Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO



«SULLA VITA DI DANTE»


TERZO DIALOGO

14 febbraio 2006 (Valentine’s Day)



            O.P.: Della vita di Dante non si sanno molte cose, o piuttosto si sanno cose che forse non sono successe, e invece tante di quelle che sono accadute sono sparite dai ricordi dei contemporanei e della posterità. Comunque possiamo parlare del vero Dante, quello vivo, l’uomo Dante e i fatti della sua vita. Vero?

L.A.: Certo. Infatti il libro di Papini – la tanto ignorata monografia dedicata al poeta – si chiama appunto Dante vivo. Una delle scommesse di Papini era di ricostruire il ritratto di una persona in carne e ossa…

O.P.: Soprattutto in ossa. Secondo le rappresentazioni grafiche, sembra che fosse un tipo piuttosto basso e ossuto.

L.A.: È interessante che non ci siano immagini originali di Dante, che non si sia conservata nemmeno una parola scritta di suo pugno. Gli affreschi che esistono, i dipinti sono tutti eseguiti secondo le testimonianze dei contemporanei, in base alle descrizioni dei biografi, secondo le ipotesi tratte dalle sue opere, in base a quello che egli afferma di se stesso. Di grande aiuto è la biografia di Boccaccio, che lo descrive fisicamente. Egli parla anche di certi effetti che suscitava l’apparizione di Dante in pubblico. Per esempio Boccaccio nota che Dante passeggiava una volta per strada, assorto nei pensieri. Probabilmente rifletteva sulle rime che stava per mettere sulla carta. Aveva il viso piuttosto tenebroso e, a un certo punto, sentì due vecchie che si dicevano l’una all’altra: Guarda, quello è il poeta Dante. Vedi come ha la pelle scura? Lo sai perché? Andò nell’Inferno a vedere i peccatori e fu bruciato dalle fiamme. Dante – secondo il suo biografo –ne rimase molto lusingato. Dunque abbiamo un suggerimento sull’aspetto del poeta…

O.P.: Ma è anche un segno della ricezione.

L.A.: Sì. Perché all’autore riesce un meraviglioso paradosso: egli parla di una realtà trascendente, immaginaria (nessuno è mai stato in carne e ossa per l’Inferno, per il Purgatorio o per il Paradiso)…

O.P.: Almeno da quello che noi sappiamo.

L.A.: Si tratta di costruzioni dell’immaginario, della fantasia, della sensibilità collettiva, della fede. Ma Dante ha fatto la descrizione, con una straordinaria plasticità e concretezza, del mondo dell’aldilà.

O.P.: Aggiungerei, a proposito di questo aneddoto che mi piace tantissimo, un altro fatto: esso sembra svelare non soltanto che il poeta si rispecchia nell’opera, ma che anche l’opera si rispecchia nell’autore, nella sua fisionomia, nella coscienza dei contemporanei.

L.A.: Certo. Il poeta, a quanto pare, fu anche abbastanza orgoglioso. Questo dettaglio si fa indovinare dal suo poema. Per esempio nel celebre canto IV dell’Inferno, dove descrive la discesa nel Limbo e l’incontro con i cinque grandi poeti dell’Antichità, Omero davanti, Orazio, Ovidio, Lucano nonché la guida Virgilio. Gli altri, dopo averlo accolto e averne parlato alquanto, ricevono Dante tra loro, così che «fui sesto tra cotanto senno». Quindi non esita a includersi tra i grandi poeti, al loro stesso livello.

O.P.: A me non sembra affatto modesto nelle sue rappresentazioni.

L.A.: Era molto cosciente delle proprie qualità. Anzi se ne vantava. Un’altra leggenda interessante viene raccontata da Boccaccio, nella sua prima biografia dedicata all’autore. Si dice che, in un certo momento, ci furono grandi tensioni interne a Firenze, tra diversi gruppi politici. Ci voleva una persona energica, esperta a placare le agitazioni. Ma c’era anche la forte minaccia esterna da parte di Bonifacio VIII. A Dante fu proposto di andare come ambasciatore fiorentino presso il Papa, per ottenere la sua benevolenza. Nel governo cittadino in cui era presente – secondo la testimonianza del biografo –, Dante avrebbe dato questa memorabile risposta: «Se io vo, chi rimane? e se io rimango, chi va?». Quindi era così sicuro della sua unicità e della sua destrezza, che non esitò a lanciare queste parole memorabili. Purtroppo la sua abilità non diede risultati concreti, dal punto di vista biografico, perché egli rimase vittima dell’esilio che gli era stato imposto.

O.P.: Vorrei notare, a proposito di quello che stavi raccontando, che questi autoelogi, tutto sommato, non sono proprio belli. Essi fanno di Dante un personaggio almeno controverso, se non addirittura antipatico. Non insisterei troppo sulla morale dell’umiltà cristiana, benché Dante fosse cristiano e avesse potuto provare magari un po’ d’umiltà – lui l’ha provata tra l’altro nella sua opera, in tanti aspetti. Ma anche perché l’uomo è fatto così, guarda di sbieco la troppo ostentata coscienza altrui del proprio valore. È un’abitudine legata forse alla cortesia, dobbiamo aspettare che il nostro valore venga confermato dagli altri. Ma non possiamo essere sicuri che queste cose non siano soltanto una falsa immagine letteraria. A tale proposito, vorrei evocare una vicenda attribuita a Dante, che mi fa pensare a un modello dell’Antichità. A quanto sembra, Dante passava per la strada e si trovava davanti allo studio di un fabbro ferraio. Questo fabbro colpiva sulla incudine e allo stesso ritmo declamava i versi falsi. Dante, arrabbiato, si precipitò, gli strappò il martello dalla mano, lo buttò via, gli rovesciò anche l’incudine, e quando il povero fabbro, assolutamente stupito da questo intervento in forza, gli domandò: «Che fai, non vedi che rovini i miei strumenti?», Dante gli ribattè: «Anche tu rovini i miei». Qui aggiungerei che forse si riprende un modello letterario venutoci dall’Antichità, dalla vita di Diogene, che faceva la filosofia non solo con la parole e con i pensieri, ma anche…

L.A.: Con il metodo peripatetico…

O.P.: Sì, camminando, per mezzo di alcuni esempi molto rilevanti, e l’intervento di Dante mi sembra indebitato con questo tipo di filosofia.

