Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican
DANTE PARLATO
SECONDO DIALOGO
13 febbraio 2006
O.P.: Caro
Alex, abbiamo parlato delle traduzioni in romeno della Divina Commedia, però ci siamo riferiti soltanto a quelle portate a
buona fine. Forse sarebbe un atto di giustizia e di attenzione rivolta agli sforzi
concentrati sull’opera di Dante e, in essenza, sulla sua trilogia (perché di questa
stiamo parlando), discutere anche dei tentativi incompiuti per diverse ragioni.
Da quello che conosco, ci sono stati diversi frammenti e diverse varianti e senz’altro
ciascuno ne mantiene una specifica impronta. Sarà dovuto alle circostanze in cui
gli autori hanno lavorato, o rispecchia piuttosto la sensibilità di ogni autore,
o ci sarà qualcosa di tutto questo insieme?
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O.P.: Non vorrei trascurare però il fatto
che, tra i fratelli Densusianu, Aron fu colui che cercò di scrivere una poesia
originale. Forse tutto è collegato anche al suo gusto per la poesia. Perché sto
dicendo questo? Per esempio, se in Nicolae Densusianu ritroviamo una direzione stravagante,
di poeta epico, tale passione fu espressa soprattutto nell’opera di vecchiaia
dello storico che infatti fu. Mi riferisco all’ormai famosa
O.P.: Perché la valuti in modo così drastico?
O.P.: In Dante ci sono anche passi oscuri.
O.P.: Ha ignorato l’esegesi, secondo
te?
O.P.: Io rimango allora stupito
O.P.: Lo potevano trasferire presso
gli Archivi dello Stato, per farlo consultare.
O.P.: Questo
è stato più tardi…
O.P.: Dovremmo forse distinguere – come
succede nella tradizione della ricezione, tra Hegel il giovane e Hegel
l’anziano – tra il giovane Papu e l’anziano Papu. Ho letto uno studio di Edgar
Papu su Giambattista Vico e mi è sembrato assolutamente interessante. Certo,
era pubblicato su una rivista interbellica (o forse proprio durante la seconda
guerra mondiale) ed era scritto da un giovane in piena effervescenza.
L.A.: Già. La maturità gli avrà fatto male.
O.P.: Ma ti ho interrotto, volevi dire
qualcosa…
L.A.: Tornando a Dante e alle traduzioni… È
interessante notare che, al momento della sua pubblicazione, la versione di Eta
Boeriu è stata attaccata proprio da George Buznea. Come un gesto di vanità
ferita, oppure di “orgoglio e pregiudizio” ecc. Il “rivale” si arrischiava
perfino a dare delle lezioni a Eta Boeriu…
O.P.: …si buttava.
L.A.: Ebbene, per la sua spiacevole sorpresa,
ha ricevuto una risposta abbastanza tagliente da parte della graziosa
avversaria. Ecco un episodio piccante della nostra pubblicistica letteraria: sulla
rivista Tomis del 1972-1973, due traduttori romeni della Divina
Commedia “combattono in duello”. Fa
sorridere il fatto che, nonostante Eta Boeriu cercasse di mantenere la calma e
di fingere l’aristocrazia, verso la fine tuttavia gliela fa pagare, citando e commentando
in frasi secche la versione di Buznea all’inizio del famoso canto III, con l’iscrizione
sulla porta dell’Inferno. Abbiamo il testo dantesco:
“Dinanzi
a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.
lasciate ogne speranza, voi ch’entrate.”
Ed ecco la
proposta di Buznea:
“Înaintea mea nu fură lucruri create
Şi
dacă nu-s eterne, eu dăinui în veci:
Lăsaţi
orice speranţă, voi ce intraţi.”
Invece la traduttrice
di Cluj dimostra che il suo avversario ha effettivamente frainteso il secondo verso
della terzina. Dante lo diceva chiaramente: prima di me (cioè della porta dell’Inferno)
non ci furono altre cose create, all’eccezione di quelle eterne. Le cose
eterne, quindi, ci furono prima. Eta Boeriu sta spiegando: “le cose eterne essendo, secondo la concezione biblica, i cieli, gli angeli
e gli elementi, creati prima dell’Inferno, anch’esso eterno, per quanto lo
riguarda, perché era stato creato prima dell’essere umano”. La variante di
Buznea (“Şi dacă nu-s eterne eu
dăinui în veci” – “e se non sono eterne, io invece ci sono per sempre”)
è assolutamente priva di senso. Se riprendiamo il discorso in altri termini, nella
Divina Commedia ci sono tre categorie
di creazioni: le cose eterne, che ci
furono da sempre e ci saranno per sempre (i cieli, gli angeli ecc.), abbiamo
poi le cose create a un certo momento e
che dureranno in eternità (la stessa porta dell’Inferno), e ci sono poi le cose create e mortali, che nascono e
muoiono (i peccatori). Abbagliato dalla musicalità dell’ultimo verso, Buznea
perde appunto l’importantissimo senso classificatore del centro della terzina.
O.P.: Si dovrebbe capire, quindi, che
questa traduzione, difettosa qua e là, fosse effettivamente inutile? È interessante
vedere cosa stia succedendo con gli abbozzi parzialmente falliti. Ho letto non
molto tempo fa (conoscevo la situazione, ma l’ho ritrovata in una sintesi sul Rinascimento)
che i famosi affreschi di Leonardo e di Michelangelo, collocati nella stessa
sala – dove Leonardo raffigurava la battaglia di Anghiari, invece Michelangelo abbozzava
l’episodio di un’altra battaglia, quando all’uscita dall’acqua, dove facevano
il bagno, i soldati della città erano stato sorpresi dai nemici – non furono
definitivati da nessuno dei maestri. Ma si dice che abbiano servito, nella loro
contemporaneità – finché furono distrutti –, come veri modelli
O.P.: In questo senso hai affermato
che egli metteva se stesso in evidenza?
L.A.: Infatti. Da una parte, modifica –
evidentemente per ignoranza – alcuni sensi molto importanti della Divina Commedia. Da un’altra parte, si
spinge avanti e si fa vedere con troppa insistenza. Ma questo è inaccettabile. Il
traduttore deve avere la modestia di un funzionario.
O.P.: Dev’essere come una finestra
trasparente.
L.A.: Certo. Deve mettere in luce il poeta
tradotto, e non se stesso. Si tratta veramente di un mestiere ingrato, ma colui
che non sa trattenere il proprio orgoglio e non sa infrangere le proprie velleità,
non deve fare traduzioni. È libero di scrivere la sua propria opera. In
conclusione, ecco uno strano episodio: la poesia di George Buznea è fluente, è simpatica,
è espressiva (da questo punto di vista, poteva impressionare perfino qualcuno
come Edgar Papu)…
O.P.: Ma si tratta di una collaborazione
che Dante non aveva richiesto.
L.A.: Proprio così. Chi vuole conoscere
Dante, può fare a meno di George Buznea. E viceversa. Un altro cantiere intellettuale
per la traduzione romena della Divina Commedia
è dovuto a Marian Papahagi…
O.P.: Questo progetto è stato
alquanto sorprendente per me, che ho conosciuto il professor Papahagi, ho
saputo quanto si era disperso in diverse attività, come aveva cercato di costruire
l’Enciclopedia delle relazioni culturali
romeno-italiane e aveva avuto tante altre iniziative. Sono rimasto stupito
a vedere che riprendeva una traduzione che in romeno aveva ormai almeno due
versioni omologabili (penso a George Coşbuc e a Eta Boeriu). Perché mai?
