Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


SECONDO DIALOGO

13 febbraio 2006



            O.P.: Caro Alex, abbiamo parlato delle traduzioni in romeno della Divina Commedia, però ci siamo riferiti soltanto a quelle portate a buona fine. Forse sarebbe un atto di giustizia e di attenzione rivolta agli sforzi concentrati sull’opera di Dante e, in essenza, sulla sua trilogia (perché di questa stiamo parlando), discutere anche dei tentativi incompiuti per diverse ragioni. Da quello che conosco, ci sono stati diversi frammenti e diverse varianti e senz’altro ciascuno ne mantiene una specifica impronta. Sarà dovuto alle circostanze in cui gli autori hanno lavorato, o rispecchia piuttosto la sensibilità di ogni autore, o ci sarà qualcosa di tutto questo insieme?

            L.A.: Visto che ci siamo riferiti prima allo specifico delle varianti tradotte e al percorso così diverso dei traduttori, anche nella situazione delle traduzioni romene incompiute della Divina Commedia troviamo senza dubbio delle situazioni specifiche, che le stanno segnando. Per esempio, dobbiamo ricordare, con valore strettamente teorico, quindi come una curiosità di per se, che le prime varianti del genere risalgono all’Ottocento. Dicevamo l’altra volta che Dante era stato riscoperto dagli italiani stessi nel Romanticismo, e in seguito vennero anche gli intellettuali romeni. Ci sarebbero da ricordare, in tale contesto, le prime varianti romene della Divina Commedia: Ion Heliade-Rădulescu (fa pubblicare nel 1848 i canti I-V dell’Inferno, in un tentativo di prosa, senza ritmo e rima), Gh. Asachi (traspone nel 1865 la storia di Ugolino, in versi di 16 sillabe senza rima), Aron Densusianu (traduce il IIIo canto dell’Inferno, il XXVIIIo del Purgatorio, il XXIIIo del Paradiso, in terzine con versi di 13-14 sillabe), I. Drăgescu (traspone nel 1877 il IIIo canto dell’Inferno in versi di 12-13 sillabe), Gr. Sc. Grădişteanu (nel 1881, i canti I-V dell’Inferno), N. Gane (tra 1882 e 1905, i canti I-XXVII dell’Inferno) ecc. ecc. Maria Chiţu traduce in prosa l’Inferno (1883) e il Purgatorio (1888). Certo che queste varianti appartengono piuttosto allo specifico della nostra storia culturale, non hanno un valore in sé e sono introvabili ai nostri giorni, per farsi almeno sfogliare. Ma il fatto stesso che furono realizzate può essere rilevante per la nostra sincronia con un certo movimento culturale europeo. Soprattutto nella situazione di Aron Densusianu, che cosa determinò la traduzione di quei frammenti? Sin da allora, si cercava di spingere avanti lo studio di Dante e ci prevalse tutt’una serie di finalità didattiche.

            O.P.: Non vorrei trascurare però il fatto che, tra i fratelli Densusianu, Aron fu colui che cercò di scrivere una poesia originale. Forse tutto è collegato anche al suo gusto per la poesia. Perché sto dicendo questo? Per esempio, se in Nicolae Densusianu ritroviamo una direzione stravagante, di poeta epico, tale passione fu espressa soprattutto nell’opera di vecchiaia dello storico che infatti fu. Mi riferisco all’ormai famosa Dacia preistorica, in cui collocava l’Iperborea e scopriva – secondo uno schema la cui provenienza l’ho riconosciuta nella Scienza nuova di Giambattista Vico – l’età dei giganti, l’età degli dei ecc. Si dovrà scrivere tuttavia, prima o poi, non necessariamente la biografia di ciascuno dei fratelli, ma eventualmente la monografia della famiglia Densusianu. La storia di questi ragazzi che si erano avviati dalla Transilvania verso la piccola Romania e si erano costruiti, ciascuno di loro, una carriera intellettuale, lasciando dietro a loro delle tracce significanti per la nostra cultura moderna.

            L.A.: Si può notare con un sorriso che la stessa traduzione di George Coşbuc, quando ne fu cominciata la pubblicazione sperimentale sulla stampa letteraria, si attirò i fulmini dei Densusianu, che contestavano con un tono insistente la possibilità della traduzione in versi di Dante e consideravano il tentativo – brillante – di Coşbuc come un’impietà e un sacrilegio. Superando questa tappa da pionieri della traduttologia romena, esercitata su Dante Alighieri, e avanzando verso i nostri giorni, si dovrebbero ricordare veloce i brani proposti da George Buznea, Marian Papahagi o George Pruteanu. Per quanto riguarda la traduzione di Buznea, egli fece pubblicare in due volumi le prime due cantiche, l’Inferno e il Purgatorio (1975, 1978) e godè del giudizio superlativo di alcuni commentatori dell’epoca. Per esempio Edgar Papu la riteneva la miglior variante romena della Divina Commedia di tutti i tempi, superiore sia a quella realizzata da Coşbuc, che a quella compiuta da Eta Boeriu. La realtà è però molto diversa. Se volessi mettere il coltello nella piaga, direi che George Buznea avesse dato la peggiore traduzione romena della Divina Commedia

            O.P.: Perché la valuti in modo così drastico?

            L.A.: Non perché rimasta incompiuta. Comunque, tradurre due cantiche, l’Inferno e il Purgatorio, costituisce di per sé un grande successo. Ma il traduttore, in questa situazione, ha avuto il grande orgoglio di spingere se stesso davanti e di esporre i propri punti di vista, a danno di quelli dell’autore stesso. Questo sarebbe, per principio, un vero problema: il modo in cui stiamo affrontando, sin dall’inizio, l’atto della traduzione. Ma una colpa ancora più grande consiste nel fatto che George Buznea, spesse volte, dimostra con grande evidenza che non capisce effettivamente il senso originale che deve trasporre. Egli offre delle varianti che non hanno niente a che fare con quello che pensava o esprimeva Dante Alighieri.

            O.P.: In Dante ci sono anche passi oscuri.

            L.A.: È vero. Ma tanti di questi, con il consenso della critica, sono diventati abbastanza chiari. Buznea dimostra che, purtroppo, non ha insistito su una prima lettura, di comprensione dei sensi del testo dantesco.

            O.P.: Ha ignorato l’esegesi, secondo te?

            L.A.: È molto probabile. L’avesse conosciuta, non avrebbe commesso simili sbagli.

            O.P.: Io rimango allora stupito del giudizio elogioso, espresso da Edgar Papu, se teniamo presente che questi aveva una buona preparazione scientifica, da italianista.

            L.A.: Edgar Papu è stato davvero un buono specialista di letteratura universale. Ho letto con certa curiosità un elenco di manoscritti sequestrati dalla Securitate (la polizia politica comunista), alla residenza di Papu, quando egli fu arrestato all’inizio degli anni ‘60. Tra i suoi manoscritti conclusi, c’era anche uno studio di qualche centinaio di pagine, dedicato alla Divina Commedia, che si trova perfino adesso in custodia degli archivi segreti. Sarebbe interessante conoscerlo.

            O.P.: Lo potevano trasferire presso gli Archivi dello Stato, per farlo consultare.

            L.A.: Eh sì, visto che Dante Alighieri non rappresenta più una minaccia alla sicurezza nazionale dello Stato romeno, adesso, nel 2006. Però, da un altro punto di vista, io sarei prudente nei confronti di Edgar Papu, tenendo presente il suo giudizio superlativo sulla traduzione di Buznea. Non dimentichiamo, poi, nemmeno il ritratto morale discutibile di Edgar Papu, genitore del protocronismo romeno, con i suoi articoli pubblicati sulla rivista Secolul 20...