L.A.: C’è veramente un gran numero di leggende con storie comiche, divertenti, intorno a Dante…

O.P.: Anche se lui sembra orgoglioso e distante.

L.A.: Nella sua opera, egli è un uomo orgoglioso e davvero fa vedere tratti comici solo raramente, per caso. L’abbiamo detto l’altra volta che in Dante troviamo la satira, ma non un comico neutro e disinibito.

O.P.: Non un comico volgare, popolare, ma piuttosto un distacco aristocratico, una derisione...

L.A.: La volgarità c’è però nell’Inferno, inclusa con deliberazione. Il poeta ha dimostrato le sue abilità anche in questa zona delicata. Per quanto riguarda gli autoelogi, mi ricordo che Giovanni Papini scrisse un capitolo dedicato a Dante proprio con questo titolo: Lodator di se stesso.

O.P.: Non cercava forse di fare quello che, alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, i non conformisti chiamavano «épater le bourgeois», cioè lanciare una sfida ai suoi contemporanei?

L.A.: «Épater le bourgeois» è una formula superficiale, dalle apparenze stupefacenti. Dante credeva davvero a quello che diceva. Credeva davvero al proprio valore. Papini passa in rassegna con grande precisione quasi tutti i momenti di «autoelogio» di Dante nella Divina Commedia e non si sbaglia. Egli tira una conclusione incitante, che si potrebbe discutere a lungo: il saggista contesta lo spirito francescano a Dante. Il francescanesimo insiste sull’umiltà, sull’amore per il prossimo, sulla modestia. Invece Dante non esagerò in modestia…

O.P.: I francescani chiedevano l’elemosina.

L.A.: Appunto. Ma Dante mica fu umile. Quindi si contesta effettivamente il suo spirito cristiano (ho scritto qualche anno fa una polemica, Tre ingiustizie di Giovanni Papini, dove analizzavo questi aspetti). Dante fu, veramente, un grande orgoglioso, però possiamo concludere che ebbe le sue ragioni: gli elogi che rivolse a se stesso furono giustificati. E detto questo, secondo me, possiamo andare avanti.

O.P.: Non vuoi che insistiamo ancora un po’ sull’immagine che gli viene effigiata? Per esempio non mi ricordo nella biografia di Boccaccio, anche se l’ho riletta di recente, se da qualche parte si faccia un riferimento a quello che troviamo nei ritratti, questo mento prominente e i denti inferiori che superano i denti superiori. E poi il naso aquilino e lo sguardo un po’ irritato e arrogante non so se ci si ritrovino.

L.A.: I ritratti sono tracciati dalla fantasia degli artisti, secondo i racconti presentati dai biografi del poeta. E questi si servirono delle narrazioni fornite dai contemporanei dell’autore. Quindi si tratta di fonti di seconda o di terza mano. È sorprendente che non ci sia un ritratto «originale» del più importante poeta italiano. (E non ho dimenticato l’affresco di Giotto, sulla parete della Cappella del Bargello, che avrebbe rappresentato Dante. Ma il palazzo fu trasformato in prigione, e il dipinto scomparve sotto l’intonacatura. Fu ricostituito più o meno solo nel 1840…) Altrettanto sorprendente è non avere nessuna riga di suo pugno. L’autore di un’opera talmente vasta e profonda non lasciò una sola parola scritta personalmente. Perché eravamo nel Medioevo, perché la stampa non c’era, perché l’artista stendeva a mano il suo testo, che faceva ricopiare, il copista lo trasmetteva agli altri, si tramandavano così le copie delle copie delle copie, ma non i manoscritti originali. Perché sarebbe questo un aspetto così importante? Si conoscono i grandi progressi fatti dalla grafologia. Non è avventato affermare che, in base alla scrittura di Dante, si sarebbero potuti ricostruire alcuni suoi tratti spirituali, psicologici, temperamentali. Ma purtroppo questa strada è chiusa per noi.

O.P.: Per quanto riguarda il suo temperamento, mi ricordo un saggio di Papini, che tu hai tradotto e hai pubblicato sulla E-Leonardo. Vi si dice – e forse non abbiamo nessun motivo per contestare la conclusione papiniana – che Dante fosse molto irascibile. Proprio come nell’aneddoto che ha raccontato: forse era un collerico. Egli fa le polemiche con un suo buon amico, si scambiano poemi abbastanza aspri, l’uno sul conto dell’altro, e se non si finisce direttamente con le bestemmie contro la madre, non si risparmiano comunque i riferimenti alla famiglia, ai genitori, agli antenati.

L.A.: Già. Si tratta della nota Tenzone, il confronto che il poeta ebbe con Forese Donati, il quale gli rispose ugualmente in versi. Ci furono tre attacchi di Dante e tre risposte dell’avversario. In tutto Dante fu, sorprendentemente, superato nell’abilità dell’argomentazione, nella profondità delle accuse e nella forza dei versi. A quanto pare, questa fu l’unica situazione in cui Forese Donati avesse dimostrato il suo ingegno poetico, esercitando il talento proprio ai danni di Dante!

O.P.: Ma nell’Inferno non abbiamo forse sufficienti occasioni per notare il modo pungente in cui Dante si riferisce ad alcune figure dell’epoca, del secolo che lo ha preceduto, della società che ci presenta?

