lettura di un’opera che cercava, al suo tempo, di convincere la gente sull’importanza di parlare la lingua «popolare»? Oggi parliamo tutti la lingua «popolare» e ignoriamo il latino. Le situazioni sono rovesciate. Sembra quindi un truismo.

L.A.: Alcuni hanno cercato – e io non condivido questo tentativo – di distinguere tra opere maggiori e opere minori di Dante. L’opera maggiore sarebbe la Divina Commedia, invece quelle minori sarebbero le altre, tutte intorno. Non credo che sia una tassonomia adeguata. È però incontestabile che i diversi lavori scritti da Dante rappresentino dei pilastri che sostengono la configurazione intellettuale dell’autore e edificano, in successive accumulazioni, la cattedrale della Divina Commedia. Quindi De Vulgari Eloquentia viene a testimoniare la stupenda competenza linguistica dell’autore, per quei tempi, la sua attenzione estremamente minuziosa nei confronti di certe particolarità di pronuncia, di grafia, di mentalità, di costumi, di conflitti, di difetti e vizi locali.

O.P.: Sembra un’opera scritta da un tipo senza studi, che vuole sbalordire la gente e mostrarsi un sapiente!

L.A.: Dante non si era proposto di sbalordire la gente e non era senza studi. Questa è l’ultima cosa che si potrebbe affermare di lui…

O.P.: Alcuni dicono che non avesse troppi diplomi universitari.

L.A.: Anche se mancano le prove dirette per quanto riguarda le scuole che Dante avrebbe frequentato, in seguito alle quali avrebbe ricevuto un pezzo di carta…

O.P.: Non ho detto che fosse un ignorante, certamente.

L.A.: …la sua cultura vasta, enciclopedica, è schiacciante. E questo si nota in tutte le frasi che egli stende sulla carta.

O.P.: Ma noioso non ti sembra? In De Vulgari Eloquentia?

L.A.: A volte. Ma, nell’insieme, si tratta di uno dei pezzi interessanti che contribuiscono, ripeto, come un pilastro a sostenere la futura cattedrale della Divina Commedia.

O.P.: È un’opera con una cronologia chiaramente stabilita? Risale agli inizi della sua carriera?

L.A.: Non si può dire chiaramente. Comunque, si presume che Dante abbia cominciato la redazione della Divina Commedia negli ultimi anni trascorsi a Firenze. Egli fu esiliato nel 1301. Andò come ambasciatore a Roma e non ritornò mai più. Alcuni pensano che abbia scritto i primi sette canti prima dell’esilio, e invece abbia portato con sé, nel pellegrinaggio in tutta l’Italia, il resto dell’Inferno, e poi il Purgatorio e il Paradiso. L’opinione degli specialisti è che tutte le altre opere siano rimaste incompiute appunto perché più andava avanti, più l’autore trasponeva le sue preoccupazioni e le sue letture nella Divina Commedia. È come una specie di collettore di tutte le sue competenze.

O.P.: Quindi la sua trilogia epica in versi sarebbe cannibalizzante, in rapporto agli altri scritti…

L.A.: Sarebbe una sublimazione.

O.P.: Sì. Pensavo che divorasse tutte le sue risorse. Ma è interessante quello che hai precisato. Perché se così stanno le cose, se a Firenze egli ha avuto il tempo di scrivere solo i primi sette canti…

L.A.: È un’ipotesi…

O.P.: Risulterebbe che l’Inferno per lui fosse addirittura a casa, a Firenze, invece il Purgatorio e il Paradiso li avesse conosciuti in esilio, a Ravenna o chi sa dove.

L.A.: Perché si ipotizza questa cosa (che egli abbia scritto i primi VII canti in patria)? Dobbiamo dare una  spiegazione. Successivamente il canto VIII inizia con le parole: «Io dico, seguitando». E questo fa pensare …

O.P.: …a una cesura, no?

L.A.: Sì, che egli riprendesse dopo un certo tempo la redazione dell’opera. In margine a questa espressione «io dico, seguitando» ci sono state numerose spiegazioni, che hanno inteso il brano come una ripresa del lavoro, dopo un certo tempo, in esilio.

O.P.: Ma non sarebbe possibile che la Divina Commedia fosse la sua opera di una vita intera, cominciata forse sin dalla giovinezza, poi sospesa, poi ripresa, come succede con tanti scritti, e nel frattempo o in parallelo lui avesse scritto anche gli altri abbozzi, di queste opere che non ha più concluso?