Perché sente la gente questo desiderio di ritornarci sempre? Ci sono ancora, cioè,
tante altre cose da tradurre, in fin dei conti, dei testi letterari che sono sconosciuti
dalle nostre parti.
L.A.: Dalla Divina Commedia, Papahagi ha
lasciato nella sua traduzione romena i canti I-VIII, il canto X e il canto XXXIV
dell’Inferno. Tanto è stato pubblicato fin’oggi. Quindi la terza parte della
prima cantica.
O.P.: Avrà iniziato la traduzione nella
successione dei momenti della sua vita, o solo nel suo ultimo anno? C’erano dei
tentativi più vecchi di questo progetto?
L.A.: Per quanto riguarda Marian Papahagi, dobbiamo
dire che si tratta di uno tra i più importanti italianisti romeni degli anni
‘70-‘90 dello scorso secolo. Godeva di ottimi studi accademici conclusi a Roma.
È diventato poi il pilone centrale del programma di studi italiani a Cluj e il
protagonista di affascinanti riunioni di Lectura Dantis, presso la Facoltà di
Lettere dell’Università di Cluj. A questi corsi ho assistito anch’io, nel mio IIo
anno come studente universitario, e grazie a essi sono arrivato a scoprire il
poeta fiorentino. Marian Papahagi è stato un ottimo conoscitore di Dante
Alighieri e della bibliografia specializzata, un avvertito lettore e ricercatore
della letteratura italiana medioevale, e in questo campo aveva fatto perfino un
dottorato di ricerca a Bucarest. Quindi, la curiosità per Dante si include nell’ordine
normale delle sue preoccupazioni di decenni, nella principale direzione della
sua professione. Accanto a quello di critico letterario e di commentatore della
letteratura romena, questo, di medievista della cultura italiana, era un lato fondamentale
della sua occupazione.
O.P.: Aveva, secondo te, un particolare
prediletto per il Medio Evo italiano, oppure si trattava semplicemente di uno dei
campi in cui esercitava le sue preoccupazioni filologiche?
L.A.: Nella sua situazione, si trattava di
un’attività fatta con passione. Lo dico per testimonianza propria, biografica, in
quanto ho assistito ai suoi corsi minuziosi ed entusiasti, all’università, e
soprattutto a quello dedicato, per un intero anno, a Dante. Egli ci affrontava in
dettaglio la bibliografia specializzata e le connotazioni a volte sorprendenti delle
terzine. Si trattava di un eccellente conoscitore e un profondo, un informato
studioso della Divina Commedia.
O.P.: Mi sia perdonata l’ignoranza, ti
chiedo un chiarimento. Questi corsi si svolgevano davvero in italiano o in romeno?
L.A.: In italiano, certo. Parleremo subito dello
specifico di tali corsi: che cosa vuol dire davvero Lectura Dantis. Si tratta di
una nuova disciplina, inaugurata da Boccaccio nel Medio Evo.
O.P.: Ma allora non è proprio così
nuova…
L.A.: Cioè si tratta di qualcosa di inedito, in
un senso scientifico che chiariremo fra poco… O possiamo affrontare proprio
adesso l’argomento?
O.P.: Perché no? A me interessa
sapere se si tratti semplicemente della lettura dei testi di Dante, oppure se si
faccia anche l’interpretazione dei versi.
L.A.: Dicevo l’altra volta che Dante si
era proposto ed era riuscito a scrivere un altro Libro Sacro. Un’altra
Bibbia, che affronta l’universo da un punto di vista letterario. Abbiamo qui alcune
cose specifiche, che non si ritrovano in nessun altro volume. La Divina
Commedia deve essere letta diversamente
da qualsiasi altro libro. È per questo che diventa un’esperienza unica. Ma come
mai si deve leggere diversamente? Partendo dagli elementi più banali. Di solito,
leggiamo da sinistra a destra. Alla fine, voltiamo la pagina. Dopo aver
percorso le pagine, finiamo il libro. Ebbene, no! Con la Divina Commedia non è così che si deve fare! Essa è strutturata in terzine
(cioè in gruppi di tre versi). Ti leggi una terzina. Quando ne stai leggendo la
seconda, ti vengono le vertigini. Alla terza sei perso nello spazio. Dalla quarta
in poi ti tormenti per niente, perché non capisci più nulla. Se cerchi di
leggere la Divina Commedia in mod
tradizionale, da sinistra a destra, come qualsiasi altro libro, non hai assolutamente
nessuna possibilità di farcela. Chiunque tu sii.
O.P.: Nessuna possibilità di capirla
o di andare avanti?
L.A.: Tutt’e due. Se cerchi di avanzare in
modo “tradizionale”, dopo le prime pagine butti via il libro e rinunci per
sempre alla lettura di Dante. Ma allora come si deve fare? Ti leggi la prima
terzina (i primi tre versi). Dopo questo, vai giù, a piè di pagina, e leggi le
spiegazioni per quella determinata terzina. Poi ritorni e riprendi, “arricchito”
dalle spiegazioni, la terzina appena letta. Soltanto dopo questa seconda lettura
cominci a capire le grandi linee del senso. Successivamente, per gli altri particolari,
devi riorganizzare l’ordine
delle parole, all’interno della terzina letta. Un tratto interessante della
Divina Commedia è che l’autore si diverte
con un “gioco” intellettuale frequente nel Medio Evo. E cioè, nella lirica
medievale possiamo trovare la struttura tipo puzzle. Che cosa significa
questo? L’ordine delle parole è mescolato,
non rispetta più la regola “normale”. Sia in romeno che in italiano, abbiamo di
solito questa costruzione sintattica: Soggetto
+ Predicato + Circostanziali. Per esempio: “Il bambino viene a scuola
felice in pullman ogni mattino insieme a suo
fratello”. E allora capiamo di che si tratta. Ma Dante non dice così. Egli
fa: “Con fratello felice suo pullman il
bambino a scuola viene mattino ogni”.
O.P.: Lo dice così perché è italiano,
oppure perché è poeta?
L.A.: Lo dice così perché questa è una delle sfide
della poesia medievale. Essa si deve esprimere esteticamente: non soltanto trasmette
le realtà dell’anima, in modo transitivo, ma usa anche in modo artistico la
costruzione.
O.P.: Questo appartiene dunque alla convenzione
medievale…
L.A.: Sì, lo ritroviamo anche in altri poeti
(come Petrarca, per esempio), ma Dante lo spinge fino al sublime e lo assume
come una scommessa artistica. Ecco per esempio la seconda terzina della Divina
Commedia. Che cosa ci dice
infatti? Che la selva selvaggia (in cui il protagonista si è perso) è così
aspra e forte che riaccende la paura, nel ricordo. E come si esprime il poeta,
per mezzo della struttura puzzle,
cambiando l’ordine delle parole?