O.P.: Questo è stato più tardi…

L.A.: Non tralasciamo che si tratta dell’ammiratore della rivista e del partito fascista della Grande Romania, a cui dedicò, su un numero giubiliare, perfino un elogioso editoriale in prima pagina. Questa è una mia piccola sorpresa personale: come mai uno specialista così sottile di letteratura universale, come mai un intellettuale così istruito e come mai un ex-detenuto politico può decadere a livelli così pietosi?

            O.P.: Dovremmo forse distinguere – come succede nella tradizione della ricezione, tra Hegel il giovane e Hegel l’anziano – tra il giovane Papu e l’anziano Papu. Ho letto uno studio di Edgar Papu su Giambattista Vico e mi è sembrato assolutamente interessante. Certo, era pubblicato su una rivista interbellica (o forse proprio durante la seconda guerra mondiale) ed era scritto da un giovane in piena effervescenza.

            L.A.: Già. La maturità gli avrà fatto male.

            O.P.: Ma ti ho interrotto, volevi dire qualcosa…

            L.A.: Tornando a Dante e alle traduzioni… È interessante notare che, al momento della sua pubblicazione, la versione di Eta Boeriu è stata attaccata proprio da George Buznea. Come un gesto di vanità ferita, oppure di “orgoglio e pregiudizio” ecc. Il “rivale” si arrischiava perfino a dare delle lezioni a Eta Boeriu…

            O.P.: …si buttava.

            L.A.: Ebbene, per la sua spiacevole sorpresa, ha ricevuto una risposta abbastanza tagliente da parte della graziosa avversaria. Ecco un episodio piccante della nostra pubblicistica letteraria: sulla rivista Tomis del 1972-1973, due traduttori romeni della Divina Commedia “combattono in duello”. Fa sorridere il fatto che, nonostante Eta Boeriu cercasse di mantenere la calma e di fingere l’aristocrazia, verso la fine tuttavia gliela fa pagare, citando e commentando in frasi secche la versione di Buznea all’inizio del famoso canto III, con l’iscrizione sulla porta dell’Inferno. Abbiamo il testo dantesco:

            “Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.
lasciate ogne speranza, voi ch’entrate.”

Ed ecco la proposta di Buznea:

                                                “Înaintea mea nu fură lucruri create

                                    Şi dacă nu-s eterne, eu dăinui în veci:

                                    Lăsaţi orice speranţă, voi ce intraţi.”

Invece la traduttrice di Cluj dimostra che il suo avversario ha effettivamente frainteso il secondo verso della terzina. Dante lo diceva chiaramente: prima di me (cioè della porta dell’Inferno) non ci furono altre cose create, all’eccezione di quelle eterne. Le cose eterne, quindi, ci furono prima. Eta Boeriu sta spiegando: “le cose eterne essendo, secondo la concezione biblica, i cieli, gli angeli e gli elementi, creati prima dell’Inferno, anch’esso eterno, per quanto lo riguarda, perché era stato creato prima dell’essere umano”. La variante di Buznea (“Şi dacă nu-s eterne eu dăinui în veci” – “e se non sono eterne, io invece ci sono per sempre”) è assolutamente priva di senso. Se riprendiamo il discorso in altri termini, nella Divina Commedia ci sono tre categorie di creazioni: le cose eterne, che ci furono da sempre e ci saranno per sempre (i cieli, gli angeli ecc.), abbiamo poi le cose create a un certo momento e che dureranno in eternità (la stessa porta dell’Inferno), e ci sono poi le cose create e mortali, che nascono e muoiono (i peccatori). Abbagliato dalla musicalità dell’ultimo verso, Buznea perde appunto l’importantissimo senso classificatore del centro della terzina.

            O.P.: Si dovrebbe capire, quindi, che questa traduzione, difettosa qua e là, fosse effettivamente inutile? È interessante vedere cosa stia succedendo con gli abbozzi parzialmente falliti. Ho letto non molto tempo fa (conoscevo la situazione, ma l’ho ritrovata in una sintesi sul Rinascimento) che i famosi affreschi di Leonardo e di Michelangelo, collocati nella stessa sala – dove Leonardo raffigurava la battaglia di Anghiari, invece Michelangelo abbozzava l’episodio di un’altra battaglia, quando all’uscita dall’acqua, dove facevano il bagno, i soldati della città erano stato sorpresi dai nemici – non furono definitivati da nessuno dei maestri. Ma si dice che abbiano servito, nella loro contemporaneità – finché furono distrutti –, come veri modelli del momento. Possiamo parlare quindi di progetti falliti, che siano importanti dal punto di vista culturale? Il lavoro di George Buznea si includerà, per caso, in questa categoria, o dovremmo semplicemente registrarlo come un percorso impraticabile?

            L.A.: Un altro tratto specifico della traduzione di Buznea è che abbellisce eccessivamente. Là dove Dante usa due epiteti, egli ne mette quattro.

            O.P.: In questo senso hai affermato che egli metteva se stesso in evidenza?

            L.A.: Infatti. Da una parte, modifica – evidentemente per ignoranza – alcuni sensi molto importanti della Divina Commedia. Da un’altra parte, si spinge avanti e si fa vedere con troppa insistenza. Ma questo è inaccettabile. Il traduttore deve avere la modestia di un funzionario.

            O.P.: Dev’essere come una finestra trasparente.

            L.A.: Certo. Deve mettere in luce il poeta tradotto, e non se stesso. Si tratta veramente di un mestiere ingrato, ma colui che non sa trattenere il proprio orgoglio e non sa infrangere le proprie velleità, non deve fare traduzioni. È libero di scrivere la sua propria opera. In conclusione, ecco uno strano episodio: la poesia di George Buznea è fluente, è simpatica, è espressiva (da questo punto di vista, poteva impressionare perfino qualcuno come Edgar Papu)…

            O.P.: Ma si tratta di una collaborazione che Dante non aveva richiesto.

            L.A.: Proprio così. Chi vuole conoscere Dante, può fare a meno di George Buznea. E viceversa. Un altro cantiere intellettuale per la traduzione romena della Divina Commedia è dovuto a Marian Papahagi…

            O.P.: Questo progetto è stato alquanto sorprendente per me, che ho conosciuto il professor Papahagi, ho saputo quanto si era disperso in diverse attività, come aveva cercato di costruire l’Enciclopedia delle relazioni culturali romeno-italiane e aveva avuto tante altre iniziative. Sono rimasto stupito a vedere che riprendeva una traduzione che in romeno aveva ormai almeno due versioni omologabili (penso a George Coşbuc e a Eta Boeriu). Perché mai? Perché sente la gente questo desiderio di ritornarci sempre? Ci sono ancora, cioè, tante altre cose da tradurre, in fin dei conti, dei testi letterari che sono sconosciuti dalle nostre parti.

            L.A.: Dalla Divina Commedia, Papahagi ha lasciato nella sua traduzione romena i canti I-VIII, il canto X e il canto XXXIV dell’Inferno. Tanto è stato pubblicato fin’oggi. Quindi la terza parte della prima cantica.

            O.P.: Avrà iniziato la traduzione nella successione dei momenti della sua vita, o solo nel suo ultimo anno? C’erano dei tentativi più vecchi di questo progetto?

            L.A.: Per quanto riguarda Marian Papahagi, dobbiamo dire che si tratta di uno tra i più importanti italianisti romeni degli anni ‘70-‘90 dello scorso secolo. Godeva di ottimi studi accademici conclusi a Roma. È diventato poi il pilone centrale del programma di studi italiani a Cluj e il protagonista di affascinanti riunioni di Lectura Dantis, presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Cluj. A questi corsi ho assistito anch’io, nel mio IIo anno come studente universitario, e grazie a essi sono arrivato a scoprire il poeta fiorentino. Marian Papahagi è stato un ottimo conoscitore di Dante Alighieri e della bibliografia specializzata, un avvertito lettore e ricercatore della letteratura italiana medioevale, e in questo campo aveva fatto perfino un dottorato di ricerca a Bucarest. Quindi, la curiosità per Dante si include nell’ordine normale delle sue preoccupazioni di decenni, nella principale direzione della sua professione. Accanto a quello di critico letterario e di commentatore della letteratura romena, questo, di medievista della cultura italiana, era un lato fondamentale della sua occupazione.