L.A.: È poco probabile, per due ragioni. Prima di tutto abbiamo un’opera di giovinezza, dal titolo Vita Nuova, che ha altre particolarità. C’è chiaramente un’enorme evoluzione stilistica e mentale, una maturazione, nella Divina Commedia, che supera molto la Vita Nuova. È evidente che la Divina Commedia sia ormai un’opera di maturità. Del resto è altrettanto evidente che la struttura del poema sia stata molto precisamente costituita ed è assolutamente sicuro che l’autore ha avuto l’insieme nella sua mente sin dall’inizio. Non si tratta di un’opera il cui contenuto si chiarisca successivamente, e poi alla fine ci rendiamo conto che è conclusa. C’è stato un «panorama dall’aereo», in cui tutte le parti dovevano combaciare, si dovevano completare. C’è una perfetta armonia. È l’armonia del cosmo, come una sfida, a cui forse puntava l’autore. Quindi, no, la Divina Commedia non è un’opera di successiva sedimentazione, invece sì, la Divina Commedia rappresenta un’opera di decine d’anni. Come mai? Perché dal punto di vista del suo tema, del suo contenuto, è ovvio che fosse già costituita. In qualsiasi punto, come immagine panoramica, essa offre una bellissima armonia e convergenza degli elementi componenti. È stata progettata come un insieme unitario e armonioso. Se ci sono volute alcune decine d’anni per la sua stesura, questo lungo periodo è dovuto anche alla sua complessità formale, alla sua espressione, che doveva andare in parallelo con la complessità strutturale. Quindi la Divina Commedia è ormai un’altra cosa. Appunto per poterla scrivere e concludere, l’autore ha successivamente rinunciato alle sue opere cosiddette minori.

O.P.: La mia ipotesi è che, almeno in teoria, le cose potessero andare in parallelo. Perché stiamo parlando di due livelli completamente diversi della creazione, due tipi di pubblico presunto e due tipi di stati d’animo che coinvolgono. La Divina Commedia richiede un profondo impegno della persona, dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, della sua intelligenza, dello spirito di costruzione, della tenacia, della volontà dell’autore, mentre De Vulgari Eloquentia è piuttosto un trattato, che si riferisce a una situazione ed è di una reale e immediata utilità (e non solo immediata, ma anche di futuro), un discorso in difesa della lingua comune, un tentativo di persuasione, con i mezzi dell’intellettuale, dell’erudito, con numerosi esempi, senz’altro. Ma un poeta potrebbe scrivere anche oggi qualcosa del genere, mentre consuma le sue energie profonde per scolpire un poema. Faccio l’esempio famoso nella nostra letteratura, quello di Eminescu, l’artista che puliva lo stile dei suoi poemi con grande attenzione, con prudenza, era molto parsimonioso a pubblicarli, tra l’altro non ha avuto neanche la soddisfazione di tenere tra le mani un suo libro, come sappiamo, se non poco prima della fine della sua vita, comunque in una situazione cruciale…

L.A.: In punto di morte, no?

O.P.: Esatto. Ma era molto prolifico nei suoi articoli, nei suoi interventi, nelle sue argomentazioni…

L.A.: …politiche…

O.P.: …erano anche politiche, ma includevano dei dibattiti…

L.A.: …nazionalistici…

O.P.:  …erano sia nazionalistici, sia xenofobi…

L.A.: …e antisemitici…

O.P.: Sì, xenofobia nel più ampio senso della parola. Includeva tutte le categorie. Non so se fosse anche razzista. Non conosco le sue idee sugli africani o sugli asiatici. Dipende dal modo in cui interpretiamo questo termine. Se prendiamo l’antisemitismo anche come razzismo – allora forse sì.

L.A.: Anche questo è interessante osservare: la più grande personalità culturale o letteraria dell’Italia, Dante, ha avuto un atteggiamento per eccellenza prospettivo, è riuscito a prevedere alcune evoluzioni, ha lottato per una certa direzione del progresso. Invece la più grande personalità (considerata come tale, sebbene contestata) della letteratura romena, Eminescu, ha avuto un atteggiamento passatistico, nostalgico, distruttivo, antisemitico, reazionario e abbastanza scoraggiante nel campo civico.