Ahi
quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
O.P.: Perché, a un certo punto,
Ramiro Ortiz dice nella prefazione alla traduzione di Coşbuc, che egli aveva
curato, che Dante è davvero cifrato, pieno di allusioni, difficile anche per i
suoi contemporanei. Dunque non si tratta solo di una convenzione e non si tratta
nemmeno soltanto della distanza tra Dante e i nostri tempi.
L.A.: Un attimo! Questo è già un altro
argomento! Io mi riferisco adesso al livello strettamente sintattico: della disposizione
delle parole in frase e in terzina. Se mi prendo la terzina, la leggo da sinistra
a destra e cerco di intenderla, mi sarà quasi impossibile farlo. Potrò dire: non
importa, è una stranezza, la prossima terzina la capirò meglio. Ma la prossima è
ancora più cifrata, ancora più aggrovigliata. Dalla terza in poi mi viene la disperazione!
Dalla quarta in poi, perdo tutte le mie speranze e rinuncio alla lettura. Che cosa
c’è da fare allora? Leggo una prima volta, seguendo l’ordine sintattico proposto
da Dante, vado a piè di pagina, là mi ritrovo la decifrazione “normale”, poi ritorno
e mi godo questo gioco di puzzle che ha
edificato l’autore, il quale ha mescolato apposta le parole nella terzina.
O.P.: C’è anche un’altra soluzione: prendo
la traduzione in prosa di Alexandru Marcu. Egli chiarisce le cose, no?
L.A.: Sì. Ma non dobbiamo aggrapparci ora a
Marcu. Andiamo avanti. Non soltanto si deve sciogliere l’ordine sintattico della
terzina, ma la stessa terzina, a livello semantico
questa volta (perché prima ci siamo riferiti al
livello sintattico) sovrappone diversi
sensi, diversi significati. Questa sovrapposizione non è casuale, fortuita.
Dante ce lo dice nel suo libro Convivio,
seguendo il modello offerto da San Tommaso d’Aquino, quando si riferisce al testo
della Bibbia. Lo stesso brano si può leggere per almeno quattro punti di vista
diversi: letterale, allegorico, morale e anagogico. Il senso
letterale si trova alla superficie del testo, è quella storia che il poeta, per mezzo
delle parole, mette alla disposizione del lettore. Il
senso allegorico si nasconde sotto le apparenze della storia superficiale, è
quella “bella menzogna” di cui si serve l’artista. Il senso morale ci trasmette
l’insegnamento di carattere generale-umano. Il senso anagogico – o il soprasenso
– si riferisce al simbolico anticipo della vita dell’aldilà, è il messaggio
profetico sulla felicità futura. Ecco che ogni passo della Bibbia, secondo Dante,
deve includere questi quattro livelli di comprensione. Ma Dante voleva creare una
nuova Bibbia, quindi non ci stupiremo a trovare tutt’una serie di sensi sovrapposti,
nella stessa terzina. Possiamo leggere i suoi versi dal punto di vista letterale
(e allora seguiamo il filo epico della storia che ci viene detta), ma anche dal
punto di vista storico (e allora dobbiamo rifare il contesto del personaggio a cui
si riferisce quella determinata terzina), ma anche dal punto di vista morale (che
insegnamento ci trasmette l’autore, quale peccato concreto ci avverte di
evitare o verso quale virtù ci spinge ad avviarci), dal punto di vista anagogico
(delle virtù sacre incluse o evocate per mezzo del testo).
O.P.: Secondo te, oggi la poesia avrà
perso dalla complessità dimostrata nella concezione di Dante?
L.A.: Senz’altro. Prima di tutto, abbiamo
perso questa centralità intoccabile della sacralità della poesia. Il messaggio
sacro era il “monopolio” del Medio Evo. Dal Rinascimento in avanti, la sacralità scivolò
sempre più verso la figura di un deus otiosus, il quale
soprattutto nella cultura, progressivamente, diminuì la sua importanza.
O.P.: La mia opinione è che puoi
trovare tuttavia, per esempio, un Hölderlin che recuperi questi sensi. Oppure,
in un periodo più vicino a noi, lo stesso succede in una poesia apparentemente
ermetica, come quella di Ezra Pound. Il quale, non per caso, fu profondamente
affezionato all’Italia, fino a diventare, agli occhi della maggior parte della
gente, in quel momento, alla fine della guerra, un nemico odioso, in quanto egli
aveva appoggiato, a modo suo, il regime di Mussolini.
L.A.: Sì. È vero. Si era attirato perfino i fulmini
degli americani.
O.P.: L’hanno chiuso in una gabbia e
gli hanno sputato addosso per giorni, se ben ricordo.
L.A.: Anche Louis-Ferdinand Céline ha ricevuto
una “pioggia” di pomodori fetidi e di uova alterate che l’hanno completamente
depresso.
O.P.: Ma io mi riferivo a quei Cantos,
come li intitola Pound, in cui
mi è sembrato di scorgere, oltre alle più diverse alluvioni culturali (gli
ideogrammi cinesi, l’Oriente, l’Antica Grecia, l’Italia del Medio Evo, la poesia
provenzale), che si ritrovi qualcosa dell’atmosfera aurorale del poeta ispirato
dagli dei, che Heidegger sta celebrando nella persona di Hölderlin, quando
prende come punto di riferimento le sue digressioni filosofiche.
L.A.: Il problema non è quello dei generici riferimenti
intertestuali di una poesia, nel suo insieme, che invia il nostro pensiero in diverse
direzioni. Si tratta effettivamente del
livello “micro”, di una terzina, che crea in modo sovrapposto diversi strati di
significato. Una cosa del
genere non so se si possa trovare ancora in altre parti, tranne la Bibbia e la
Divina Commedia. Comunque io, almeno, non
ho più trovato niente di questo tipo. Non parliamo quindi delle globali
scommesse intertestuali, ai parametri dell’intero testo, bensì di quelle che si
ritrovano al livello di ogni canto, di ogni terzina o addirittura della parola.
Tutto viene costruito, in modo deliberato, per includere una semantica plurale.
Se completiamo tutto questo, dal punto di vista sintattico, con la struttura
tipo puzzle, aggiungiamo poi l’insieme
delle informazioni sull’antichità, la filosofia, la storia, le mentalità e i
costumi, i delitti e le pene, la storia e la dottrina della Chiesa ecc. ecc., tutti
i dati che vengono a ritrovarsi nel poema dantesco – ebbene, diventa assolutamente
impossibile a un lettore comune stare attento a tutto quanto! E allora il
problema è: a chi si rivolge Dante?! Ma a tutta la gente! Il suo testo si apre come
un ventaglio. Coloro che se ne avvicinano con un approccio elementare, si
godranno il livello letterale e si divertiranno delle avventure vere e proprie.
Coloro che hanno certe letture sulla storia italiana del Duecento e del
Trecento, oppure sulle eresie, dei movimenti sociali medievali, potranno assaggiare
questi aspetti. Coloro, per esempio, familiarizzati con la filosofia di San Tommaso,
che vogliano ritrovarla, o indagare le grandi influenze di Virgilio e dell’Eneide
nella Divina Commedia, potranno esaminare il lato di classicista di
Dante. Questo fu fatto, per esempio, da Niccolò Tommaseo, che avevamo ricordato
prima. Nel suo commento, che risale all’Ottocento, egli insistè proprio in
questa direzione, delle vaste conoscenze dantesche sulla letteratura classica
latina e sulla filosofia medioevale.