L.A.: Senz’altro che Dante è un uomo passionale, nei contesti dove deve essere passionale. E sa ugualmente rinunciare allo sdegno e ammirare, beatificare, per esempio nel Paradiso, dove il contesto gli impone questo atteggiamento. Ma prima di cominciare l’analisi della Divina Commedia, cerchiamo piuttosto di ricostruire alcuni momenti della biografia dantesca, il suo percorso fondamentale, per coloro che forse non hanno sentito mai parlare di quest’autore.

O.P.: Due parole sulla sua famiglia, dunque.

L.A.: Era una famiglia della piccola nobiltà di Firenze…

O.P.: Che si era affermata anche nel campo dell’usura, vero?

L.A.: Si suppone di sì. Ma non ci sono delle prove dirette. Ci sono soltanto dei mezzi termini, delle allusioni e soprattutto quella polemica che abbiamo appena ricordato, la tenzone, con le durissime accuse scambiate tra Dante Alighieri e Forese Donati. Di solito si deduce così che il padre del poeta si sarebbe occupato anche dell’usura... Quindi gli anni della vita di Dante furono 1265-1321. Eravamo in pieno Medioevo…

O.P.: Nacque nel mese di maggio.

L.A.: Sì, a maggio. Boccaccio fu il primo a farne tutt’una serie di meditazioni a carattere zodiacale. Forse è inutile che ci insistiamo anche noi, perché questa strada è stata già percorsa. Che cosa è interessante sottolineare? Nel contesto politico dell’Italia di quei tempi, c’erano due grandi partiti politici, che rispecchiavano i due grandi centri di potere: da una parte l’Imperatore tedesco, dall’altra parte il Papa di Roma. Intorno a queste autorità si crearono due partiti in Italia: i guelfi (con il Papa) e i ghibellini (con l’Imperatore). La penisola italiana era costituita di tante città-stato autonome. In tutte le città-stato, gli abitanti si divisero secondo i due partiti. Ci furono guerre interne estremamante violente, vinte a volte da un gruppo, altre volte dall’altro, aiutati con armi, soldi e soldati dall’Imperatore o dal Papa. Ci furono città che si cristallizzarono tradizionalmente guelfe, e altre che diventarono tradizionalmente ghibelline. Alla nascita di Dante, nel 1265, i ghibellini erano stati vinti e cacciati via da Firenze, e l’intera città era guelfa. Che cosa accadde in questo contesto? Gli stessi guelfi si divisero in due fazioni: i bianchi e i neri.

O.P.: I bianchi erano moderati…

L.A.: C’erano diverse ragioni per la separazione. Una era quello sociale. I guelfi bianchi si ritrovavano piuttosto tra la piccola nobiltà, i guelfi neri rappresentavano la grande nobiltà. Nella politica estera, nessuna delle fazioni era dalla parte dell’Imperatore. Però, in questa divisione, i guelfi bianchi erano piuttosto per una certa autonomia strategica di Firenze, mentre i guelfi neri sostenevano una più stretta sottomissione davanti all’egemonia papale. A quei tempi, Papa era Bonifacio VIII, una personalità estremamente forte e attiva, che lasciò la sua impronta sulla Chiesa. Dovremmo ricordare il primo Giubileo, organizzato dalla Chiesa Cattolica nel 1300, con i grandi pellegrinaggi e tutto quanto. Il Papa annunciò il perdono dei peccati a tutti coloro che venivano in pellegrinaggio a Roma e si pentivano. Questo provocò un enorme movimento di folla, fu uno tra i grandi eventi del decennio, anzi forse del secolo. Lo stesso Papa aveva le pretese e l’arroganza di intervenire e di influenzare il corso della politica, nelle città-stato della penisola, e intendeva sottometterle al suo potere. In questo contesto, Dante entrò nel gruppo dei guelfi bianchi. Fu successivamente eletto nelle strutture amministrative della città. Si deve dire ugualmente che il sistema di governo era costituito di numerosi consigli, dove la responsabilità era assunta a turno, appunto per eliminare qualsiasi tentazione dittatoriale. L’autorità suprema toccava al Consiglio dei Priori. I Priori rappresentavano le corporazioni. Ogni corporazione mandava in questo consiglio il suo eletto. Per poter fare parte del Consiglio, Dante si iscrisse alla corporazione dei farmacisti (degli Speziali). Perché proprio lì? Perché, secondo alcuni, a quei tempi la farmacia – con il suo miscuglio di sostanze – aveva legami con il miscuglio delle idee filosofiche. Per il resto egli non c’entrava con la vera e propria farmacia. Dante riuscì a far parte del Consiglio dei Priori e diventò Primo Priore per due mesi. Ci furono due gesti interessanti da notare, per il periodo dell’attività politica di Dante, definitori per la sua personalità. Il fatto che uno tra i suoi migliori amici, Guido Cavalcanti, anche lui poeta e membro dello stesso gruppo di guelfi bianchi…

O.P.: Chi ha tradotto Cavalcanti in romeno, te lo ricordi?

L.A.: Alcune poesie sono tradotte nell’antologia poliglotta della poesia medievale compilata da Teodor Boşca. Altre ne troviamo nell’ampia antologia della poesia italiana costituita da Eta Boeriu. Ma torniamo. Nel contesto dei conflitti interni provocati dalla lotta per il potere a Firenze tra i guelfi bianchi e quelli neri, per mettere fine alle frequenti uccisioni e vendette, il Consiglio dei Priori pronunciò un decreto: colui che combatteva a duello, dentro le mura della città, sarebbe stato esiliato.

O.P.: Un riflesso di questa situazione troviamo in Romeo e Giulietta. Penso al duello in cui muore Mercuzio, e Romeo deve scappare via ecc. Si sa che Shakespeare si ispirò alle cronache italiane e a volte perfino a quell’atmosfera. A prescindere dalla veridicità delle scene shakespeariane, secondo me il drammaturgo inglese sorprese una situazione storica, perché nelle città-stato italiane, i gruppi politici non si costituivano in un senso moderno, ma spesso si affrontavano i clan. C’erano quindi delle famiglie più estese, che godevano dell’aiuto degli amici, dei vassalli, dei compari. Esse si confrontavano con accanimento, e la situazione suscitò, tutto sommato, misure politiche molto drastiche, come tali editti di intolleranza contro i duelli.