O.P.: Aggiungo che, oltre alle distanze nel tempo, entrambi erano di famiglie di nobili impoveriti, o quasi. Spiegherei (in una parentesi della nostra discussione, ma una parentesi, credo, fertile e interessante) questa distanza a causa del mondo in mezzo a cui loro creavano. Uno veniva dall’ambiente delle città libere, con la borghesia molto attiva, intensamente interessata al proprio sviluppo economico, alla propria indipendenza, con i propri riflessi e orgogli, in rapporto alle altre città italiane concorrenti. L’altro veniva da una piccola nobiltà impoverita, che non era mai stato altro di quello che era, suo padre aveva appena ottenuto il modesto titolo di «căminar» (percettore di tasse), in una Moldavia che poco prima si era unificata con la Valacchia, per formare i Principati Uniti e in seguito la piccola Romania, in cui – Eminescu lo dice nella sua corrispondenza – praticamente o si era piccoli proprietari, o si lavorava per lo Stato, o si prendeva in affitto un podere. Tutto qui come possibilità. Certamente era un mondo all’antica, senza grandi centri di dibattito, coloro che volevano seguire una strada intellettuale scappavano via all’estero (Eminescu incluso). Poi se ne tornavano e mettevano in pratica, nel piccolo universo che avevano lasciato indietro, spesso i resti di alcune ideologie alla moda.

L.A.: Ma è interessante che anche Eminescu, quando scappa via all’estero, non riesce a concludere i suoi studi ed è piuttosto un «pilastro delle botteghe del caffè», cioè proprio l’immagine che prendeva in giro mentre parlava dei giovani che «la Paris învaţă / la gît cravatei cum se leagă nodul / ş-apoi ne vin de fericesc norodul / cu chipul lor isteţ de oaie creaţă» (i nostri giovani imparano a Parigi / a fare il nodo della cravatta al collo / e poi se ne tornano a casa tra la gente / con la loro intelligente faccia pecorile). Per la verità, egli era andato non a Parigi, ma a Berlino…

O.P.: Forse prendeva in giro se stesso in quei versi!

L.A.: Non lo so. Non credo fosse così sottile. Non ho notato i momenti di autocritica e di autoironia in Eminescu.

O.P.: Li ho trovati io. In Geniu pustiu prende un po’ in giro se stesso, là, a vedersi cenare con i topi, alla luce della candela di sego. Invece quello che mi ha stupito è che, mentre Eminescu fa questa cosa, Caragiale, il grande satirico e il grande critico mordace dei costumi romeni, non ha nemmeno una riga – o non l’ho trovata io – autocritica.

L.A.: Eminescu, infatti, prende in giro se stesso, ma in quale contesto? Nella situazione dell’artista privo di mezzi di sussistenza, impoverito, che sopporta la miseria in un angolo, in una polverosa catapecchia. Lui non prende in giro mai, ma proprio mai, le sue proprie idee: reazionarie, passatistiche! A quelle ci crede con passione e combatte a favore di esse, nei suoi articoli di giornale! È capace di una specie di autocritica ironica, ma solo alle periferie della sua personalità, il cui insuccesso non lo attribuisce a se stesso, ma alla società che «ignora» gli artisti. Il vero senso autocritico non l’ho trovato molto spesso in Eminescu.

O.P.: È più frequente che non in Caragiale, comunque.

L.A.: Sarà più frequente? Lo credi davvero?

O.P.: Quello autocritico, sì. Invece, fino all’ultimo momento, Caragiale è mordente. In una delle sue epistole che mi piacciono di più e in cui descrive la visita fattagli da Delavrancea, a Berlino, ne dice di cotte e di crude, come di un maleducato a cui piacciono soltanto i francesi e le loro smorfie. Ama solo la musica romena o quella francese. In Germania tutto gli sembra ridicolo, spiacevole.

L.A.: Questo può essere anche il complesso dell’(auto)esiliato.

O.P.: Ma non ha proprio nessuna bella parola, che lo potesse calmare. E aggiungo che Delavrancea era un ottimo amico.

L.A.: Sì. Era anche l’avvocato che lo aveva difeso con successo nel processo di plagio contro Caion.

O.P.: Aveva comunque una penna molto slanciata.

L.A.: Sì, Caragiale era un burlone. Per il resto, si trasponeva spesso nei suoi personaggi e, quando li prendeva in giro, allo stesso tempo rideva anche di se stesso. Si può accettare comunque, a un livello più generale, la capacità autocritica di Caragiale.