            O.P.: Aveva, secondo te, un particolare prediletto per il Medio Evo italiano, oppure si trattava semplicemente di uno dei campi in cui esercitava le sue preoccupazioni filologiche?

            L.A.: Nella sua situazione, si trattava di un’attività fatta con passione. Lo dico per testimonianza propria, biografica, in quanto ho assistito ai suoi corsi minuziosi ed entusiasti, all’università, e soprattutto a quello dedicato, per un intero anno, a Dante. Egli ci affrontava in dettaglio la bibliografia specializzata e le connotazioni a volte sorprendenti delle terzine. Si trattava di un eccellente conoscitore e un profondo, un informato studioso della Divina Commedia.

            O.P.: Mi sia perdonata l’ignoranza, ti chiedo un chiarimento. Questi corsi si svolgevano davvero in italiano o in romeno?

            L.A.: In italiano, certo. Parleremo subito dello specifico di tali corsi: che cosa vuol dire davvero Lectura Dantis. Si tratta di una nuova disciplina, inaugurata da Boccaccio nel Medio Evo.

            O.P.: Ma allora non è proprio così nuova…

            L.A.: Cioè si tratta di qualcosa di inedito, in un senso scientifico che chiariremo fra poco… O possiamo affrontare proprio adesso l’argomento?

            O.P.: Perché no? A me interessa sapere se si tratti semplicemente della lettura dei testi di Dante, oppure se si faccia anche l’interpretazione dei versi.

            L.A.: Dicevo l’altra volta che Dante si era proposto ed era riuscito a scrivere un altro Libro Sacro. Un’altra Bibbia, che affronta l’universo da un punto di vista letterario. Abbiamo qui alcune cose specifiche, che non si ritrovano in nessun altro volume. La Divina Commedia deve essere letta diversamente da qualsiasi altro libro. È per questo che diventa un’esperienza unica. Ma come mai si deve leggere diversamente? Partendo dagli elementi più banali. Di solito, leggiamo da sinistra a destra. Alla fine, voltiamo la pagina. Dopo aver percorso le pagine, finiamo il libro. Ebbene, no! Con la Divina Commedia non è così che si deve fare! Essa è strutturata in terzine (cioè in gruppi di tre versi). Ti leggi una terzina. Quando ne stai leggendo la seconda, ti vengono le vertigini. Alla terza sei perso nello spazio. Dalla quarta in poi ti tormenti per niente, perché non capisci più nulla. Se cerchi di leggere la Divina Commedia in mod tradizionale, da sinistra a destra, come qualsiasi altro libro, non hai assolutamente nessuna possibilità di farcela. Chiunque tu sii.

            O.P.: Nessuna possibilità di capirla o di andare avanti?

            L.A.: Tutt’e due. Se cerchi di avanzare in modo “tradizionale”, dopo le prime pagine butti via il libro e rinunci per sempre alla lettura di Dante. Ma allora come si deve fare? Ti leggi la prima terzina (i primi tre versi). Dopo questo, vai giù, a piè di pagina, e leggi le spiegazioni per quella determinata terzina. Poi ritorni e riprendi, “arricchito” dalle spiegazioni, la terzina appena letta. Soltanto dopo questa seconda lettura cominci a capire le grandi linee del senso. Successivamente, per gli altri particolari, devi riorganizzare l’ordine delle parole, all’interno della terzina letta. Un tratto interessante della Divina Commedia è che l’autore si diverte con un “gioco” intellettuale frequente nel Medio Evo. E cioè, nella lirica medievale possiamo trovare la struttura tipo puzzle. Che cosa significa questo? L’ordine delle parole è mescolato, non rispetta più la regola “normale”. Sia in romeno che in italiano, abbiamo di solito questa costruzione sintattica: Soggetto + Predicato + Circostanziali. Per esempio: “Il bambino viene a scuola felice in pullman ogni mattino insieme a suo fratello”. E allora capiamo di che si tratta. Ma Dante non dice così. Egli fa: “Con fratello felice suo pullman il bambino a scuola viene mattino ogni”.

            O.P.: Lo dice così perché è italiano, oppure perché è poeta?

            L.A.: Lo dice così perché questa è una delle sfide della poesia medievale. Essa si deve esprimere esteticamente: non soltanto trasmette le realtà dell’anima, in modo transitivo, ma usa anche in modo artistico la costruzione.

            O.P.: Questo appartiene dunque alla convenzione medievale…

            L.A.: Sì, lo ritroviamo anche in altri poeti (come Petrarca, per esempio), ma Dante lo spinge fino al sublime e lo assume come una scommessa artistica. Ecco per esempio la seconda terzina della Divina Commedia. Che cosa ci dice infatti? Che la selva selvaggia (in cui il protagonista si è perso) è così aspra e forte che riaccende la paura, nel ricordo. E come si esprime il poeta, per mezzo della struttura puzzle, cambiando l’ordine delle parole?

                        Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

            O.P.: Perché, a un certo punto, Ramiro Ortiz dice nella prefazione alla traduzione di Coşbuc, che egli aveva curato, che Dante è davvero cifrato, pieno di allusioni, difficile anche per i suoi contemporanei. Dunque non si tratta solo di una convenzione e non si tratta nemmeno soltanto della distanza tra Dante e i nostri tempi.

            L.A.: Un attimo! Questo è già un altro argomento! Io mi riferisco adesso al livello strettamente sintattico: della disposizione delle parole in frase e in terzina. Se mi prendo la terzina, la leggo da sinistra a destra e cerco di intenderla, mi sarà quasi impossibile farlo. Potrò dire: non importa, è una stranezza, la prossima terzina la capirò meglio. Ma la prossima è ancora più cifrata, ancora più aggrovigliata. Dalla terza in poi mi viene la disperazione! Dalla quarta in poi, perdo tutte le mie speranze e rinuncio alla lettura. Che cosa c’è da fare allora? Leggo una prima volta, seguendo l’ordine sintattico proposto da Dante, vado a piè di pagina, là mi ritrovo la decifrazione “normale”, poi ritorno e mi godo questo gioco di puzzle che ha edificato l’autore, il quale ha mescolato apposta le parole nella terzina.

            O.P.: C’è anche un’altra soluzione: prendo la traduzione in prosa di Alexandru Marcu. Egli chiarisce le cose, no?

            L.A.: Sì. Ma non dobbiamo aggrapparci ora a Marcu. Andiamo avanti. Non soltanto si deve sciogliere l’ordine sintattico della terzina, ma la stessa terzina, a livello semantico questa volta (perché prima ci siamo riferiti al livello sintattico) sovrappone diversi sensi, diversi significati. Questa sovrapposizione non è casuale, fortuita. Dante ce lo dice nel suo libro Convivio, seguendo il modello offerto da San Tommaso d’Aquino, quando si riferisce al testo della Bibbia. Lo stesso brano si può leggere per almeno quattro punti di vista diversi: letterale, allegorico, morale e anagogico. Il senso letterale si trova alla superficie del testo, è quella storia che il poeta, per mezzo delle parole, mette alla disposizione del lettore. Il senso allegorico si nasconde sotto le apparenze della storia superficiale, è quella “bella menzogna” di cui si serve l’artista. Il senso morale ci trasmette l’insegnamento di carattere generale-umano. Il senso anagogico – o il soprasenso – si riferisce al simbolico anticipo della vita dell’aldilà, è il messaggio profetico sulla felicità futura. Ecco che ogni passo della Bibbia, secondo Dante, deve includere questi quattro livelli di comprensione. Ma Dante voleva creare una nuova Bibbia, quindi non ci stupiremo a trovare tutt’una serie di sensi sovrapposti, nella stessa terzina. Possiamo leggere i suoi versi dal punto di vista letterale (e allora seguiamo il filo epico della storia che ci viene detta), ma anche dal punto di vista storico (e allora dobbiamo rifare il contesto del personaggio a cui si riferisce quella determinata terzina), ma anche dal punto di vista morale (che insegnamento ci trasmette l’autore, quale peccato concreto ci avverte di evitare o verso quale virtù ci spinge ad avviarci), dal punto di vista anagogico (delle virtù sacre incluse o evocate per mezzo del testo).