L.A.: Senz’altro. Ulteriormente anche Petrarca fece una serie di interventi in cui esortava e supplicava i principi (Ai signori d’Italia­) di non chiamare i mercenari stranieri che uccidevano gli italiani e si facevano pagare con i soldi italiani. Appunto per mettere fine, una volta per sempre, a queste lotte interne, quasi generalizzate nella penisola.

O.P.: Ma è importante sottolineare che le lotte rappresentavano spesso delle vendette. Quindi delle reazioni molto personali: hai ucciso i miei – uccido i tuoi.

L.A.: Fu il codice etico di quei tempi. Non vendicare con un altro crimine l’uccisione di un tuo familiare costituiva un insulto e una terribile umiliazione. Una degradazione.

O.P.: Ci si meritava il disprezzo della comunità.

L.A.: Si finiva nel disprezzo se non si ripagava di sangue un insulto di sangue.

O.P.: È interessante il modo in cui la giurisprudenza di quei tempi venisse in contraddizione con questa legge della tradizione e cercasse di limitarne gli effetti. Certo che era molto importante, dal punto di vista demografico, che cosa succedeva con i notevoli cittadini. Ci ricordiamo che, in un certo momento, Lorenzo de’ Medici sfuggì per poco a un simile complotto. Suo fratello ne rimase ucciso.

L.A.: Sì, «La Congiura dei Pazzi», quando fu commesso un terribile sacrilegio: i due fratelli de’ Medici furono attaccati in chiesa, durante la messa domenicale, dai membri della famiglia dei Pazzi. Questo andava oltre qualsiasi regola immaginabile. Machiavelli scrisse pagine impressionanti sull’argomento storico.

O.P.: Così forse riusciamo a ricreare un po’ l’atmosfera dell’epoca, allo stesso tempo atroce e anche romantica, dove comunque non era molto semplice essere uomini.

L.A.: Già, ma anche per le donne era pesante: stare sempre in casa, uscire soltanto per andare in chiesa, dipendere dalla volontà dispotica della famiglia, che a soli 10 o 12 anni decideva la vita delle figliuole, stabiliva chi avrebbero sposato, mentre i sentimenti ovviamente non c’entravano per niente con il destino pubblico. Tutto si costruiva sull’appartenenza sociale.

O.P.: Alleanze matrimoniali, di ricchezze ecc.

L.A.: Proprio così. Non era un affare né da maschi, né da femmine. Forse c’era da cercare la terza via.

O.P.: Troviamo spesso la terza via in Boccaccio, in tante delle sue storie.

L.A.: Fare il monaco, probabilmente!

O.P.: No, pensavo alle scene in cui l’intruso si nascondeva o in una cassa di legno, o chi sa dove, e metteva le corna al marito.

L.A.: Anche questo. Ma tornando alla serietà, davvero una delle soluzioni trovate da tanti studiosi fu…

O.P.: …l’ingresso nell’ordine monacale… Una carriera spirituale per eccellenza.

L.A.: …l’adesione al clero, a prescindere da quanto finta o reale fosse la stessa fede. Questo offriva una certa stabilità e la protezione davanti ai duri colpi della fortuna, che altre posizioni rifiutavano.

O.P.: C’era tuttavia un’altra possibilità all’epoca: fare il notaio. Anche Carducci ha le sue parole d’elogio dei notai, che spesso facevano dei piccoli versi in margine ai documenti, in modo più o meno ispirato, prefigurando comunque un’epoca. E l’epoca prefigurata da loro fu quella di Dante, di Guido Cavalcanti e degli altri.

L.A.: Se ben ricordo, il padre di Petrarca fu notaio e finì esiliato da Firenze… Quindi nemmeno il mestiere di notaio rappresentava per forza una garanzia… Ma torniamo, siamo nella situazione in cui il buon amico di Dante, Guido Cavalcanti, infranse l’editto, combattè in duello proprio contro un guelfo nero, un avversario della fazione al potere. Dante doveva decidere: difendere l’amico contro la legge, oppure difendere la legge e punire l’amico. Un dilemma molto interessante!

O.P.: È come la situazione del nostro primo-ministro Tăriceanu, nei confronti del suo amico, il ricco uomo d’affari Dinu Patriciu…

L.A.: Forse. Non lo so. Ma la decisione di Dante fu quella di punire l’amico, di mandarlo in esilio e di far rispettare la legge. Guido Cavalcanti andò in esilio, si ammalò lontano dalla patria e fu perdonato soltanto nelle ultime settimane di vita: tornò per morire a Firenze. Ecco uno dei gesti che la dicono lunga sul modo in cui Dante sapeva assumere le sue opzioni. Se ci mancano i ritratti fedeli, le foto dell’epoca di Dante (perché ovviamente a quei tempi non c’erano le macchine fotografiche), abbiamo invece delle testimonianze …

O.P.: …degli echi eloquenti…

L.A.: … sul suo ritratto interiore, i princìpi che intendeva seguire, i valori a cui credeva, e a volte tutti questi possono compensare l’immagine dell’esterno che manca.

O.P.: Ti sei avviato un po’ presto verso la seconda parte della carriera e della vita di Dante. Hai parlato soprattutto del suo percorso pubblico. Aggiungerei a questo ritratto – tornando alquanto per la nostra strada – l’amore idealizzato per Beatrice, che arrivò molto presto, fu vissuto in modo straordinariamente intenso, specialmente nell’ambito dell’interiorità e nel contesto delle rigide convenzioni. Per non dire niente della brevità biografica di questa ragazza, diventata molto presto signora e morta da giovane. Aggiungo che, di seguito, anche nella vita di Dante ci fu una famiglia, egli ebbe una moglie, dei figli. Forse anche qui, senza entrare in una psicanalisi a cui non sono abilitato e per cui mi manca la dovuta abilità, possiamo vedere un tratto del carattere di Dante: il rifugio in un amore tanto intenso, quanto ideale, che rimase incompiuto nella vita terrestre.