O.P.: Visto che siamo arrivati a lui, ricorderei soltanto che nelle memorie a proposito di Caragiale, che ci hanno lasciato diversi autori (Cincinat Pavelescu ecc.), egli ci risulta spesso un… emotivo, con le lacrime facili. Piange, abbraccia Slavici in galera a Seghedino. È straordinariamente commosso dal «mastro» Aurel Vlaicu (uno tra i primi piloti romeni). Ha diversi scatti sentimentali, arriva a Cluj con grandi progetti…

L.A.: Dopo una certa età, forse si può spiegare…

O.P.: Sì, probabilmente. Questo apparteneva al registro scherzoso del nostro discorso.

L.A.: Torniamo allora a Eminescu, prima di tornare a Dante! Il suo secondo tratto sorprendente (dopo il primo che abbiamo ricordato, quello di essere andato in Occidente per fare gli studi che non ha mai concluso) è di essere stato un importante membro del gruppo culturale di «Junimea». Ma i suoi colleghi si impegnavano in modo molto perseverante a favore dello sviluppo della Romania, per il sincronismo con i valori del mondo tedesco della precisione, dei successi tecnici ecc. Ed ecco Eminescu che non apprezza, nella sua creazione, il mondo occidentale, anzi gli oppone un autoctono passato idillico di gran signori, di principesse e di damigelle. Non è riuscito a «cesellare» se stesso né in Germania, a Berlino, né tra i colleghi di «Junimea»… È rimasto un conseguente reazionario.

O.P.: Beh, il senso dell’umorismo ce l’aveva comunque. Gli garbava soprattutto la compagnia di Ion Creangă, un grande burlone.

L.A.: Rileggiamo l’emozionante lettera di Creangă rivolta a Eminescu («Bădie Mihai, / Ai plecat şi mata din Ieşi, lăsînd în sufletul meu multă scîrbă şi amăreală. / Să deie Dumnezeu să fie mai bine pe acolo, dar nu cred. Munteanul e frate cu dracul, dintr-un pol el face doi; ş-apoi dă, poate nu-s cu inima curată cînd grăiesc de fratele nostru că-i cu dracul, în loc să fie cu Dumnezeu. / Dar, iartă şi mata, căci o prietinie care ne-a legat aşa de strîns nu poate să fie ruptă fără de ciudă din partea aceluia care rămîne singur. / Această epistolie ţi-o scriu în cerdacul unde de atîtea ori am stat împreună, unde mata, uitîndu-te pe cerul plin cu minunăţii, îmi povesteai atîtea lucruri frumoase… frumoase… / Dar coşcogeamite om ca mine, gîndindu-se la acele vremuri, a început să plîngă… / Bădie Mihai, nu pot să uit acele nopţi albe cînd hoinăream prin Ciric şi Aroneanu, fără pic de gînduri rele, doar din dragostea cea mare pentru Ieşul nostru uitat şi părăsit de toţi. / Şi dimineaţa cînd ne întorceam la cuibar, blagosloviţi de aghiazma cea fără de prihană şi atît iertătoare a Tincăi, care ne primea cu alai, parcă cine ştie ce nelegiuire am făptuit şi noi»[1]). Si insiste qui non necessariamente su un lato scherzoso, ma piuttosto sull’immensa nostalgia e sulla calorosa amicizia. Non so se sia stata la virtù dell’umorismo a avvicinare i due, o invece l’impressionante calore dell’anima di Creangă. Ma torniamo a Dante!

O.P.: Torniamoci!

L.A.: Uno scritto estremamente significante in latino è Monarchia. Questo mette in luce un’altra capacità intellettuale e morale dell’autore, un’altra sua abilità, quella di politologo. Se De Vulgari Eloquentia offriva la sorprendente immagine di un esperto linguista, Monarchia ci dimostra le sue qualità di politologo. Potremmo dire che abbiamo qui il primo trattato di politologia della cultura italiana. Dante ha il ruolo di fondatore in moltissimi campi. Egli scrive il primo trattato di linguistica, il primo trattato di dialettologia, ma egli è anche il primo politologo. Sarà il primo grande poeta, l’autore del capolavoro della letteratura italiana. Per comprendere lo straordinario peso di questo lavoro, dobbiamo fare un breve giro, per ricordarci le realtà politiche del tempo: vediamo che cosa c’era allora e quali erano le soluzioni proposte da Dante. Il maggior conflitto era dovuto all’esistenza di due diversi poteri. Da una parte c’era il Papa a Roma, dall’altra c’era l’Imperatore tedesco. Secondo queste due grandi personalità, si erano creati due partiti: i guelfi e i ghibellini. Ne abbiamo già parlato...

O.P.: Sì, abbiamo chiarito che Dante era con il Papa.