Ecco che Dante si può apprezzare a diversi livelli. Ma per quanto si fosse esperti,
non si puo conoscere tutto! Se ci si butta a leggerlo d’un solo fiato, da grandi
ingenui, molto orgogliosi delle proprie capacità di lettura e delle competenze
intellettuali – si smarrirà la strada giusta! Quindi, si legge una terzina, si va
a piè di pagina, si legge il commento che chiarisce i sensi, e poi si torna al
testo iniziale. Aggiungiamo che anche i commenti possono essere costruiti in modi
estremamente diversi. Ne possiamo avere uno di natura epica, letterale, in cui
effettivamente ci si racconta in prosa il contenuto del verso. È molto utile
qualcosa del genere! Un primo
approccio. Non se ne può fare a meno. Ma ci sono commenti di carattere storico,
o filologico, o filosofico ecc.
O.P.: Dipende da chi li stia facendo.
L.A.: Certo.
O.P.: O se non si trattasse, per
caso, del deficiente personaggio Sior Simplizianus, del nostro poeta Budai-Deleanu.
L.A.: No, Sior Simplizianus non ci può stare
per nulla. Mica siamo a livello di parodia. Possiamo avere, infatti, anche una
parodia intelligente alla Divina Commedia,
ma per questo dobbiamo prima conoscere benissimo il testo iniziale. Per esempio
George Topârceanu ha fatto delle parodie straordinariamente divertenti, approposito
dei canti I e III dell’Inferno. Dante
e Virgilio sono trasformati in personaggi caricaturali: il poeta romeno scorge
un’ombra “cu profil de babă”
(con profilo di strega), lo stesso confratello fiorentino, che consente a
malapena, dopo squisiti rimproveri, a guidarlo verso il mondo dell’aldilà. Arrivati
davanti alla porta dell’Inferno, i due si prendono una fifa blu, entrambi, non hanno
il coraggio di entrare e ci stanno a spiare dentro, a vicenda, attraverso una
fessura.
O.P.: Pensavo che lo stesso Budai-Deleanu,
quando aveva composto le sue note ironiche a piè di pagina, forse per completare
il capolavoro, avesse usato come modello una simile tradizione.
L.A.: Può essere una ipotesi. Ma per un’edizione
di Dante, le note a piè di pagina sono di una serietà atroce. Tommaseo ci mise,
ripeto, 40 anni di lavoro assiduo.
O.P.: Dunque consideri che, senza questo
apparato critico, Dante sia impossibile da leggere? O da capire?
L.A.: Andiamo avanti. Non soltanto ci vuole l’apparato
critico. Ma altri libri, generalmente, si leggono in solitudine. Qualcuno si prende
il volume, si ritira in un angolo e “sta a chiacchierare” con l’autore, per via
ideale. Questa cosa non succede però con la Divina
Commedia, a causa proprio della sua complessità, delle allusioni nascoste e
della inebriante e affascinante sovrapposizione dei sensi di lettura. Per cui
non si tratta di un libro come tutti gli altri, perché se lo stai leggendo in
solitudine, non arrivi molto lontano. Ti dà fastidio, ti fa arrabbiare e lo
butti via. Non ce la fai. Ti serve una guida. Come lo stesso Dante è stato guidato
da Virgilio per la sua strada, così anche
il lettore – di oggi o di domani – ha bisogno di una guida. Questa cosa fu
perfettamente capita da Boccaccio, il quale inaugurò la disciplina di
cui stiamo parlando adesso: Lectura
Dantis (“La lettura di Dante”). Di che cosa si tratta? Il prosatore cominciò
a spiegare in pubblico la Divina Commedia,
su incarico ufficiale del Comune di Firenze, il quale voleva in un certo senso
sdebitarsi nei confronti di Dante, che aveva mandato in esilio e a cui aveva
provocato una terribile amarezza, lungo la sua tormentata esistenza. Una forma
di riparazione fu anche questa, di pagare a Boccaccio una cifra, per fargli
fare delle letture dantesche ad alta voce. E allora la domenica, alla fine
della messa in chiesa, Boccaccio si faceva avanti, leggeva la terzina ai fedeli,
si fermava e gliela spiegava.
“Nel mezzo
mi
ritrovai per una selva oscura
ché
la diritta via era smarrita.”
Qui l’autore
parla
O.P.: La nostra vita viene vista come
una strada. Un cammino per cui avanziamo. E cominciava così il dialogo o forse
il monologo per l’uso degli ascoltatori.
L.A.: Questo è il senso superficiale. Ma se
pensiamo alla Bibbia, la quale spiega che “Gli anni della nostra vita sono
settanta” (Salmi, 89, 10)… E Dante
non parla della metà della “mia” vita, ma della “nostra” vita. Egli intende la
vita generica di una persona. La metà di 70 è 35. Se Dante è nato nel 1265, vuol
dire che il suo viaggio è accaduto nel 1300. Ecco che, ormai oltre al primo
senso, affrontiamo problemi di natura biografica, intertestuale (devi
rileggerti la Bibbia per intendere l’analogia) ecc. Ma possiamo tener conto
anche degli elementi di carattere storico: nel 1300 fu organizzato il primo grande
pellegrinaggio giubiliare. Il Papa Bonifacio VIII decretò l’assoluzione dei peccati
per tutti coloro che si sarebbero incamminati verso Roma, per ritrovare la vera
fede. Alcuni partono per la Roma geografica, altri, come Dante, fanno il pellegrinaggio
verso la Roma simbolica, dell’aldilà… Ma il viaggio alla scoperta del Paradiso
vale per una fuga davanti al peccato (lettura morale), una riscoperta della grazia
di Dio (lettura anagogica). La spedizione inizia al “mezzo del
cammin di nostra vita”, cioè al punto di massima maturità e abilità
personale, allo zenit dell’esistenza (lettura allegorica) ecc.
O.P.: Non credi che la Chiesa potrebbe
fare, con grande utilità, anche adesso, letture
L.A.: Ti confesso di aver proposto al
posto locale di radio ecclesiastica “La Rinascita” un ciclo di trasmissioni dal
titolo Lectura Dantis, in cui mi
impegnavo a riprendere il poema dantesco e a decifrarlo. Secondo me, quello che
Boccaccio aveva fatto nel Medio Evo in chiesa, avrei potuto anch’io fare in una
radio cristiana, certamente nel senso di una lettura ecumenica.
O.P.: Forse hanno avuto paura di un
punto di vista troppo cattolico.
L.A.: Purtroppo non ci sono riuscito fino in questo
momento. Sarebbe stata una cosa estremamente interessante. Ma andiamo avanti:
“mi ritrovai per una selva oscura”. Notiamo
il passaggio dalla Ia persona del
plurale (la nostra vita) alla Ia
persona del singolare
(mi ritrovai). Chi è che parla qui? L’io
lirico? Il narratore? Il narratario? L’autore? Ambiguità… E cosa vuol dire
“mi ritrovai”? Il protagonista si trova
veramente in una selva (livello letterale di comprensione)? Il protagonista si
immagina di trovarsi in una selva (livello immaginario di comprensione)? Il
protagonista sogna di trovarsi in una selva (livello onirico di comprensione)?