L.A.: Di Beatrice abbiamo i primi indizi in un’opera dantesca di giovinezza, che si chiama Vita Nuova. Si tratta di una creazione mista, in versi e in prosa. Cioè un racconto autobiografico composto soprattutto in prosa, ma che a volte si interrompe e viene intercalato da certi versi, suscitati da un accesso di ispirazione. Ci furono lunghe discussioni su questa Beatrice. I dibattiti furono provocati da diversi elementi. Il primo fu quello che lo stesso Dante non la descrisse con precisione. Non ci diede moltissimi dati di lei. Quello che ci disse concretamente nella Vita Nuova fu che aveva visto Beatrice per la prima volta e se ne era innamorato di colpo, quando aveva nove anni. L’avrebbe rivista dopo altri nove anni, cioè quando ne aveva diciotto. Qual era il problema? Parlavamo l’altra volta dei numerosi significati che Dante appositamente sovrappose, nella sua creazione letteraria. Quando l’autore dice di aver visto Beatrice, possiamo prendere in considerazione il senso letterale e immaginare infatti davanti agli occhi una bambina affascinante, di nove anni. Ma possiamo pensare – e non è un passo avventato – di fare il calcolo che 9 significa 3 x 3. E tre vuol dire la cifra della Santa Trinità. 3 x 3 dà la sublime perfezione. Possiamo quindi vedere un’immagine della perfezione al cubo. E allora non conta più l’età che questa ragazzina aveva, ma il concetto stesso. Ecco che le nostre strade si aprono come un labirinto: alcuni insistono sulla lettura letterale e identificano infatti la donna amata da Dante con Beatrice Portinari, una giovane di Firenze, contemporanea dell’autore. Altri ritengono che si tratti di una persona che non si può riconoscere in realtà. Del resto Dante è molto timido nella Vita Nuova. Ha degli scatti adolescenziali…

O.P.: …da pubere…

L.A.: …appena la vede, gli tremano le ginocchia, batte i denti per l’emozione e corre via a casa. Ha la cosiddetta «camera de le lagrime», dove va a piangere a lungo, per la felicità di averla vista, o per la disperazione che lei non abbia risposto al suo saluto. Ci sono delle situazioni commoventi, da un certo punto di vista, ma ugualmente simboliche. Alcuni non esitarono a vedere in Beatrice l’archetipo della filosofia, della saggezza, e altri videro in lei la stessa grazia divina.

O.P.: Non siamo forse davanti a un eccesso di significati?

L.A.: Vedere l’amore per Beatrice come l’amore per la filosofia, per la saggezza, per il concetto: i lettori si spinsero con le interpretazioni anche in queste direzioni. Alcuni, tra cui proprio il nostro «amico» Coşbuc, contestarono con insistenza la reale esistenza fisica di Beatrice. Ma Dante, quando ci parla, fa intravedere dei significati nascosti. Lei è, per esempio, il numero nove tra le bellezze. Come mai? Il poeta aveva fatto un elenco delle più belle donne fiorentine del tempo e qui l’aveva inclusa al nono posto. Possiamo pensare di nuovo a un multiplo di 3, cioè che Beatrice non fosse soltanto meravigliosa come apparizione in pubblico, ma anche divina dal punto di vista spirituale.

O.P.: Una specie di concorso Miss Firenze…

L.A.: Sì. O ci sono diversi piccoli giochi, del tutto caratteristici per l’innamorato sopraffatto dall’emozione. Lui ama Beatrice, ma non glielo dice, perché gli manca il coraggio, appena la vede scappa via per piangere. E la sola idea che la gente potrebbe capire che lui ama Beatrice lo fa impazzire. Vuole nascondere il suo amore. Ma come può nasconderlo veramente? Per mezzo della «donna-schermo». E allora finge davanti a tutti di amare un’altra, per nascondere il suo vero amore. La gente scopre che Dante è innamorato di un’altra. Lo scopre anche Beatrice che, appena lo vede, rifiuta di rispondere al suo saluto. Il massimo della tragedia! Perché reagisce Beatrice con tanta crudeltà? Si sente tradita? È gelosa? Crede lei davvero che Dante ami quella «donna-schermo»? Non lo sapremo. Il fatto è che si presenta un nuovo motivo di tribolazione. La «strategia» della discrezione, invece di proteggere il suo amore, gli infligge ancora più grandi sofferenze. Tutto questo tormento estremamente vivo e, tra l’altro, un po’ ingenuo, è descritto nella Vita Nuova, l’opera giovanile di Dante. Se accettiamo il parere dei commentatori che hanno visto nella donna amata da Dante la detta Beatrice Portinari, sposata giovane con il banchiere Simone de’ Bardi, come seconda moglie, la stessa Beatrice morta poi a ventiquattro anni, a seguito di un parto, allora Dante rimane presto senza l’oggetto del suo amore. Quello che si sa della sua biografia concreta è che avrebbe sposato una certa Gemma Donati, che gli era stata scelta dalla famiglia, e da lei avrebbe avuto due figli maschi e una femmina, o tre figli maschi e una femmina (le opinioni dei ricercatori sono divise). Gemma Donati apparteneva, ironia della sorte, a una famiglia di guelfi neri, fazione politica nemica a quella di Dante. Quando il poeta andò via in esilio, Gemma Donati rimase, probabilmente fino alla fine della sua vita, a Firenze. Non fu perseguitata né cacciata via. Invece i figli i Dante, sì. Quando diventarono maggiorenni, in base al decreto di proscrizione pronunciato contro il loro genitore, furono costretti anche loro a lasciare Firenze e raggiunsero il loro padre nelle diverse località dell’esilio.