            O.P.: Secondo te, oggi la poesia avrà perso dalla complessità dimostrata nella concezione di Dante?

            L.A.: Senz’altro. Prima di tutto, abbiamo perso questa centralità intoccabile della sacralità della poesia. Il messaggio sacro era il “monopolio” del Medio Evo. Dal Rinascimento in avanti, la sacralità scivolò sempre più verso la figura di un deus otiosus, il quale soprattutto nella cultura, progressivamente, diminuì la sua importanza.

            O.P.: La mia opinione è che puoi trovare tuttavia, per esempio, un Hölderlin che recuperi questi sensi. Oppure, in un periodo più vicino a noi, lo stesso succede in una poesia apparentemente ermetica, come quella di Ezra Pound. Il quale, non per caso, fu profondamente affezionato all’Italia, fino a diventare, agli occhi della maggior parte della gente, in quel momento, alla fine della guerra, un nemico odioso, in quanto egli aveva appoggiato, a modo suo, il regime di Mussolini.

            L.A.: Sì. È vero. Si era attirato perfino i fulmini degli americani.

            O.P.: L’hanno chiuso in una gabbia e gli hanno sputato addosso per giorni, se ben ricordo.

            L.A.: Anche Louis-Ferdinand Céline ha ricevuto una “pioggia” di pomodori fetidi e di uova alterate che l’hanno completamente depresso.

            O.P.: Ma io mi riferivo a quei Cantos, come li intitola Pound, in cui mi è sembrato di scorgere, oltre alle più diverse alluvioni culturali (gli ideogrammi cinesi, l’Oriente, l’Antica Grecia, l’Italia del Medio Evo, la poesia provenzale), che si ritrovi qualcosa dell’atmosfera aurorale del poeta ispirato dagli dei, che Heidegger sta celebrando nella persona di Hölderlin, quando prende come punto di riferimento le sue digressioni filosofiche.

            L.A.: Il problema non è quello dei generici riferimenti intertestuali di una poesia, nel suo insieme, che invia il nostro pensiero in diverse direzioni. Si tratta effettivamente del livello “micro”, di una terzina, che crea in modo sovrapposto diversi strati di significato. Una cosa del genere non so se si possa trovare ancora in altre parti, tranne la Bibbia e la Divina Commedia. Comunque io, almeno, non ho più trovato niente di questo tipo. Non parliamo quindi delle globali scommesse intertestuali, ai parametri dell’intero testo, bensì di quelle che si ritrovano al livello di ogni canto, di ogni terzina o addirittura della parola. Tutto viene costruito, in modo deliberato, per includere una semantica plurale. Se completiamo tutto questo, dal punto di vista sintattico, con la struttura tipo puzzle, aggiungiamo poi l’insieme delle informazioni sull’antichità, la filosofia, la storia, le mentalità e i costumi, i delitti e le pene, la storia e la dottrina della Chiesa ecc. ecc., tutti i dati che vengono a ritrovarsi nel poema dantesco – ebbene, diventa assolutamente impossibile a un lettore comune stare attento a tutto quanto! E allora il problema è: a chi si rivolge Dante?! Ma a tutta la gente! Il suo testo si apre come un ventaglio. Coloro che se ne avvicinano con un approccio elementare, si godranno il livello letterale e si divertiranno delle avventure vere e proprie. Coloro che hanno certe letture sulla storia italiana del Duecento e del Trecento, oppure sulle eresie, dei movimenti sociali medievali, potranno assaggiare questi aspetti. Coloro, per esempio, familiarizzati con la filosofia di San Tommaso, che vogliano ritrovarla, o indagare le grandi influenze di Virgilio e dell’Eneide nella Divina Commedia, potranno esaminare il lato di classicista di Dante. Questo fu fatto, per esempio, da Niccolò Tommaseo, che avevamo ricordato prima. Nel suo commento, che risale all’Ottocento, egli insistè proprio in questa direzione, delle vaste conoscenze dantesche sulla letteratura classica latina e sulla filosofia medioevale. Ecco che Dante si può apprezzare a diversi livelli. Ma per quanto si fosse esperti, non si puo conoscere tutto! Se ci si butta a leggerlo d’un solo fiato, da grandi ingenui, molto orgogliosi delle proprie capacità di lettura e delle competenze intellettuali – si smarrirà la strada giusta! Quindi, si legge una terzina, si va a piè di pagina, si legge il commento che chiarisce i sensi, e poi si torna al testo iniziale. Aggiungiamo che anche i commenti possono essere costruiti in modi estremamente diversi. Ne possiamo avere uno di natura epica, letterale, in cui effettivamente ci si racconta in prosa il contenuto del verso. È molto utile qualcosa del genere! Un primo approccio. Non se ne può fare a meno. Ma ci sono commenti di carattere storico, o filologico, o filosofico ecc.

            O.P.: Dipende da chi li stia facendo.

            L.A.: Certo.

            O.P.: O se non si trattasse, per caso, del deficiente personaggio Sior Simplizianus, del nostro poeta Budai-Deleanu.

            L.A.: No, Sior Simplizianus non ci può stare per nulla. Mica siamo a livello di parodia. Possiamo avere, infatti, anche una parodia intelligente alla Divina Commedia, ma per questo dobbiamo prima conoscere benissimo il testo iniziale. Per esempio George Topârceanu ha fatto delle parodie straordinariamente divertenti, approposito dei canti I e III dell’Inferno. Dante e Virgilio sono trasformati in personaggi caricaturali: il poeta romeno scorge un’ombra “cu profil de babă” (con profilo di strega), lo stesso confratello fiorentino, che consente a malapena, dopo squisiti rimproveri, a guidarlo verso il mondo dell’aldilà. Arrivati davanti alla porta dell’Inferno, i due si prendono una fifa blu, entrambi, non hanno il coraggio di entrare e ci stanno a spiare dentro, a vicenda, attraverso una fessura.

            O.P.: Pensavo che lo stesso Budai-Deleanu, quando aveva composto le sue note ironiche a piè di pagina, forse per completare il capolavoro, avesse usato come modello una simile tradizione.

            L.A.: Può essere una ipotesi. Ma per un’edizione di Dante, le note a piè di pagina sono di una serietà atroce. Tommaseo ci mise, ripeto, 40 anni di lavoro assiduo.

            O.P.: Dunque consideri che, senza questo apparato critico, Dante sia impossibile da leggere? O da capire?

            L.A.: Andiamo avanti. Non soltanto ci vuole l’apparato critico. Ma altri libri, generalmente, si leggono in solitudine. Qualcuno si prende il volume, si ritira in un angolo e “sta a chiacchierare” con l’autore, per via ideale. Questa cosa non succede però con la Divina Commedia, a causa proprio della sua complessità, delle allusioni nascoste e della inebriante e affascinante sovrapposizione dei sensi di lettura. Per cui non si tratta di un libro come tutti gli altri, perché se lo stai leggendo in solitudine, non arrivi molto lontano. Ti dà fastidio, ti fa arrabbiare e lo butti via. Non ce la fai. Ti serve una guida. Come lo stesso Dante è stato guidato da Virgilio per la sua strada, così anche il lettore – di oggi o di domani – ha bisogno di una guida. Questa cosa fu perfettamente capita da Boccaccio, il quale inaugurò la disciplina di cui stiamo parlando adesso: Lectura Dantis (“La lettura di Dante”). Di che cosa si tratta? Il prosatore cominciò a spiegare in pubblico la Divina Commedia, su incarico ufficiale del Comune di Firenze, il quale voleva in un certo senso sdebitarsi nei confronti di Dante, che aveva mandato in esilio e a cui aveva provocato una terribile amarezza, lungo la sua tormentata esistenza. Una forma di riparazione fu anche questa, di pagare a Boccaccio una cifra, per fargli fare delle letture dantesche ad alta voce. E allora la domenica, alla fine della messa in chiesa, Boccaccio si faceva avanti, leggeva la terzina ai fedeli, si fermava e gliela spiegava.