L.A.: Abbiamo affrontato l’argomento quando abbiamo parlato della biografia di Dante. Ma è interessante che, sulla scia di questi due poteri politici, il conflitto era diventato molto più complesso, aveva acquisito ormai una sorprendente ampiezza, perfino nel campo filosofico. Il Papa era ed è tuttora capo di uno Stato e ugualmente supremo capo spirituale della più diffusa e sviluppata confessione europea: il Cattolicesimo. L’erede di San Pietro teneva tra le mani le chiavi del Paradiso. Se il Papa apriva la porta del Paradiso, l’anima trovava la sua beatitudine dopo la morte. Se il Papa scomunicava, veniva negata la felicità nel mondo dell’aldilà! Il suo peso metafisico era schiacciante. L’Imperatore, dall’altra parte, aveva grandissima importanza nel contesto terreno, per il suo potere militare. Lunghe dispute erano scoppiate nel Medioevo, per quello che riguardava la precedenza del Papa o dell’Imperatore. Chi era più importante, nell’ordine mondano? L’Imperatore? Ma l’Imperatore veniva davanti al Papa per farsi incoronare. Il Papa? Ma il Papa doveva essere accettato dal potere mondano. Quindi gli argomenti scivolavano ai testi biblici, alle diverse spiegazioni causali, alla donazione di Costantino, che si supponeva avesse ceduto al Papa il diritto di governare anche dal punto di vista civile. (In seguito si è dimostrato, nel Rinascimento, che la cosiddetta «donazione di Costantino» rappresentava un grande falso.) Diversi intellettuali si impegnavano in questa disputa, che aveva superato i limiti strettamente politologici, per ricevere connotati filosofici, biblici, storici, di storia ecclesiastica, di ermeneutica per quanto riguardava la decifrazione e la comprensione della volontà di Dio e così via. Cioè questo conflitto – tra due persone, in fin dei conti, ma anche tra due istituzioni statali – si era ampliato in un ambito universale. Chi era più importante: il Papa o l’Imperatore? Chi doveva obbedire a chi?

O.P.: La famosa guerra delle investiture, come fu chiamata.

L.A.: In quel contesto, che abbiamo brevemente rievocato, Dante veniva a dire la sua opinione. Ripeto: era uno degli argomenti centrali e estremamente delicati del suo tempo. Ecco un altro elemento significativo, il nostro autore non si rifugia in piccole descrizioni di alcune minute situazioni. Egli non esita a coinvolgersi in problemi-chiave, fondamentali nel dibattito filosofico medievale. Si deve precisare che i numerosi interventi di quegli intellettuali – con diverse spiegazioni di carattere filosofico, religioso, politico, storico ecc. – praticamente riflettevano certi schieramenti. I copisti dell’Imperatore esprimevano punti di vista favorevoli all’Imperatore, i copisti del Papa ribadivano, con documenti e ipotesi, la preeminenza del Papa. Qual è la posizione di Dante? È chiaro che lo schierarsi con gli uni o con gli altri supponeva un’appartenenza. Quando ci siamo riferiti alla sua biografia, abbiamo detto che Dante era guelfo bianco. Il partito guelfo era ovviamente schierato con il Papa. Il poeta invece è stato costretto ulteriormente all’esilio, dai guelfi neri e, lontano dalla patria, ha avuto i suoi tentativi di riavvicinamento ai ghibellini. Qual era la situazione? A Firenze governavano i guelfi neri, portati al potere da Carlo di Valois con l’aiuto del Papa. D’un tratto si sono ritrovati in esilio sia i ghibellini, sia i guelfi bianchi. Sembra paradossale, ma ricordiamo che una situazione di questo genere si è potuta verificare anche nella storia romena del Novecento. Con l’arrivo dei sovietici nel nostro Paese, coloro che hanno avuto la possibilità di mettersi al riparo, di scappare via all’estero, l’hanno fatto, e l’esilio romeno è diventato estremamente diverso. Era pieno di piccoli gruppi politici eterocliti. Per esempio c’erano i fascisti «legionari» capeggiati da Horia Sima, i cosiddetti simisti. C’erano anche i fascisti «legionari» dello schieramento precedente, rimasti fedeli al loro primo comandante, Corneliu Zelea Codreanu, i codrenisti. Tra loro c’era un odio terribile. Ma c’erano anche gli antonesciani (coloro che sono riusciti a lasciare la Romania), i devoti di Ion Antonescu, il Maresciallo prima alleato dei «legionari», che poi li ha cacciati via dal potere, prendendosi in mano le redini del potere, lungo la seconda guerra mondiale, da dittatore militare. Questi non c’entravano per niente né con i primi «legionari», né con gli altri. Ulteriormente si sono fatti vedere in esilio anche i comunisti ortodossisti, gli staliniani, che si sono rifugiati negli anni Sessanta, quando nel nostro Paese, per un breve tempo, si era liberalizzato il discorso politico. Tra gli scrittori staliniani, scappati via allora, c’era Petru Dumitriu, tra le famiglie dei politici affermati sotto il segno della falce e del martello c’era, se ben ricordo, la figlia di Ana Pauker e così via. Come diceva Caragiale: siamo tutti quanti romeni, più o meno onesti. Ma quell’esilio pieno zeppo di romeni era agitato da un odio tremendo. Noi, qui, all’interno del Paese, avevamo l’impressione che loro, in lontananza, si amassero e si aiutassero a vicenda. Ma non se ne parlava nemmeno!