O.P.: La mia domanda precedente, che riprendo adesso, è se per caso non si tratta, nel contesto di una tradizione plurisecolare, com’è la Lectura Dantis, di un eccesso di interpretazione: numerologia, simbologia, tutti gli elementi che si sovrappongono. I diversi strati culturali possono provocare una certa saturazione. Non dovremmo forse riconquistare il senso iniziale? Del resto ho l’impressione, avanzando anche per questa strada dell’interpretazione simbolica, che Beatrice possa provenire da beatus, beata, che significa «felice», un attributo riconosciuto ai santi, quindi che possa semplicemente rappresentare l’ideale della bellezza sacra. Un ideale al cento per cento.

L.A.: Lo può essere. Per quanto riguarda la tua osservazione precedente, il Medioevo è il periodo storico dell’abbinamento, della sovrapposizione, della complessità del pensiero…

O.P.: …e a volte anche della prolissità. Le cose si possono contraddire in questa interpretazione simbologica.

L.A.: L’immaginario medievale era per eccellenza strutturato in questa direzione, della permanente unione tra fisico e metafisico, tra terrestre e trascendente. Se capitava una disgrazia, il fatto era voluto da Dio. Lo scopo della nostra vita non era di essere felici qui, ma di conquistarci la felicità per il mondo dell’aldilà. La nostra vita era una via d’accesso alla gioia, una preparazione alla futura beatitudine. Il simbolismo medievale era parte dell’esistenza quotidiana.

O.P.: Huizinga ha pagine meravigliose a questo proposito.

L.A.: La sensibilità medievale era aperta…

O.P.: …al mistero del mondo…

L.A.: …conteneva diversi livelli. Lo stesso fatto concreto, per esempio la malattia e la morte del bambino prediletto, si poteva vedere come un evento biologico, o uno medico, o un fatto voluto da Dio, o un segno di punizione perché la famiglia aveva infranto le leggi divine ecc. Un solo gesto poteva includere numerosi significati. E quindi anche il testo dantesco rispetta pienamente questo tipo di comunicazione culturale o di mentalità collettiva a diversi livelli.

O.P.: È così senz’altro. Ma allora dobbiamo affrontare una nuova difficoltà nella nostra piccola digressione amichevole, cordiale e alquanto, almeno in apparenza, improvvisata. Cosa dobbiamo fare? Non ci troviamo, per caso, davanti a una convenzione? Se dovessimo cercare – come fece Coşbuc, come fecero tantissimi commentatori – il filo rosso della realtà, nascosto dietro la forma poetica e dietro la visione poetico-filosofico-teologica, dovremmo spaventarci per questa opacità, forse apparente, forse reale, o siamo più avvantaggiati se continuiamo la nostra spedizione tra le più minute particolarità?

L.A.: Secondo me, sarebbe sbagliato non assumere con precisione le premesse che c’erano a quei tempi. Se la gente pensava le realtà in modo sovrapposto, complesso e polimorfo, così dobbiamo fare anche noi oggi. Sarebbe uno sbaglio prendere il testo e ridurlo soltanto al suo livello letterale. O privilegiarne soltanto il lato allegorico. O insistere soltanto sul lato morale. Questi sensi sovrapposti non si incrociano e non si eliminano a vicenda. Essi sono paralleli e si completano. Possiamo scendere un livello, due livelli, diversi livelli. Tanto ce la facciamo, quanto ci «consentono» le nostre letture, quanto ci aiutano gli specialisti. È per questo che continuano le interpretazioni di Dante anche ai nostri giorni. Perché si scopre un nuovo livello di significato, che fino adesso non si poteva nemmeno sospettare e che si può ritrovare nel testo concepito apposta in modo polimorfico.

O.P.: Il problema rimane se vale la pena di partire alla ricerca del primo materiale dell’ispirazione, se lo possiamo chiamare così, ricreare la realtà storica e quella biografica. Avrà tutto questo una rilevanza notevole, essenziale, o rimane soltanto il pretesto per una geniale convenzione?

L.A.: Non c’è dubbio che la strada esistenziale e le scelte biografiche di Dante sono profondamente definitorie per lo stile della sua creazione, per il suo modo di configurare l’intera opera. Non possiamo fare a meno della biografia, quando vogliamo dare una spiegazione alla creazione dantesca. Non è un’opera sospesa, eterica, indipendente dalla persona in carne e ossa dell’autore.

O.P.: Credo che questa sia una possibile scelta, certamente, e sono dello stesso parere che sia importante il contesto in cui l’opera nasce.

L.A.: Con la Divina Commedia non c’è via di scampo, perché le menzioni alla realtà politica e storica medievale italiana si trovano praticamente dappertutto. Se non vai in quella direzione e non le accetti, rimani effettivamente all’infuori e non capisci più nulla: chi è contro chi? Se ignori la divisione tra guelfi e ghibellini e tutti gli aspetti a cui è dovuta questa ostilità che fece tante notevoli vittime lungo il secolo, non capisci la situazione storica, non puoi giudicare il vero peso dei fatti e ti sfugge l’essenza del conflitto. Il testo ha il suo punto di partenza nella realtà, che trasforma per eternizzare in modo artistico. È ovvio che non possiamo trascurare la biografia e la realtà quotidiana di quei tempi, se vogliamo capire Dante.

O.P.: Se è così complesso, forse dovremmo vedere come mai è stato possibile questo. Che cosa si sa degli studi fatti da Dante?