                                                “Nel mezzo del cammin di nostra vita

                                    mi ritrovai per una selva oscura

                                    ché la diritta via era smarrita.”

Qui l’autore parla del “mezzo del cammin di nostra vita”. Che cosa vuol dire il mezzo del cammin della nostra vita? Che cosa significa questa espressione?

            O.P.: La nostra vita viene vista come una strada. Un cammino per cui avanziamo. E cominciava così il dialogo o forse il monologo per l’uso degli ascoltatori.

            L.A.: Questo è il senso superficiale. Ma se pensiamo alla Bibbia, la quale spiega che “Gli anni della nostra vita sono settanta” (Salmi, 89, 10)… E Dante non parla della metà della “mia” vita, ma della “nostra” vita. Egli intende la vita generica di una persona. La metà di 70 è 35. Se Dante è nato nel 1265, vuol dire che il suo viaggio è accaduto nel 1300. Ecco che, ormai oltre al primo senso, affrontiamo problemi di natura biografica, intertestuale (devi rileggerti la Bibbia per intendere l’analogia) ecc. Ma possiamo tener conto anche degli elementi di carattere storico: nel 1300 fu organizzato il primo grande pellegrinaggio giubiliare. Il Papa Bonifacio VIII decretò l’assoluzione dei peccati per tutti coloro che si sarebbero incamminati verso Roma, per ritrovare la vera fede. Alcuni partono per la Roma geografica, altri, come Dante, fanno il pellegrinaggio verso la Roma simbolica, dell’aldilà… Ma il viaggio alla scoperta del Paradiso vale per una fuga davanti al peccato (lettura morale), una riscoperta della grazia di Dio (lettura anagogica). La spedizione inizia al “mezzo del cammin di nostra vita”, cioè al punto di massima maturità e abilità personale, allo zenit dell’esistenza (lettura allegorica) ecc.

            O.P.: Non credi che la Chiesa potrebbe fare, con grande utilità, anche adesso, letture del genere? Anche in Romania.

            L.A.: Ti confesso di aver proposto al posto locale di radio ecclesiastica “La Rinascita” un ciclo di trasmissioni dal titolo Lectura Dantis, in cui mi impegnavo a riprendere il poema dantesco e a decifrarlo. Secondo me, quello che Boccaccio aveva fatto nel Medio Evo in chiesa, avrei potuto anch’io fare in una radio cristiana, certamente nel senso di una lettura ecumenica.

            O.P.: Forse hanno avuto paura di un punto di vista troppo cattolico.

            L.A.: Purtroppo non ci sono riuscito fino in questo momento. Sarebbe stata una cosa estremamente interessante. Ma andiamo avanti: “mi ritrovai per una selva oscura”. Notiamo il passaggio dalla Ia persona del plurale (la nostra vita) alla Ia persona del singolare (mi ritrovai). Chi è che parla qui? L’io lirico? Il narratore? Il narratario? L’autore? Ambiguità… E cosa vuol dire “mi ritrovai”? Il protagonista si trova veramente in una selva (livello letterale di comprensione)? Il protagonista si immagina di trovarsi in una selva (livello immaginario di comprensione)? Il protagonista sogna di trovarsi in una selva (livello onirico di comprensione)? Non lo sappiamo… Ma che cosa significa questa “selva oscura”? È davvero una selva, a livello letterale, cioè sto “vedendo” una persona che cammina per la foresta. Oppure si tratta della selva del peccato. E allora Dante ci dice che alla metà della vita è stato vinto dal peccato, a tale punto che la strada della virtù non gli era più accessibile (“la diritta via era smarrita”). E l’autore ci esprime le sue esitazioni in campo della fede. Ecco che ci allontaniamo, pian piano, dall’argomento di un’esperienza strettamente personale, verso una storia generalmente umana. Ma se non c’è qualcuno che possa avvertire su tanti sensi sovrapposti, qualcuno che reciti la terzina, che disponga le parole nel loro ordine normale, che spieghi i particolari agli altri e che riprenda eventualmente, in seguito, la terzina, questa volta da un altro punto di vista, così che faccia capire, in seconda lettura, almeno una parte dei sensi nascosti, il piacere intellettuale non si raggiunge con una semplice valutazione individuale. La Divina Commedia si deve leggere, prima di tutto, in pubblico. Ecco un altro tratto affascinante di questo libro: a differenza di tutti gli altri, scritti lungo la storia della civiltà umana, che si devono cogliere nell’intimità del proprio intelletto, il quale entra in contatto con l’intelletto di colui che ha steso le parole sulla carta, la Divina Commedia si deve “assaggiare” in pubblico, per mezzo di un lettore avvertito, che apre gli occhi e la mente a coloro che lo stanno ascoltando. Questo tipo di riunione si chiama Lectura Dantis. È uno “spettacolo” che si organizza a partire dal Boccaccio, dal Trecento, fino ai nostri giorni, dappertutto dove ci sono cattedre di lingua e di letteratura italiana. C’è perfino una tradizione rinsaldata: lungo la settimana, la giornata di venerdì è dedicata di solito a tale lettura ad alta voce, davanti a un pubblico più o meno avvertito, di italianisti, che desideri conoscere e godersi il testo letterario. Anche per questo, la Divina Commedia è una seconda Bibbia. Così come la Bibbia è letta ad alta voce, dal prete, in chiesa, e poi viene accompagnata dalla predica esplicativa, la Divina Commedia è oggi giorno, fino a un punto, una Bibbia laica. È quella scrittura che, a scuola, all’Università, è letta, è recitata, è spiegata davanti al pubblico, a cui vengono chiariti i sensi nascosti, secondo le competenze della persona che svolge questo corso, questa specifica disciplina. Insomma, ecco un altro tratto che fa così speciale il poema di Dante. Un banale volume viene letto una volta sola. Ci scopriamo alcune cose. Il libro ci piace o meno. Lo concludiamo. Forse lo rileggiamo un’altra volta dopo cinque anni. Ci piacerà di meno, perché le cose ci sono già note. Dopo sette anni, quando lo rileggiamo la terza volta, il nostro piacere è sicuramente ancor più piccolo. Si va in diminuzione, di solito, per quello che riguarda un libro di letteratura. Invece con Dante, la strada è esattamente contraria: in prima lettura non ci piace, è straordinariamente difficile, ci serve uno specialista che ci dia una mano, dobbiamo fermarci a ogni terzina, dobbiamo scendere a piè di pagina, dobbiamo tornare, dobbiamo riprendere la stessa terzina, passare alla successiva, poi ritornare alle prime due: avviene sempre un movimento circolare, non si va da sinistra a destra, la lettura non avanza “normalmente”. E non possiamo leggere più di due-tre pagine, per la straordinaria densità. La seconda volta – dopo aver già percorso la strada – il nostro accesso è alquanto più facile. La terza volta non dobbiamo più scendere a piè di pagina, perché ormai conosciamo alcuni sensi. La quarta e la quinta volta superiamo il problema del senso e cominciamo a goderci l’aspetto lirico, l’effettiva bellezza della superficie. (Poiché non possiamo apprezzare qualcosa all’insaputa, prima dobbiamo per forza capire e, soltanto in seguito, potremo assaporare.) Ecco perché io sostengo, con risolutezza, che la Divina Commedia comincia a piacerci soltanto dopo la sesta, la settima lettura. Per non parlare dei grandi fanatici, o dei grandi ammiratori che…

O.P.: …la leggono sempre…

L.A.: …che addirittura ne recitano a memoria lunghi brani, com’è stato il caso di George Coşbuc. Lui conosceva numerosissime terzine italiane a memoria. Oppure G. Călinescu e tanti altri, che facevano dei “duelli” con i versi.