O.P.: La cosa ancora più interessante – per completare il tuo esempio – è che gli stessi gruppi, quando si ritrovavano nelle prigioni comuniste, si intendessero così bene nel loro anticomunismo.

L.A.: Nel loro anticomunismo, ma anche viceversa, molto spesso, nella loro complicità con il comunismo! Non dobbiamo dimenticare l’ironico ritornello di Păstorel Teodoreanu: «Camarade, nu fi trist / Garda merge înainte / Prin partidul comunist!» (Compagno, non essere triste / Il Fascio va avanti / Nel partito comunista!). L’orripilante esperimento messo in pratica a Piteşti, nel carcere, ha avuto alle sue basi tanti studenti «legionari». Ţurcanu, il capo di quell’orrore unico per l’intero Novecento, era appunto un ex-fascista. Se qui, sotto l’oppressione staliniana, i fascisti sono deviati, si sono ritrovati in tanti tra i comunisti, invece nell’esilio vissuto in condizioni democratiche, queste fazioni rivali hanno «congelato» le loro inimicizie e le hanno conservate lungo il tempo, per più di cinquant’anni. Ritornando al nostro argomento, un po’ la stessa situazione c’era anche nell’esilio fiorentino dei tempi di Dante. Cioè si sono ritrovati insieme, in modo sorprendente, sia i ghibellini – cacciati via dopo la sconfitta di Benevento nel 1266 – sia i guelfi bianchi. Ci sono stati diversi loro tentativi di raccogliere soldi, di reclutare un esercito di mercenari e di tornarsene a riconquistare la propria città. Ci sono stati dei tentativi separati dei guelfi bianchi, che sono falliti, poi si sono svolte delle trattative con i ghibellini, per la creazione di una grande confederazione, che venisse contro Firenze. Qual è stato l’atteggiamento di Dante, in mezzo a quest’agitazione? All’inizio è rimasto accanto ai suoi compagni politici, i guelfi bianchi, cercando di frenarli alquanto, per farli ritornare alle vie della diplomazia. Quando invece si sono spinti avanti per la strada del confronto armato, Dante non è più stato d’accordo con loro, ha rifiutato di combattere contro la sua patria, si è ritirato da tutti i gruppetti degli esiliati e – con le sue parole – fece «parte» per se stesso. È diventato cioè… l’unico membro del suo partito. Effettivamente si è ritirato in mezzo alla creazione artistica e ha seguito il proprio destino estetico. Ecco dunque le sue esperienze biografiche. Come si riflette tutto questo nella Monarchia? Poiché chiaramente le nostre scelte esistenziali si ritrovano in quello che mettiamo su carta.

O.P.: In questo contesto, si deve dire che gli spiriti erano abbastanza accesi. La disputa tra il Papa e l’Impero era spietata. Il più noto intellettuale, accanto a Dante…

L.A.: Religioso?

O.P.: No, politico. …È Marsilio da Padova, con il Defensor Pacis, uno scritto fondamentale che, fino a Hugo Grotius, ha influito su tantissima gente. Certo che Marsilio da Padova serviva gli interessi dell’Impero, parlava in nome dell’Imperatore e cercava di argomentare l’altra posizione. Ma secondo me è importante dire che Padova, che era un grande centro…

L.A.: …ghibellino, probabilmente.