Non lo sappiamo… Ma che cosa significa questa “selva oscura”? È davvero una selva,
a livello letterale, cioè sto “vedendo” una persona che cammina per la
foresta. Oppure si tratta della selva del
peccato. E allora Dante ci dice che alla metà della vita è stato vinto dal peccato,
a tale punto che la strada della virtù non gli era più accessibile (“la diritta via
era smarrita”). E
l’autore ci esprime le sue esitazioni in campo della fede. Ecco che ci
allontaniamo, pian piano, dall’argomento di un’esperienza strettamente
personale, verso una storia generalmente umana. Ma se non c’è qualcuno che possa
avvertire su tanti sensi sovrapposti, qualcuno che reciti la terzina, che
disponga le parole nel loro ordine normale, che spieghi i particolari agli altri
e che riprenda eventualmente, in seguito, la terzina, questa volta da un altro
punto di vista, così che faccia capire, in seconda lettura, almeno una parte dei
sensi nascosti, il piacere intellettuale non si raggiunge con una semplice valutazione
individuale. La Divina Commedia si
deve leggere, prima di tutto, in pubblico. Ecco un altro tratto affascinante di
questo libro: a differenza di tutti gli altri, scritti lungo la storia della
civiltà umana, che si devono cogliere nell’intimità del proprio intelletto, il
quale entra in contatto con l’intelletto di colui che ha steso le parole sulla
carta, la Divina Commedia si deve “assaggiare”
in pubblico, per mezzo di un lettore avvertito, che apre gli occhi e la mente a
coloro che lo stanno ascoltando. Questo tipo di riunione si chiama
Lectura Dantis. È uno “spettacolo” che si
organizza a partire dal Boccaccio, dal Trecento, fino ai nostri giorni, dappertutto
dove ci sono cattedre di lingua e di letteratura italiana. C’è perfino una
tradizione rinsaldata: lungo la settimana, la giornata di venerdì è dedicata di
solito a tale lettura ad alta voce, davanti a un pubblico più o meno avvertito,
di italianisti, che desideri conoscere e godersi il testo letterario. Anche per
questo, la Divina Commedia è una
seconda Bibbia. Così come la Bibbia è letta ad alta voce, dal prete, in chiesa,
e poi viene accompagnata dalla predica esplicativa, la Divina Commedia è
oggi giorno, fino a un punto, una Bibbia laica. È
quella scrittura che, a scuola, all’Università, è letta, è recitata, è spiegata
davanti al pubblico, a cui vengono chiariti i sensi nascosti, secondo le
competenze della persona che svolge questo corso, questa specifica disciplina.
Insomma, ecco un altro tratto che fa così speciale il poema di Dante. Un banale
volume viene letto una volta sola. Ci scopriamo alcune cose. Il libro ci piace o
meno. Lo concludiamo. Forse lo rileggiamo un’altra volta
dopo cinque anni. Ci piacerà di meno, perché le cose ci sono già note. Dopo
sette anni, quando lo rileggiamo la terza volta,
il nostro piacere è sicuramente ancor più piccolo. Si va in diminuzione, di solito,
per quello che riguarda un libro di letteratura. Invece con Dante, la strada è esattamente
contraria: in prima lettura non ci piace, è straordinariamente difficile, ci
serve uno specialista che ci dia una mano, dobbiamo fermarci a ogni terzina, dobbiamo
scendere a piè di pagina, dobbiamo tornare, dobbiamo riprendere la stessa terzina,
passare alla successiva, poi ritornare alle prime due: avviene sempre un
movimento circolare, non si va da sinistra a destra, la lettura non avanza
“normalmente”. E non possiamo leggere più di due-tre pagine, per la straordinaria
densità. La seconda volta – dopo aver già percorso
la strada – il nostro accesso è alquanto più facile. La terza volta
non dobbiamo più scendere a piè di pagina, perché ormai conosciamo alcuni
sensi. La quarta e la quinta volta superiamo
il problema del
senso e cominciamo a goderci l’aspetto lirico, l’effettiva bellezza della superficie.
(Poiché non possiamo apprezzare qualcosa all’insaputa, prima dobbiamo per forza
capire e, soltanto in seguito, potremo assaporare.) Ecco perché io sostengo, con
risolutezza, che la Divina Commedia comincia
a piacerci soltanto dopo la sesta, la settima lettura. Per non parlare dei
grandi fanatici, o dei grandi ammiratori che…
O.P.: …la leggono
sempre…
O.P.: Oppure te stesso! Quanti ne
sai a memoria?
L.A.: Anche questa è un’esperienza interessante,
piuttosto di carattere personale. Sono stato ricoverato, qualche anno fa, con un
problema abbastanza complicato e doloroso. Siccome avevo già l’abitudine di stare
sveglio a leggere, in tarda nottata, purtroppo non c’era più questa possibilità
in ospedale. Mi trovavo in un reparto collettivo, dove la luce si spegneva verso
le 10. Gli altri non potevano accettare la luce accesa dopo quell’ora. Invece
io, abituato alla veglia notturna, sentivo di impazzire così, a non fare più nulla
nel buio, con gli occhi spalancati. Allora, per togliermi la noia, nonché la
rabbia per la situazione che mi costringeva all’inattività intellettuale, ho
cominciato a ripetere nella mente i versi della Divina Commedia. A un certo momento, visto che facevo sempre degli
sbagli, ho avuto l’ambizione di imparare a memoria il più grande numero
possibile di versi. Ho preso un quaderno e, al buio, scrivevo i brani e, il
giorno dopo, con la luce, facevo il paragone con il testo che avevo in borsa e
correggevo, là dove ci rimanevano ancora piccoli errori di memoria. Così, dopo quasi
tre settimane, sono riuscito a imparare in modo fluente l’intero canto I dell’Inferno, ma anche frammenti più espressivi
dei canti III e V. Fortunatamente per me e sfortunatamente per Dante, il mio
ricovero in ospedale si è concluso dopo quei brani…
O.P.: Ma capisco che il ricovero ti
ha dato l’occasione di imparare alcuni canti dell’Inferno. Non hai pensato di imparare anche brani del Paradiso?
L.A.: No. L’Inferno è la parte che, dal
punto di vista estetico, io amo di più.