L.A.: Dei suoi studi si sa troppo poco. Nemmeno del posto dove si svolsero si sanno troppe cose di preciso. L’autore confessa, nell’Inferno XV, una calorosa riconoscenza nei confronti di Brunetto Latini. Un pedagogo, sembra, non molto brillante, ma al quale Dante dice, in un verso impressionante, «m’insegnavate come l’uom s’etterna». Glielo dice direttamente, quando lo incontra nell’Inferno: Maestro, ti ringrazio di avermi insegnato come l’uomo può diventare eterno. E qui interviene una montagna di interpretazioni. Alcuni sottolineano che Brunetto Latini scrisse un trattato sull’arte di governare le città (oggi la chiameremmo politologia). Secondo altri, lo stesso Brunetto Latini fu un importante insegnante di retorica, del bel parlare e della scrittura artistica. Ed ecco le difficoltà: a che cosa si riferisce Dante, nel suo verso? Come mai può l’essere umano diventare eterno? Per mezzo dell’attivismo sociale, dell’impegno quotidiano? È una variante. O forse, tutt’al contrario, per mezzo delle belle parole e della letteratura? È altrettanto plausibile. O forse lo stupendo verso dantesco è solo destinato a effigiare una personale esperienza di apprendimento? È anche questa una possibilità. Comunque viene registrata la diretta testimonianza di riconoscenza di Dante nei confronti di Brunetto Latini, il suo maestro di giovinezza. Per il resto, ci sono diverse opinioni: gli si attribuiscono studi fatti a Bologna…

O.P.: Perfino a Parigi si crede che sia arrivato…

L.A.: Sì. Bologna è il più vecchio centro universitario dell’Europa. È la città accademica più prestigiosa di quei tempi. Altri immaginano degli studi svolti presso la Chiesa fiorentina, con diversi predicatori ed ecclesiastici del tempo. Altri – specialmente i suoi ricercatori francesi, ma anche lo stesso Boccaccio – vorrebbero aver visto Dante studiare a Parigi. Si tratta di ipotesi che non sono confermate da fonti storiche attendibili.

O.P.: Si appoggiano soltanto sulle allusioni…

L.A.: Ciascuno attira Dante verso la propria zona geografica, considerando che egli sia  passato anche da quelle parti. Ma non ci sono poi tanti posti dove la presenza fisica dantesca sia stata scientificamente confermata.

O.P.: Forse non è inutile ricordare che Dante è un nome contratto da Durante(m).

L.A.: Sì. Anche per quanto riguarda il suo cognome, i documenti esitano e ne attestano ben diciannove varianti: Alegheri, Alegeri, Aleghieri, Alleghieri, Allaghieri, Allighieri, Allageri, Allagheri, Allegheri, Allegeri, Alageri, Alagheri, Alaghieri, Aldigherri, Aldighieri, Adeghieri, Aligeri, Aligheri, Alighieri. Ecco che, se vogliamo ampliare la relatività, abbiamo tanti strumenti a portata di mano. Possiamo relativizzare il suo nome, la sua immagine, la sua opera ecc. Credo tuttavia che la tendenza dovrebbe essere contraria, non cercando di dissipare quello che esiste, ma creando una convergenza quanto più fedele, una focalizzazione quanto più precisa della sua figura.

O.P.: Questo significa anche non scartare le cose che ci sembrano poco convincenti, ma diventate ormai famose nei commenti. Forse tronchiamo la situazione se le omettiamo dalla nostra rassegna. Non potremo certamente riassumere in questi pochi dialoghi tutto quello che si è detto di importante, seppure meno verificato in documenti diretti. Quello che sappiamo di sicuro è che Dante nacque, visse e fu rappresentativo per la città-stato di Firenze e che si spense in esilio a Ravenna. Che altre località furono ancora collegate, con certezza, ma anche con tutta la prudenza occorrente, alla sua biografia? Arrivò a Roma?

L.A.: Sì. Ma – rifacendo la strada nel tempo – il secondo gesto notevole, fatto da Dante mentre era nei consigli governativi (il primo era stato quello di mandare in esilio Guido Cavalcanti) si collegò alla richiesta dell’arrogante Papa Bonifacio VIII. Questi aveva domandato ai fiorentini un contributo finanziario per i suoi mercenari. Ci fu un dibattito all’interno del consiglio, e Dante espresse – secondo il cosiddetto verbale del tempo – il suo parere contro la richiesta del Papa. Questa ostilità aperta gli costò tanto. Fu inviato da ambasciatore presso il Papa, insieme ad altri due colleghi. Bonifacio li ricevette, ma evitò di dare una risposta. Secondo alcuni, trattenne i tre ambasciatori alla sua corte. Secondo gli altri, il Papa trattenne solo Dante e rispedì gli altri due. Comunque, Dante rimase a Roma, per un tempo, in vista delle trattative. Nel frattempo Bonifacio fece andare il principe Carlo di Valois, insieme all’esercito di mercenari, a conquistare la ricca città di Firenze, a cacciare via dal potere i guelfi bianchi e a imporre al potere i guelfi neri. L’esercito di Carlo di Valois si avvicinò alle mura, accerchiò la città e diede l’ultimatum: se i cittadini si arrendevano, non ci sarebbe stato spargimento di sangue, i soldati sarebbero entrati tranquilli e non ci sarebbe stato gesto di ostilità o di vendetta. Se, invece, si opponevano, la città sarebbe stata distrutta. In quei momenti di tensione, certo che sarebbe stata utile la mente chiara di qualcuno come Dante. Ma lui era «bloccato» a Roma, come ambasciatore. Dopo aspri dibattiti, i guelfi bianchi decisero di aprire le porte della città, in segno di pace, e di fidarsi delle parole del principe francese. Ovviamente le truppe invasero la città, la saccheggiarono a lungo, le case dei guelfi bianchi furono devastate e bruciate, alcuni rimasero uccisi, gli altri si salvarono solo dandosi alla fuga. Tutti furono giudicati e considerati colpevoli (alcuni in contumacia), e i loro beni furono confiscati. I guelfi neri arrivarono al potere e misero in scena tutto il disastro delle vendette politiche. Dante scoprì la drammatica svolta, scoprì che lui, da notevole cittadino, da prestigioso ambasciatore, era diventato da un giorno all’altro un proscritto ricercato per essere giudicato e condannato. Quindi scappò via da Roma – dov’era in missione – per evitare le brutte sorprese. Dante fu giudicato dai guelfi neri, accanto a diversi suoi compagni. Tutti furono condannati per «baratteria» nonché… per altri misfatti che avevano commesso. «Baratteria» è quello che oggi si chiama furto di denaro pubblico. Ma non erano fatte prove o precisazioni. Non erano personalizzate le accuse. Chi di loro aveva rubato? Quando? Quanto? Si parlava solo così, in generale. Come mai: per baratteria nonché… per diversi altri misfatti? Era ovvio che la sentenza voleva imporre la squalifica morale degli avversari politici. In prima istanza, se Dante si fosse presentato in brevissimo termine davanti ai suoi giudici, avrebbe dovuto pagare soltanto una multa. Ma non era certamente venuto (tra l’altro non aveva nemmeno la possibilità fisica di farlo, visto che nessuno gli aveva comunicato le accuse). In seguito, a meno di altri due mesi, la seconda sentenza fu di pena capitale. Fu condannato a essere bruciato sul rogo, quando fosse mai tornato a Firenze.