            O.P.: Oppure te stesso! Quanti ne sai a memoria?

            L.A.: Anche questa è un’esperienza interessante, piuttosto di carattere personale. Sono stato ricoverato, qualche anno fa, con un problema abbastanza complicato e doloroso. Siccome avevo già l’abitudine di stare sveglio a leggere, in tarda nottata, purtroppo non c’era più questa possibilità in ospedale. Mi trovavo in un reparto collettivo, dove la luce si spegneva verso le 10. Gli altri non potevano accettare la luce accesa dopo quell’ora. Invece io, abituato alla veglia notturna, sentivo di impazzire così, a non fare più nulla nel buio, con gli occhi spalancati. Allora, per togliermi la noia, nonché la rabbia per la situazione che mi costringeva all’inattività intellettuale, ho cominciato a ripetere nella mente i versi della Divina Commedia. A un certo momento, visto che facevo sempre degli sbagli, ho avuto l’ambizione di imparare a memoria il più grande numero possibile di versi. Ho preso un quaderno e, al buio, scrivevo i brani e, il giorno dopo, con la luce, facevo il paragone con il testo che avevo in borsa e correggevo, là dove ci rimanevano ancora piccoli errori di memoria. Così, dopo quasi tre settimane, sono riuscito a imparare in modo fluente l’intero canto I dell’Inferno, ma anche frammenti più espressivi dei canti III e V. Fortunatamente per me e sfortunatamente per Dante, il mio ricovero in ospedale si è concluso dopo quei brani…

            O.P.: Ma capisco che il ricovero ti ha dato l’occasione di imparare alcuni canti dell’Inferno. Non hai pensato di imparare anche brani del Paradiso?

            L.A.: No. L’Inferno è la parte che, dal punto di vista estetico, io amo di più.

            O.P.: Vorrei dire qualcosa a proposito delle situazioni così interessanti che hai indicato prima, sulla Lectura Dantis. Questo conferma la mia convinzione che Dante appartiene tuttavia – fondamentalmente e fino all’ultimo orizzonte – al Medio Evo che, per quanto riguardava la relazione con il libro, era per eccellenza una civiltà dell’oralità. Le pubbliche letture, che vanno avanti fino ai nostri giorni sempre così, ricordano – anche quando a base si trova un manoscritto – le esibizioni di un personaggio centrale, ch’era il trovatore o il trovero. Egli si faceva circondare dalla gente, cantava, recitava, si fermava, commentava in prosa, ascoltava le risposte o era accompagnato. C’era tutt’una partecipazione collettiva. Penso che il destino della poesia dantesca, da questo punto di vista, si avvicini a un nuovo giro della spirale storica, perché dopo che abbiamo conosciuto il periodo di Gutenberg, della stampa per tutti, diffusa tra la folla e diventata accessibile, oggi, con internet, con la televisione, con la radio, di cui ti volevi far aiutare per giusta ragione e forse anche istintivamente, Dante può entrare in una nuova epoca dell’oralità. Mi sembra un destino non ancora concluso. E questo ci dice una cosa essenziale su tale poesia, sull’autonomia delle terzine, sulla periegesi testuale: alzare lo sguardo al testo, scendere a piè di pagina, allontanare successivamente i sensi sconosciuti, petalo dopo petalo, per arrivare a un nocciolo più profondo, tutto questo mi evoca un destino assolutamente interessante. Non mi stupirei se in diversi paesi ci fossero ormai i CD con le registrazioni di Dante. Sarebbe interessante sapere questo.

            L.A.: Sì. Ce ne sono, senz’altro. Ho anch’io un CD con una recitazione celebre. Ho ugualmente un’imponente collezione di audiocassette con letture di versi danteschi. Ci sono persone specializzate in Lectura Dantis, per esempio un Vittorio Sermonti, che punta sulla declamazione dei versi, insistendo sulla loro risonanza artistica, sul loro impatto, e non proprio sull’arresto dopo ogni terzina, sulla spiegazione ecc.

            O.P.: Come si recita?

            L.A.: Come qualsiasi poesia: si declama. Abbiamo ugualmente un gruppo di immagini impressionanti in internet, per esempio, con lo stesso Vittorio Sermonti mentre coordina una riunione di Lectura Dantis davanti a Papa Giovanni Paolo II, in Vaticano. Ma là c’era un altro scopo, probabilmente artistico, dell’impatto sonoro dei versi, e non quello pedagogico, che il professor Marian Papahagi cercava di raggiungere tempo fa e che sto facendo adesso io, da quindici anni, con i miei allievi. Lectura Dantis: ci fermiamo dopo ogni terzina letta in italiano, la traduciamo in romeno (ovviamente in prosa e con insistenza sui significati), e poi proviamo insieme a commentare, passo per passo, nei limiti concessi dal tempo a nostra disposizione.

            O.P.: Per anni ho fatto la stessa cosa con i vecchi testi romeni. Con la cronaca solitamente attribuita a Grigore Ureche e di cui io, insieme ad alcuni ricercatori, credo (crediamo) che sarebbe piuttosto la compilazione di Maestro Simone (Simion Dascălul). Si sta perdendo qualcosa, in una lettura solitaria e superficiale. Davvero i livelli separati si possono capire meglio così, insieme, ad alta voce, in un gruppo composto, preferibilmente, di un piccolo numero di persone. Ma, dopo questo lungo e del resto utile giro, tornerei al tentativo di traduzione di Marian Papahagi, di cui scopro soltanto adesso che si fondava in realtà su una precedente vocazione di dantista, esercitata nello spazio dei suoi corsi.

            L.A.: Certo. Egli ha insegnato Lectura Dantis per 20 anni circa, alla cattedra di italiano della Facoltà di Lettere di Cluj. Era un affascinante e avvertito specialista di Dante, e aveva spiegato il grande poeta a tanti giovani italianisti…

            O.P.: Tra loro, oltre a te, parla ancora qualcuno di Dante oggi?

            L.A.: Io stesso mi ritengo uno tra i suoi iniziati all’opera dantesca. Nonostante i maggiori conflitti che ho avuto successivamente con Marian Papahagi e nonostante i miei interventi sulla stampa, quando sono stato costretto a mettere in luce fatti riprovevoli e tratti di carattere spiacevoli del mio ex-professore, non nascondo tuttavia la mia riconoscenza nei suoi confronti, perché ha aperto davanti ai miei occhi questa strada feconda…

            O.P.: Ci sono altri tuoi colleghi in Romania che parlano oggi di Dante o fanno questo tipo di lettura in classe?

            L.A.: Non potrei dirlo con precisione. Lo so però che di recente è stato pubblicato a Iaşi il libro di Dragoş Cojocaru, La natura nella “Divina Commedia”. Studio storico e comparativo, un’informata tesi di dottorato di ricerca.

            O.P.: Ma allora, tornando alla traduzione, secondo te, quello che è rimasto dal tentativo di Papahagi rappresenta in realtà una versione finale, o è stato fatto lungo gli anni?