O.P.: …accademico, comunque…

L.A.: Se non fosse stato ghibellino, Marsilio non avrebbe fatto lunga vita da quelle parti…

O.P.: Non metterei la mano sul fuoco, perché le cose non erano molto semplici neanche in quei tempi. Il suo nome è collegato a Padova perché è nato lì, e perfino in una famiglia di magistrati di obbedienza guelfa! Questa cosa non gli ha impedito però di scegliere, sin dalla giovinezza, la parte contraria, come per giusta ragione lo immagini. Sul modello di altri centri di vita intellettuale – Bologna, Roma –,  Padova produceva non soltanto dei teorici, ma anche una letteratura giuridica molto importante. Diversi legisti che, per mezzo degli arzigogoli, cercavano di giustificare perché mai avrebbe qualcuno diritto e legittimità a impadronirsi di un territorio o di un titolo, a sollevare certe pretese o meno. Questa situazione è andata avanti fino al Rinascimento e poi. Era normale che succedesse così in mezzo a una vita politica e pubblica come quella italiana, che ha generato non soltanto le città-stato, ma anche gli imperi marinari, tra l’altro molto vicini sulla «terra ferma». Venezia è a soli due passi da Genova, tutto sommato, eppure ciascuna ha avuto a un certo momento un impero, aveva il controllo economico. A Costantinopoli, per esempio, avevano in loro possesso interi quartieri, come quello di Pera, dove provvedevano al trasporto per tutto il Mediterraneo e anche per il Mar Nero, da dove portavano gli schiavi. È un mondo che vale la pena rievocare, anche solo così, in due parole, perché altrimenti renderemmo troppo semplici le situazioni e crederemmo che Dante fosse un poeta che si era avventurato nella vita politica, aveva cercato di dare i suoi contributi anche nel campo della retorica, della grammatica, della linguistica ecc. e che fosse importante soltanto per due-tre città del Medioevo. Ma non è così. Tutto questo aveva una grande risonanza. La realtà italiana era, in un certo senso, sin da quei tempi, se non proprio al centro del mondo, comunque in una posizione molto visibile.

L.A.: È vero. Vorrei aggiungere qualcosa, per quanto riguarda le scelte fatte da Dante. Ho detto che lui non aveva accettato di combattere, accanto ai suoi compagni, effettivamente contro la sua città natale, Firenze. Perciò tanti esiliati l’hanno trattato con ostilità e lui è stato costretto a ritirarsi dalla loro schiera. Ma questo non corrispondeva a un gesto di vigliaccheria. Le sue opinioni politiche erano estremamente chiare. Si deve aggiungere che nel 1310-1313 avviene nella penisola la spedizione militare del giovane imperatore Enrico VII, conte di Lussemburgo. C’è stata una spedizione punitiva contro le città italiane ribelli e per il ripristino del potere imperiale. Uno tra i più passionali e ferventi partigiani di questa campagna militare è stato lo stesso Dante. Egli ha scritto due epistole in latino: una circolare, in cui invita tutti gli italiani a inginocchiarsi davanti a questo nuovo messo del Signore, e una lettera diretta, devastatrice, contro gli «Scelleratissimi Fiorentini» che commettevano l’ignominia di ribellarsi contro Enrico e, pagando mercenari e preparando complotti, mordevano la mano del caro genitore. Loro infrangevano così il sacro codice di vassallaggio, valido per il Medioevo, quando il maggior tradimento era appunto quello di rinnegare il principe. (Dante, tra l’altro, butta i traditori nel più basso cerchio dell’Inferno. Il peccato più grave per Dante è il tradimento.) Egli scrive ugualmente una terza epistola passionale (potremmo dire, con indecente ironia, che si tratta della sola lettera pubblica d’amore di un maschio diretta a un altro maschio, in quei tempi). Dante non esita a confessare il suo enorme affetto e l’immensa speranza con cui guarda il giovane imperatore Enrico VII, atteso con tenerezza, con amore, con devozione.

O.P.: Che ne dici? Era un opportunista?