O.P.: Vorrei dire qualcosa a
proposito delle situazioni così interessanti che hai indicato prima, sulla Lectura
Dantis. Questo conferma la mia convinzione
che Dante appartiene tuttavia – fondamentalmente e fino all’ultimo orizzonte – al
Medio Evo che, per quanto riguardava la relazione
con il libro, era per eccellenza una civiltà dell’oralità. Le pubbliche letture,
che vanno avanti fino ai nostri giorni sempre così, ricordano – anche quando a
base si trova un manoscritto – le esibizioni di un personaggio centrale, ch’era
il trovatore o il trovero. Egli si faceva circondare dalla gente, cantava,
recitava, si fermava, commentava in prosa, ascoltava le risposte o era
accompagnato. C’era tutt’una partecipazione collettiva. Penso che il destino
della poesia dantesca, da questo punto di vista, si avvicini a un nuovo giro
della spirale storica, perché dopo che abbiamo conosciuto il periodo di
Gutenberg, della stampa per tutti, diffusa tra la folla e diventata accessibile,
oggi, con internet, con la televisione, con la radio, di cui ti volevi far
aiutare per giusta ragione e forse anche istintivamente, Dante può entrare in
una nuova epoca dell’oralità. Mi sembra un destino non ancora concluso. E
questo ci dice una cosa essenziale su tale poesia, sull’autonomia delle terzine,
sulla periegesi testuale: alzare lo sguardo al testo, scendere a piè di pagina,
allontanare successivamente i sensi sconosciuti, petalo dopo petalo, per arrivare
a un nocciolo più profondo, tutto questo mi evoca un destino assolutamente interessante.
Non mi stupirei se in diversi paesi ci fossero ormai i CD con le registrazioni
di Dante. Sarebbe interessante sapere questo.
L.A.: Sì. Ce ne sono, senz’altro. Ho anch’io
un CD con una recitazione celebre. Ho ugualmente un’imponente collezione di audiocassette
con letture di versi danteschi. Ci sono persone specializzate in Lectura Dantis,
per esempio un Vittorio Sermonti, che punta sulla declamazione dei versi, insistendo sulla
loro risonanza artistica, sul loro impatto, e non proprio sull’arresto dopo ogni terzina,
sulla spiegazione ecc.
O.P.: Come si recita?
L.A.: Come qualsiasi poesia: si declama. Abbiamo
ugualmente un gruppo di immagini impressionanti in internet, per esempio, con
lo stesso Vittorio Sermonti mentre coordina una riunione di Lectura Dantis davanti a Papa Giovanni Paolo
II, in Vaticano. Ma là c’era un altro scopo, probabilmente artistico, dell’impatto
sonoro dei versi, e non quello pedagogico, che il professor Marian Papahagi cercava
di raggiungere tempo fa e che sto facendo adesso io, da quindici anni, con i miei
allievi. Lectura Dantis: ci fermiamo
dopo ogni terzina letta in italiano, la traduciamo in romeno (ovviamente in prosa
e con insistenza sui significati), e poi proviamo insieme a commentare, passo per
passo, nei limiti concessi dal tempo a nostra disposizione.
O.P.: Per anni ho fatto la stessa
cosa con i vecchi testi romeni. Con la cronaca solitamente attribuita a Grigore
Ureche e di cui io, insieme ad alcuni ricercatori, credo (crediamo) che sarebbe
piuttosto la compilazione di Maestro Simone (Simion Dascălul). Si sta perdendo
qualcosa, in una lettura solitaria e superficiale. Davvero i livelli separati si
possono capire meglio così, insieme, ad alta voce, in un gruppo composto,
preferibilmente, di un piccolo numero di persone. Ma, dopo questo lungo e del resto
utile giro, tornerei al tentativo di traduzione di Marian Papahagi, di cui scopro
soltanto adesso che si fondava in realtà su una precedente vocazione di dantista,
esercitata nello spazio dei suoi corsi.
L.A.: Certo. Egli ha insegnato Lectura
Dantis per 20 anni circa, alla
cattedra di italiano della Facoltà di Lettere di Cluj. Era un affascinante e avvertito
specialista di Dante, e aveva spiegato il grande poeta a tanti giovani italianisti…
O.P.: Tra loro, oltre a te, parla
ancora qualcuno di Dante oggi?
L.A.: Io stesso mi ritengo uno tra i suoi iniziati
all’opera dantesca. Nonostante i maggiori conflitti che ho avuto successivamente
con Marian Papahagi e nonostante i miei interventi sulla stampa, quando sono
stato costretto a mettere in luce fatti riprovevoli e tratti di carattere spiacevoli
del mio ex-professore,
non nascondo tuttavia la mia riconoscenza nei suoi confronti, perché ha aperto davanti
ai miei occhi questa strada feconda…
O.P.: Ci sono altri tuoi colleghi in
Romania che parlano oggi di Dante o fanno questo tipo di lettura in classe?
L.A.: Non potrei dirlo con precisione. Lo so
però che di recente è stato pubblicato a Iaşi
il libro di Dragoş Cojocaru, La natura
nella “Divina Commedia”. Studio storico e comparativo, un’informata tesi di
dottorato di ricerca.
O.P.: Ma allora, tornando alla traduzione,
secondo te, quello che è rimasto dal tentativo di Papahagi rappresenta in
realtà una versione finale, o è stato fatto lungo gli anni?
L.A.: Si tratta di una successiva “sedimentazione”.
Lui lo confessa anche in uno scritto: mentre stava traducendo e commentando con
gli studenti all’università, lungo gli anni, ha pensato di dare una variante
romena della Divina Commedia. La sua
traduzione è fondata, come dicevo, su una conoscenza profonda e sottile dell’intero
poema, che egli ha frequentato per decine d’anni. Al periodo medioevale ha dedicato
anche un dottorato di ricerca. Il problema con Papahagi è che lui non è stato
un poeta. È stato un erudita, senz’altro. Sono da leggere con massimo interesse
le note spiegative che fa ai versi danteschi. Ma le terzine stesse, tradotte da
lui, sono alquanto secche e prive di poeticità: il professore insiste sugli aspetti
semantici dei versi e meno su quelli lirici. È interessante il modo in cui un
traduttore riesca a trasporre la sua personalità intellettuale nel proprio
lavoro. Se la versione dantesca di Eta Boeriu è soprattutto lirica, invece i
dieci canti su cento che Marian Papahagi ha tradotto sono piuttosto scientifici,
dotti. Ecco un altro strano particolare collegato al nostro argomento. In quegli
anni – che la maggior parte dei nostri concittadini ha dimenticato, ma noi, se facciamo
ancora un piccolo sforzo di memoria, glieli possiamo riportare, con tutto il
loro terrore di una volta, sotto gli occhi – negli anni ‘80 faceva molto freddo
nelle case della gente, la corrente elettrica si interrompeva, si faceva la fila
per il cibo, per i prodotti di base, c’era una terribile penuria. Uno dei
problemi che andavano insieme alla crisi generale era la situazione della benzina.
Qualsiasi proprietario di macchina aveva il diritto mensile di comprarsene 10
litri. Oltre a questo (alcuni forse se lo ricordano ancora, e se invece no, allora
glielo ricordiamo noi), in fine settimana si poteva usare la macchina soltanto
due volte al mese. Un weekend andavano per le strade solo le macchine targate
con numero pari, la
O.P.: L’automobilismo comunque ne
soffriva tanto.
L.A.: Sì, l’automobilismo era in agonia! Ma,
nonostante i successivi divieti, la benzina non si trovava comunque. C’erano le
code apocalittiche. Spesse volte gli autisti rimanevano a secco e spingevano la
macchina fino al distributore, la sera precedente a un piccolo viaggio. Stavano
in fila, lungo l’intera nottata, fino al mattino dopo, per comprare quei 10
litri che gli spettavano. (Vorrei ricordare questi idillici episodi a tutti i
nostalgici del comunismo, che ci saranno ancora nel nostro Paese. Allo stesso tempo,
riferisco di queste meravigliose vittorie della società progressista a tutti gli ammiratori
del Partito Comunista Italiano, seguaci del
compagno Palmiro Togliatti, il pupazzo di Mosca, nonché
dell’infaticabile compagno Fausto Bertinotti, capo del movimento chiamato Rifondazione
Comunista.)