            L.A.: Si tratta di una successiva “sedimentazione”. Lui lo confessa anche in uno scritto: mentre stava traducendo e commentando con gli studenti all’università, lungo gli anni, ha pensato di dare una variante romena della Divina Commedia. La sua traduzione è fondata, come dicevo, su una conoscenza profonda e sottile dell’intero poema, che egli ha frequentato per decine d’anni. Al periodo medioevale ha dedicato anche un dottorato di ricerca. Il problema con Papahagi è che lui non è stato un poeta. È stato un erudita, senz’altro. Sono da leggere con massimo interesse le note spiegative che fa ai versi danteschi. Ma le terzine stesse, tradotte da lui, sono alquanto secche e prive di poeticità: il professore insiste sugli aspetti semantici dei versi e meno su quelli lirici. È interessante il modo in cui un traduttore riesca a trasporre la sua personalità intellettuale nel proprio lavoro. Se la versione dantesca di Eta Boeriu è soprattutto lirica, invece i dieci canti su cento che Marian Papahagi ha tradotto sono piuttosto scientifici, dotti. Ecco un altro strano particolare collegato al nostro argomento. In quegli anni – che la maggior parte dei nostri concittadini ha dimenticato, ma noi, se facciamo ancora un piccolo sforzo di memoria, glieli possiamo riportare, con tutto il loro terrore di una volta, sotto gli occhi – negli anni ‘80 faceva molto freddo nelle case della gente, la corrente elettrica si interrompeva, si faceva la fila per il cibo, per i prodotti di base, c’era una terribile penuria. Uno dei problemi che andavano insieme alla crisi generale era la situazione della benzina. Qualsiasi proprietario di macchina aveva il diritto mensile di comprarsene 10 litri. Oltre a questo (alcuni forse se lo ricordano ancora, e se invece no, allora glielo ricordiamo noi), in fine settimana si poteva usare la macchina soltanto due volte al mese. Un weekend andavano per le strade solo le macchine targate con numero pari, la volta successiva le macchine targate dispari, sempre per ragioni di economia. E poi le targhe delle macchine delle istituzioni statali erano dipinte di giallo ecc. Eravamo nella fase paranoica del comunismo, l’economia stava per fare implosione.

            O.P.: L’automobilismo comunque ne soffriva tanto.

            L.A.: Sì, l’automobilismo era in agonia! Ma, nonostante i successivi divieti, la benzina non si trovava comunque. C’erano le code apocalittiche. Spesse volte gli autisti rimanevano a secco e spingevano la macchina fino al distributore, la sera precedente a un piccolo viaggio. Stavano in fila, lungo l’intera nottata, fino al mattino dopo, per comprare quei 10 litri che gli spettavano. (Vorrei ricordare questi idillici episodi a tutti i nostalgici del comunismo, che ci saranno ancora nel nostro Paese. Allo stesso tempo, riferisco di queste meravigliose vittorie della società progressista a tutti gli ammiratori del Partito Comunista Italiano, seguaci del compagno Palmiro Togliatti, il pupazzo di Mosca, nonché dell’infaticabile compagno Fausto Bertinotti, capo del movimento chiamato Rifondazione Comunista.)

            O.P.: Comunque, loro ti potrebbero rispondere facilmente che Ceauşescu non c’entrava per niente, e tutto era solo l’effetto della crisi mondiale dei combustibili.

            L.A.: Sì, però la crisi mondiale dei combustibili non ha convinto i comunisti italiani a spingersi le macchine, a piedi, durante le sere, e a stare fino al mattino davanti al distributore di benzina. Soltanto il comunismo romeno ha raggiunto questi bei successi. I comunisti italiani, in eterna opposizione, si facevano il pieno molto sereni e, tra i denti, bestemmiavano i danni mondiali del capitalismo imperialista… Ebbene, tornando al nostro argomento, nel periodo in cui Marian Papahagi faceva la fila in macchina, negli anni ‘80, lungo la notte, per comprarsi i 10 litri di benzina, si recitava in mente i versi e contava con le dita gli endecasillabi danteschi, per rifare la misura.

            O.P.: Potrei capire che le code gli sono state comunque utili!

            L.A.: Mentre faceva la fila per la benzina, ha “alimentato” anche le sue traduzioni di Dante in romeno. Ma se io sono rimasto in ospedale finché ho imparato a memoria soltanto il I canto dell’Inferno, per Marian Papahagi – se mi concedi una battuta cinica – probabilmente il comunismo è finito troppo presto, perché lui è riuscito a tradurre soltanto il 10% della Divina Commedia.

            O.P.: Adesso mi preme di farti un’altra domanda. Abbiamo in romeno delle trasposizioni della Divina Commedia per i giovani, come ce ne sono per l’Iliade o per l’Odissea? Da quello che so, E. Lovinescu si è occupato dell’Odissea, l’ha trasposta, forse ne ha fatto un riassunto, in prosa vivace. Abbiamo qualcosa del genere per Dante?

            L.A.: In Italia ce ne sono. Là c’è quest’abitudine di trasporre in prosa e di raccontare l’intera “storia” epica del poema, soprattutto sui libri di testo. Ma si tratta di una falsificazione del capolavoro, che finisce ridotto solo al suo lato epico. Parlavamo poco fa dell’unicità della Divina Commedia: essa si deve leggere non “da sinistra a destra”, ma in modo circolare; essa si deve leggere non da soli, ma in pubblico; essa si deve leggere non una sola volta, ma ripetutamente. Un altro tratto interessante è collegato al suo specifico, per quanto riguarda i generi letterari. Conosciamo tutti e tre: l’epico, il lirico e il drammatico. L’epico si esprime in prosa, ha personaggi e un filo dell’azione. Il lirico si ritrova in poesia, ha versi, rima e figure stilistiche. Il drammatico avviene sul palcoscenico e coinvolge un dibattito intenso, tormentato, delle situazioni straordinarie. Il problema è di capire com’è la Divina Commedia: epica, lirica o drammatica? Ebbene, qui abbiamo la sintesi di tutti e tre i generi letterari! È epica perché ha almeno tre personaggi principali: Dante come protagonista, Virgilio e Beatrice come guide. Ha perfino una grande complessità epica, narratologica: c’è un personaggio Dante, ma c’è anche un narratore Dante, ma c’è anche una presenza vera, storicamente confermata: Dante come persona. Ecco un’interessante immagine nello specchio, che conferma la complessità della costruzione epica. La Divina Commedia è lirica perché è disposta in versi. Ogni verso ha 11 sillabe. È disposta in terzine (gruppi di tre versi). Ha la terza rima (cioè gruppi di tre rime). Sarebbe forse interessante spiegare brevemente che cosa significa questo particolare nella versificazione. Ecco alcune righe dell’inizio del poema, a cui ho messo in evidenza le parole di fine verso, per poter sottolineare con più grande facilità il modo in cui si costituisce la terza rima:


                                    Nel mezzo del cammin di nostra vita

(1)

                        mi ritrovai per una selva oscura,

(2)

                        ché la diritta via era smarrita.

(3)

                                    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

(4)

                        esta selva selvaggia e aspra e forte

(5)

                        che nel pensier rinova la paura!

(6)

                                    Tant’è amara che poco è più morte;

(7)

                        ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,

(8)

                        dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

(9)

                                    Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,

(10)

                        tant’era pien di sonno a quel punto

(11)

                        che la verace via abbandonai.

(12)

                                    Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,

(13)

                        là dove terminava quella valle

(14)

                        che m’avea di paura il cor compunto,

(15)

                                    guardai in alto e vidi le sue spalle

(16)

                        vestite già de’ raggi del pianeta

(17)

                        che mena dritto altrui per ogne calle.

(18)

                                    Allor fu la paura un poco queta,

(19)

                        che nel lago del cor m’era durata

(20)

                        la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

(21)

            Il canto inizia con la rima dei versi 1 e 3: vita smarrita. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 2, 4, 6: oscura – dura – paura. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 5, 7, 9: forte – morte – scorte. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 8, 10, 12: trovai – intrai – abbandonai. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 11, 13, 15: punto – giunto – compunto. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 14, 16, 18: valle – spalle – calle. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 17, 19, 21: pianeta – queta – pieta. E così via, fino alla fine del canto. E poi fino alla fine dell’Inferno. E poi fino alla fine della Divina Commedia… Tutti i versi sono collegati secondo questo modello: ecco che cosa vuol dire “la terza rima”.