O.P.: Conoscendo l’esempio di Socrate, direi che, anche se si fosse presentato, non c’erano grandi speranze che ne sarebbe uscito sano e salvo.

L.A.: Da quel momento cominciò il grande pellegrinaggio di Dante per diverse località dell’Italia. In alcune fu ricevuto e supportato. In altre sarà dovuto stare allo stesso tavolo con i saltimbanchi e altri giullari che divertivano i padroni. Lui passava per poeta, aveva il dovere di far divertire coloro che gli offrivano il pezzo di pane.

O.P.: Me lo immagino proprio a farli divertire con l’Inferno

L.A.: Dante ha scritto anche memorabili versi d’amore. Aveva la destrezza dei versi galanti senz’altro. Ci sono alcuni posti in cui la presenza di Dante fu effettivamente attestata: Treviso, Padova, Venezia, Lunigiana, Casentino, Lucca. Fu ospitato a Verona dal generoso Cangrande della Scala. La personalità del poeta diventò pian piano sempre più conosciuta e stimata. Nei suoi ultimi anni si stabilì alla corte di Ravenna, presso Guido Novella da Polenta, il nipote di Francesca da Rimini, la cui storia aveva scritto nel V canto dell’Inferno. Dante, come abile maneggiatore della parola, fu inviato a calmare la rabbia di Venezia. C’era stata una rissa e alcuni marinai veneziani erano stati picchiati e anche uccisi dai ravennati, in una taverna. Era un ottimo pretesto perché Venezia facesse le sue minacce di rappresaglie statali. In realtà c’erano di mezzo gli interessi economici. Così entrò in scena Dante come ambasciatore che cercò di placare il conflitto. Ma lui evitò il viaggio a Venezia per acqua, perché non se ne fidava, e fece grandi giri sulla terra ferma. Attraversò zone paludose, colpite dalla malaria, si ammalò al ritorno dall’ambasceria e morì a Ravenna, nel 1321, all’età di 56 anni. Gli vennero fatti grandiosi funerali, fu venerato da coloro che l’avevano ospitato. Si deve aggiungere però che, in modo paradossale, il suo destino fisico non finì con la morte. La sua fama aumentò di continuo. La Divina Commedia cominciò a farsi conoscere. Boccaccio diventò il primo biografo del poeta. Fu il primo a dedicarsi alla Lectura Dantis a Firenze. Attirò ai fiorentini l’attenzione sull’immensa ingiustizia che avevano fatto mandando in esilio il loro più illustre concittadino. Boccaccio fu inviato dalle autorità presso la figlia di Dante – nel frattempo diventata monaca con il nome di Beatrice –, per offrirle una somma di fiorini in risarcimento e per chiederle di accettare il rimpatrio delle ossa dantesche. La monaca Beatrice accettò i soldi, ma rifiutò di cedere le ossa. Ci furono tantissime avventure lungo i secoli, con interventi di grandi personalità come Lorenzo dei Medici o Papa Leone X, che misero a prova tutta la loro autorità amministrativa per «rimpatriare» Dante. Le richieste e gli ordini furono trascurati e sfidati. Avvenne l’offerta concreta di Michelangelo di costruire un impressionante tempio, come tomba di Dante a Firenze. Neanche questa variante riuscì a convincere i ravennati. Quando la pressione politica e amministrativa fu così forte che la perdita delle ossa di Dante diventò imminente, esse furono rubate e scomparvero misteriosamente. Si procedette all’apertura della tomba, trovata vuota. Quindi il trasferimento non si potè mettere in pratica. Dopo duecent’anni circa, nel monastero francescano contiguo alla cappella funebre si svolsero lavori di restauro, un muro fu buttato giù, e all’interno si trovò una scatola con le ossa e un’iscrizione in latino. Un monaco ammetteva di averle prese via, per proteggerle, nel 1677. Si organizzò quindi nel 1865 una nuova solenne inumazione. Un’altra desumazione, a scopi scientifici, avvenne nel 1921. Si seppe allora, in base alle analisi, che Dante aveva sofferto di alcune malattie come l’artrite e l’uremia. Alla reinumazione, uno degli addetti ai lavori rubò una falange di un dito del poeta e la custodì come sacra reliquia fino alla morte, quando venne restituita. Durante la seconda guerra mondiale, quando gli americani sbarcarono in Sicilia e avanzarono, liberando gradualmente la penisola, Mussolini ebbe l’impressione che la sua ultima carta da giocare fosse quella di mettersi sotto la protezione di Dante. Inviò alcuni ufficiali per prendere via le ossa di Ravenna e per portarle davanti alle truppe, come sacra garanzia della lotta fascista contro «l’invasore» americano. Per fortuna il suo progetto fallì, e Dante continua a riposarsi fino a oggi, nonostante tutte queste avventure lungo i secoli, a Ravenna.

O.P.: Egli fu più fortunato di Kant, che scomparve per sempre dalla sua tomba, durante la seconda guerra mondiale. Ma ti propongo un’altra sosta.