O.P.: Comunque, loro ti potrebbero rispondere
facilmente che Ceauşescu non c’entrava per niente, e tutto era solo l’effetto
della crisi mondiale dei combustibili.
L.A.: Sì, però la crisi mondiale dei
combustibili non ha convinto i comunisti italiani a spingersi le macchine, a
piedi, durante le sere, e a stare fino al mattino davanti al distributore di
benzina. Soltanto il comunismo romeno ha raggiunto questi bei successi. I comunisti
italiani, in eterna opposizione, si facevano il pieno molto sereni e, tra i denti,
bestemmiavano i danni mondiali del
capitalismo imperialista… Ebbene, tornando al nostro argomento, nel periodo in
cui Marian Papahagi faceva la fila in macchina, negli anni ‘80, lungo la notte,
per comprarsi i 10 litri di benzina, si recitava in mente i versi e contava con
le dita gli endecasillabi danteschi, per rifare la misura.
O.P.: Potrei capire che le code gli
sono state comunque utili!
L.A.: Mentre faceva la fila per la benzina, ha
“alimentato” anche le sue traduzioni di Dante in romeno. Ma se io sono rimasto in
ospedale finché ho imparato a memoria soltanto il I canto dell’Inferno, per
Marian Papahagi – se mi concedi una battuta cinica – probabilmente il comunismo è finito
troppo presto, perché lui è riuscito a tradurre soltanto il 10% della Divina
Commedia.
O.P.: Adesso mi preme di farti
un’altra domanda. Abbiamo in romeno delle trasposizioni della Divina Commedia
per i giovani, come ce ne sono per l’Iliade o per l’Odissea? Da quello che
so, E. Lovinescu si è occupato dell’Odissea, l’ha trasposta, forse ne ha fatto un
riassunto, in prosa vivace. Abbiamo qualcosa del genere per Dante?
L.A.: In Italia ce ne sono. Là c’è
quest’abitudine di trasporre in prosa e di raccontare l’intera “storia” epica del
poema, soprattutto sui libri di testo. Ma si tratta di una falsificazione del
capolavoro, che finisce ridotto solo al suo lato epico. Parlavamo poco fa dell’unicità
della Divina Commedia: essa si deve
leggere non “da sinistra a destra”, ma in modo circolare; essa si deve leggere
non da soli, ma in pubblico; essa si deve leggere non una sola volta, ma ripetutamente.
Un altro tratto interessante è collegato al suo specifico, per quanto riguarda i
generi letterari. Conosciamo tutti e tre: l’epico, il lirico e il drammatico. L’epico
si esprime in prosa, ha personaggi e un filo dell’azione. Il lirico si ritrova in
poesia, ha versi, rima e figure stilistiche. Il drammatico avviene sul palcoscenico
e coinvolge un dibattito intenso, tormentato, delle situazioni straordinarie. Il
problema è di capire com’è la Divina Commedia:
epica, lirica o drammatica? Ebbene, qui abbiamo la sintesi di tutti e tre i generi
letterari! È epica perché ha almeno tre personaggi principali: Dante come protagonista,
Virgilio e Beatrice come guide. Ha perfino una grande complessità epica, narratologica:
c’è un personaggio Dante, ma c’è anche un narratore Dante, ma c’è anche una presenza
vera, storicamente confermata: Dante come persona. Ecco un’interessante immagine
nello specchio, che conferma la complessità della costruzione epica. La
Divina Commedia è lirica perché è disposta
in versi. Ogni verso ha 11 sillabe. È disposta in terzine (gruppi di tre
versi). Ha la terza rima (cioè gruppi
di tre rime). Sarebbe forse interessante spiegare brevemente che cosa significa
questo particolare nella versificazione. Ecco alcune righe dell’inizio del poema,
a cui ho messo in evidenza le parole di fine verso, per poter sottolineare con
più grande facilità il modo in cui si costituisce la terza rima:
Nel mezzo del cammin di nostra vita |
(1) |
mi ritrovai per una selva oscura, |
(2) |
ché la diritta via era smarrita. |
(3) |
Ahi quanto a dir qual era è cosa
dura |
(4) |
esta selva selvaggia e aspra e forte |
(5) |
che nel pensier rinova la paura! |
(6) |
Tant’è amara che poco è più morte; |
(7) |
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, |
(8) |
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. |
(9) |
Io non so ben ridir com’i’
v’intrai, |
(10) |
tant’era pien di sonno a quel punto |
(11) |
che la verace via abbandonai. |
(12) |
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle
giunto, |
(13) |
là dove terminava quella valle |
(14) |
che m’avea di paura il cor compunto, |
(15) |
guardai in alto e vidi le sue
spalle |
(16) |
vestite già de’ raggi del pianeta |
(17) |
che mena dritto altrui per ogne calle. |
(18) |
Allor fu la paura un poco queta, |
(19) |
che nel lago del cor m’era durata |
(20) |
la notte ch’i’ passai con tanta pieta. |
(21) |
Il canto inizia con la rima dei
versi 1 e 3: vita – smarrita. Facciamo un passo
indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 2, 4,
6: oscura – dura – paura. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso
precedente la rima, che continua nei versi 5, 7, 9: forte – morte – scorte.
Facciamo un passo indietro e prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei
versi 8, 10, 12: trovai – intrai – abbandonai. Facciamo un passo indietro e
prendiamo dal verso precedente la rima, che continua nei versi 11, 13, 15:
punto – giunto – compunto. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal
verso precedente la rima, che continua nei versi 14, 16, 18:
valle – spalle – calle. Facciamo un passo indietro e prendiamo dal
verso precedente la rima, che continua nei versi 17, 19, 21:
pianeta – queta – pieta. E così via, fino alla fine del canto. E poi fino
alla fine dell’Inferno. E poi fino alla
fine della Divina Commedia… Tutti i
versi sono collegati secondo questo modello: ecco che cosa vuol dire
“la terza rima”.
O.P.: È come una danza, in un certo senso.
L.A.: È un successivo intreccio, che si prolunga
all’infinito.
O.P.: A me porta in mente le mosse di
una danza. Forse proprio un minuetto.
L.A.: Sì. Poi ogni verso ha la stessa lunghezza:
Nel-mez-zo-del-cam-min-di-no-stra-vi-ta.
11 sillabe. Mi-ri-tro-vai-per-u-na-sel-vao-scu-ra.
11 sillabe. Qualsiasi verso, in qualsiasi parte del poema, rispetta i limiti
dell’endecasillabo. Un canto include oltre 120 versi. Da moltiplicare questi versi
con 100 canti, che danno un totale di 14230 versi. Questa è la costruzione che va
avanti all’infinito, secondo dei criteri ferrei, che Dante rispetta sempre.
O.P.: Come mai risultano 100 canti, se
ce ne abbiamo sempre 33 nell’Inferno,
nel Purgatorio e nel Paradiso?