            O.P.: È come una danza, in un certo senso.

            L.A.: È un successivo intreccio, che si prolunga all’infinito.

            O.P.: A me porta in mente le mosse di una danza. Forse proprio un minuetto.

            L.A.: Sì. Poi ogni verso ha la stessa lunghezza: Nel-mez-zo-del-cam-min-di-no-stra-vi-ta. 11 sillabe. Mi-ri-tro-vai-per-u-na-sel-vao-scu-ra. 11 sillabe. Qualsiasi verso, in qualsiasi parte del poema, rispetta i limiti dell’endecasillabo. Un canto include oltre 120 versi. Da moltiplicare questi versi con 100 canti, che danno un totale di 14230 versi. Questa è la costruzione che va avanti all’infinito, secondo dei criteri ferrei, che Dante rispetta sempre.

            O.P.: Come mai risultano 100 canti, se ce ne abbiamo sempre 33 nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso?

            L.A.: Ci si aggiunge ugualmente il primo canto, introduttivo, che ne costituisce la strada d’ingresso. Ma l’autore aveva bisogno di questo 33, perché è la cifra divina 3 (la perfezione della Santa Trinità) molteplicata: 33. Tre regni: l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. C’è, nello stesso tempo, una scommessa della simbolistica delle cifre, molto complessa, che è stata studiata con pertinenza da Ernst Robert Curtius: “La meravigliosa armonia della composizione numerica, come la troviamo in Dante, rappresenta la conclusione e l’apice di una lunga evoluzione. Dalle enneadi della Vita Nuova, Dante è passato alla costruzione artistica della Commedia Divina: 1 + 33 + 33 + 33 = 100 canti che portano il lettore attraverso 3 mondi, l’ultimo tra essi avendo 10 cieli. Le triadi e le decadi s’intrecciano, facendo nascere la perfetta unità. Qui, il numero non è più soltanto uno scheletro esterno, ma il simbolo dell’ordine (ordo) cosmico”.

O.P.: Il Medio Evo latino, ma non soltanto questo, anche il Medio Evo giudeo e quello arabo avevano questa preoccupazione di decifrare il mondo per mezzo dei numeri. Dunque si cercavano le armonie anche a questo livello.

            L.A.: Sì. Tornando alla nostra discussione, anche dal punto di vista drammatico è altrettanto complessa la Divina Commedia. Ci sono dei brani in cui Dante (come personaggio) sviene, perché non sopporta più l’estrema situazione drammatica. Ci sono momenti di unica atrocità nelle pagine della letteratura universale. Quindi la Divina Commedia è ugualmente epica, lirica e drammatica. Ti chiedo io: come si potrebbe fare un film tratto dalla Divina Commedia? Si insisterebbe soltanto sul lato epico, eventualmente… Come se ne potrebbe fare una rappresentazione teatrale? Come se ne potrebbe fare un adattamento per i bambini che vanno a scuola? Solo tagliando, assottigliando, semplificando e tradendo. Non credo che un simile gesto sia meritato da Dante e dal suo capolavoro. Forse conviene affrontare la boscaglia, spingere avanti il peso, con la nostra mente, o sollevare lo zaino. Saliamo pure la montagna, accanto a lui, invece di costringere lui a scendere in pianura e invece di trasformarlo in una lettura gradevole, di domenica, per i pigri. Dante non è per la gente comoda, è per la gente impegnata, per coloro spinti dalla curiosità, per gli istruiti. Ci servono, davvero, degli intermediari, nelle riunioni di Lectura Dantis, per commentarlo, ma non ci serve una volgarizzazione, una “castrazione” che sarebbe un sacrilegio.

            O.P.: Sarei comunque d’accordo con una volgarizzazione nel senso positivo del termine. Secondo me, si potrebbe trovare anche un Dante per l’uso dei bambini. Anche se in parte semplificato, per proteggere tuttavia i bambini dalle grandi atrocità dei particolari danteschi. (È strano, del resto, che appena si dice “dantesco”, si pensi per eccellenza all’Inferno.) Io ho conosciuto per la prima volta Dante per mezzo di Gustave Doré, nelle sue famose e allucinanti rappresentazioni grafiche – e quindi mi potrei immaginare facilmente un Dante in fumetti. Forse questo esiste già e io non lo so. Certo, senza abbassare per niente la qualità del disegno. Secondo me, ci sono tante strade per attirare i bambini, i giovani e anche gli adulti (che altrimenti ignorano assolutamente l’esistenza di capolavori così importanti) verso le grandi vittorie dello spirito. Vale la pena di non sottovalutarle. D’altronde, credo che proprio questo stiamo facendo anche noi adesso.

            L.A.: Ricordiamoci una delle prime scene del film Ginger e Fred, in regia di Federico Fellini. Vengono prese in giro le superproduzioni hollywoodiane, e ci si racconta l’incontro, alla vecchiaia, di due ballerini stanchi (interpretati da Giulietta Masina e da Marcello Mastroianni), che rappresentano infatti soltanto le imitazioni delle star americane. Nei primi momenti – nell’esplosione di vidoclip pubblicitari, nell’aggressione di luci, stravaganze e numerose eccentricità di un mondo delirante –, nel pulmino in cui i due vecchietti sono presi dall’aeroporto per essere portati alla loro brevissima esibizione, nel monitor si trasmette un teatrino delle marionette, con la Divina Commedia. Due fantocci hanno un battibecco e si tirano dei pugni in testa. Uno rinfaccia l’altro e gli grida con voce stridula: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura”. Ecco il nostro Dante ripreso in parodia, con uno spettacolo burlesco e ormai assimilato e banalizzato nella cultura dell’Italia contemporanea, un Dante minimizzato in contesti beffardi.

O.P.: Concedimi una risposta per mezzo di un esempio assomigliante, questa volta davvero hollywoodiano, il seguito della famosa pellicola Il silenzio degli innocenti: si tratta del film Hannibal. Il protagonista è lo stesso personaggio malefico, il cannibale postmoderno, che a un certo punto uccide il suo inseguitore, un commissario italiano di polizia, sul modello di un’esegesi dantesca (una specie di Lectura Dantis) e lo impicca su un balcone, facendolo pendere dalle proprie viscere, un’immagine davvero terribile (straordinariamente pensata da Ridley Scott) che continua a far venire i brividi. Il film, senza rappresentare un capolavoro, è tuttavia un bel successo, secondo me, la sua atmosfera è terrificante e nello stesso tempo illuminata dalle ombre delle facciate fiorentine, al modello delle piazze dipinte da Giorgio De Chirico. Che lo vogliamo o meno, Dante è entrato – forse di nascosto – nell’immaginario dei produttori della cultura di consumo, rendendola più bella. Comunque, tra le marionette, d’una parte, e le interpretazioni “gotiche”, dall’altra, il film può mettere in ballo delle risorse che non credo sarebbe adatto sottovalutare, nella presentazione della Divina Commedia ai nostri contemporanei. Così come si è potuto progettare in un modo affascinante la discesa di Ulisse in Ade, senza niente di vergognoso o di ridicolo, credo che la mano di maestro di un Ford Coppola o, perché no, di un Franco Zeffirelli potrebbe esprimere il grandioso capolavoro anche nelle vesti di un film. Fermiamoci però qui, per adesso, con il nostro dialogo sui tentativi di mettere a disposizione del lettore romeno un Dante nella nostra lingua. Oltre all’omaggio portato a coloro che si sono illustrati in questo campo e oltre alla valutazione critica e ben riflettuta dei risultati del loro lavoro, ritengo che anche noi abbiamo fatto un giro necessario e recuperatore. Se lo vogliamo capire quanto meglio possibile, allora dobbiamo fare dalla tradizione quello che può veramente essere: una cassa di risonanza culturale che amplifica, dà un timbro e un colore ai suoni della musica.