L.A.: Egli evoca a un certo punto la suprema dignità di essere stato ricevuto da Enrico VII e la sensazione incancellabile, la quale avrebbe sconvolto tutta la sua esistenza, l’incredibile onore che ha avuto, quando le sue labbra hanno avuto l’onore di baciare i sandali dell’Imperatore. È stupefacente! È l’unico brano in cui l’orgoglioso, il vanitoso, il degno, il polemico, l’arrogante, il filosofo, il cosmologo, il genio Dante si confessa onorato della situazione di aver potuto baciare la punta dei sandali imperiali! Questa è la prova più evidente di quanto fosse immensa la speranza dell’artista dell’arrivo dell’Imperatore, della conquista di Firenze, della possibilità che lui stesso ritornasse nella città natale! Se c’è stata una grandissima speranza, che Dante ha nutrito lungo il suo intero esilio, è stato appunto questo: il sogno di rientrare dalla porta principale a Firenze, per ricevere gli allori e per vedere l’intera città venerarlo come il più importante poeta. Questa sua speranza è rimasta per sempre incompiuta. Ma è interessante come Enrico sia diventato uno degli agenti che avrebbero potuto appoggiare le sue aspirazioni. Ecco l’evoluzione delle scelte di Dante, che verso la fine arriva a prosternarsi umilmente davanti all’Imperatore. Non ci stupiremo se, negli anni del Romanticismo, il poeta Ugo Foscolo, quando evoca in un’allusione Dante, lo chiama il «Ghibellin fuggiasco». È anche questa una ipotesi! Il guelfo bianco è diventato ghibellino. Come si rispecchia tutto in Monarchia? Dal punto di vista di Dante, i due poteri, la Papalità e l’Impero, non dovrebbero trovarsi in rapporti antagonistici. Dovrebbero essere – e in teoria lo sono davvero – complementari. La loro relazione è come quella tra il Sole e la Luna. Ciascuno ha la propria zona di attività. Il Papa dovrebbe occuparsi, con piena fermezza, della vocazione metafisica e custodire le chiavi del Paradiso, prese in consegna da Pietro, mentre l’Imperatore dovrebbe assumere con tutta la risolutezza la predominanza politica terrena. L’Imperatore deve manifestare nei confronti del Papa un amore filiale. Il Papa, come un buon genitore, invece, deve consigliare e guidare i passi dell’Imperatore. Ma non più di tanto. Non può governarlo! I due poteri devono essere schierati in un rapporto di complementarietà. Qui c’è l’essenza, il nocciolo dell’ipotesi politologica di Dante. Il suo libro ha suscitato un grande scandalo. Soprattutto nel campo degli interventi papalisti, è stato considerato eretico. È interessante sapere che, pochi anni dopo la morte di Dante, il suo scritto è stato anche bruciato sul rogo, in pubblico, per blasfemia, per le idee «audaci» che promuoveva. Le sue idee, che oggi hanno il nuovo nome di «secolarizzazione del potere statale», rappresentano la base di organizzazione degli Stati europei moderni…

O. P.: Quindi non si dovrebbe escludere dalla discussione nemmeno un certo opportunismo politico, sebbene momentaneo, di Dante. Perché ci si chiede comunque, leggendo l’inizio della sua trilogia, dove si parla del mezzo del cammin della vita, quando egli ha lasciato la giusta via: quale sarà stato quello sbaglio? Ma di questo, nonché di altre questioni connesse alla Divina Commedia, ti propongo di parlare in un’altra occasione, quando arriveremo al posto giusto.

L.A. L’adesione di Dante all’idea imperiale probabilmente non è stata per niente congiunturale. Come si è visto dalla Monarchia – ma anche dal Paradiso, dove un posto onorifico sui gradini della salvezza è riservato all’imperatore Enrico VII –, Dante accompagna sempre le sue scelte biografiche, esistenziali, politiche, con ampie argomentazioni di carattere teologico, politologico o filosofico. Niente è semplice in Dante, perché nella sua mente tutti i concetti universali sono correlati.



[1] Mastro Michele, / Pure Lei se n’è andata da Iasi, lasciando tanto dolore e amarezza nel mio cuore. / Che Dio voglia farle una vita migliore in lontananza, ma io non ci credo. Il valacco è fratello del diavolo, scambia un soldo per due; insomma, forse non ho l’anima serena a dire di nostro fratello che sia alleato del diavolo, anzi che del Buon Signore. / Le chiedo comunque perdono, perché un’amicizia così stretta come la nostra non si può strappare senza l’astio della persona lasciata da sola. / Le scrivo questo messaggio nella veranda dove tante volte siamo rimasti insieme, dove Lei, guardando il cielo pieno di tutte le meraviglie, mi raccontava cose bellissime, bellissime... E l’omaccione che son diventato, ripensando a quei tempi, si è messo a piangere... / Mastro Michele, non posso dimenticare quelle notti bianche in cui giravamo per Ciric e per Aroneanu, senza brutti pensieri affatto, soltanto per il grande amore nei confronti della nostra bella città di Iasi, dimenticata e abbandonata da tutti. / E la mattina quando tornavamo al nido, benedetti con l’acquavite candida e onnidepurante di Tinca, che ci accoglieva con grande chiasso, come se avessimo commesso chissà che infamia...