L.A.: Ci si aggiunge ugualmente il primo canto,
introduttivo, che ne costituisce la strada d’ingresso. Ma l’autore aveva bisogno
di questo 33, perché è la cifra divina 3 (la perfezione della Santa Trinità) molteplicata:
33. Tre regni: l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. C’è, nello stesso tempo,
una scommessa della simbolistica delle cifre, molto complessa, che è stata
studiata con pertinenza da Ernst Robert Curtius: “La meravigliosa armonia della
composizione numerica, come la troviamo
in Dante, rappresenta la conclusione e l’apice di una lunga evoluzione. Dalle
enneadi della Vita Nuova, Dante è passato
alla costruzione artistica della Commedia
Divina: 1 + 33 + 33 + 33 = 100 canti che portano il lettore attraverso 3 mondi,
l’ultimo tra essi avendo 10 cieli. Le triadi e le decadi s’intrecciano, facendo
nascere la perfetta unità. Qui, il numero non è più soltanto uno scheletro esterno,
ma il simbolo dell’ordine (ordo) cosmico”.
O.P.: Il Medio
Evo latino, ma non soltanto questo, anche il Medio Evo giudeo e quello arabo
avevano questa preoccupazione di decifrare il mondo per mezzo dei numeri. Dunque
si cercavano le armonie anche a questo livello.
L.A.: Sì. Tornando alla nostra discussione,
anche dal punto di vista drammatico è altrettanto complessa la Divina Commedia.
Ci sono dei brani in cui Dante (come personaggio) sviene, perché non sopporta più
l’estrema situazione drammatica. Ci sono momenti di unica atrocità nelle pagine della
letteratura universale. Quindi la Divina Commedia
è ugualmente epica, lirica e drammatica. Ti chiedo io: come si potrebbe fare un
film tratto dalla Divina Commedia? Si
insisterebbe soltanto sul lato epico, eventualmente… Come se ne potrebbe fare una
rappresentazione teatrale? Come se ne potrebbe fare un adattamento per i
bambini che vanno a scuola? Solo tagliando, assottigliando, semplificando e tradendo.
Non credo che un simile gesto sia meritato da Dante e dal suo capolavoro. Forse
conviene affrontare la boscaglia, spingere avanti il peso, con la nostra mente,
o sollevare lo zaino. Saliamo pure la montagna, accanto a lui, invece di costringere
lui a scendere in pianura e invece di trasformarlo in una lettura gradevole, di
domenica, per i pigri. Dante non è per la gente comoda, è per la gente
impegnata, per coloro spinti dalla curiosità, per gli istruiti. Ci servono, davvero,
degli intermediari, nelle riunioni di Lectura
Dantis, per commentarlo, ma non ci serve una volgarizzazione, una “castrazione”
che sarebbe un sacrilegio.
O.P.: Sarei comunque d’accordo con
una volgarizzazione nel senso positivo del termine. Secondo me, si potrebbe trovare
anche un Dante per l’uso dei bambini. Anche se in parte semplificato, per
proteggere tuttavia i bambini dalle grandi atrocità dei particolari danteschi. (È
strano, del resto, che appena si dice “dantesco”, si pensi per eccellenza
all’Inferno.) Io ho conosciuto per la prima
volta Dante per mezzo di Gustave Doré, nelle sue famose e allucinanti rappresentazioni
grafiche – e quindi mi potrei immaginare facilmente un Dante in fumetti. Forse
questo esiste già e io non lo so. Certo, senza abbassare per niente la qualità
del disegno. Secondo me, ci sono tante strade per attirare i bambini, i giovani
e anche gli adulti (che altrimenti ignorano assolutamente l’esistenza di
capolavori così importanti) verso le grandi vittorie dello spirito. Vale la
pena di non sottovalutarle. D’altronde, credo che proprio questo stiamo facendo
anche noi adesso.
L.A.: Ricordiamoci una delle prime scene del film
Ginger e Fred, in regia di Federico
Fellini. Vengono prese in giro le superproduzioni hollywoodiane, e ci si racconta
l’incontro, alla vecchiaia, di due ballerini stanchi (interpretati da Giulietta
Masina e da Marcello Mastroianni), che rappresentano infatti soltanto le imitazioni
delle star americane. Nei primi momenti – nell’esplosione di vidoclip pubblicitari,
nell’aggressione di luci, stravaganze e numerose eccentricità di un mondo
delirante –, nel pulmino in cui i due vecchietti sono presi dall’aeroporto per essere
portati alla loro brevissima esibizione, nel monitor si trasmette un teatrino delle
marionette, con la Divina Commedia.
Due fantocci hanno un battibecco e si tirano dei pugni in testa. Uno rinfaccia
l’altro e gli grida con voce stridula: “Nel
mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai
per una selva oscura”. Ecco il nostro Dante ripreso in parodia, con uno
spettacolo burlesco e ormai assimilato e banalizzato nella cultura dell’Italia
contemporanea, un Dante minimizzato in contesti beffardi.
O.P.:
Concedimi una risposta per mezzo di un esempio assomigliante, questa volta davvero
hollywoodiano, il seguito della famosa pellicola Il silenzio degli innocenti: si
tratta del film Hannibal.
Il protagonista è lo stesso personaggio malefico, il cannibale postmoderno, che
a un certo punto uccide il suo inseguitore, un commissario italiano di polizia,
sul modello di un’esegesi dantesca (una specie di Lectura Dantis) e lo impicca
su un balcone, facendolo pendere dalle
proprie viscere, un’immagine davvero terribile (straordinariamente pensata da
Ridley Scott) che continua a far venire i brividi. Il film, senza rappresentare
un capolavoro, è tuttavia un bel successo, secondo me, la sua atmosfera è terrificante
e nello stesso tempo illuminata dalle ombre delle facciate fiorentine, al modello
delle piazze dipinte da Giorgio De Chirico. Che lo vogliamo o meno, Dante è
entrato – forse di nascosto – nell’immaginario dei produttori della cultura di
consumo, rendendola più bella. Comunque, tra le marionette, d’una parte, e le interpretazioni
“gotiche”, dall’altra, il film può mettere in ballo delle risorse che non credo
sarebbe adatto sottovalutare, nella presentazione della Divina Commedia ai
nostri contemporanei. Così come si è potuto progettare
in un modo affascinante la discesa di Ulisse in Ade, senza niente di vergognoso
o di ridicolo, credo che la mano di maestro di un Ford Coppola o, perché no, di
un Franco Zeffirelli potrebbe esprimere il grandioso capolavoro anche nelle
vesti di un film. Fermiamoci però qui, per adesso, con il nostro dialogo sui
tentativi di mettere a disposizione del lettore romeno un Dante nella nostra lingua.
Oltre all’omaggio portato a coloro che si sono illustrati in questo campo e
oltre alla valutazione critica e ben riflettuta dei risultati del loro lavoro, ritengo
che anche noi abbiamo fatto un giro necessario e recuperatore. Se lo vogliamo capire
quanto meglio possibile, allora dobbiamo fare dalla tradizione quello che può
veramente essere: una cassa di risonanza culturale che amplifica, dà un timbro e
un colore ai suoni della musica.