Laszlo Alexandru - Ovidiu Pecican



DANTE PARLATO


PRIMO DIALOGO

9 febbraio 2006



            O.P.: Caro Alex, abbiamo deciso, qualche tempo fa, di parlare di Dante Alighieri. So bene che stai insegnando Dante a scuola, e forse la nostra discussione sarà solo inerente a quello che fai insieme ai tuoi alunni, per la semplice ragione che noi ci siamo proposti una conversazione su chi è stato Dante, sull’attualità di Dante, se egli conti ancora oggi o meno, in che modo sia egli importante per noi; in altre parole, sulla perennità di Dante. Ci sono autori che vivono o muoiono. Se muoiono, rimangono in uno strato geologico lontano. Alcuni storici eccentrici possono riscoprirli, in un certo momento. Ma se sono vivi, è importante vedere come vivono. Forse ogni generazione – adesso credo di dire una banalità – ne fa la sua propria lettura. Dante è tornato nella cultura romena, nell’ultimo secolo, in modi numerosi e diversi, con le traduzioni integrali della Divina Commedia, con i commenti ecc. Ma forse nessuno ha cercato ancora di fare quello che noi ci proponiamo: una discussione assolutamente leggera, in un certo senso, ma anche, poi, una conversazione che non eviti le complessità (se capitano). Un dialogo, tutto sommato, in cui Dante sia quello che può davvero essere, cioè uno scrittore che ha ancora qualche cosa da dire.

            L.A.: Hai iniziato mettendo direttamente il dito su una delle ferite più evidenti, quando si parla di Dante: si tratta di un autore straordinariamente complesso, che addirittura ha costruito la propria complessità.

            O.P.: Questo ci aiuta o piuttosto ci impedisce di avvicinarci al suo mondo?

            L.A.: Questa complessità è forse piuttosto un impedimento. Ma costituisce anche una sfida. È come un frutto che, dopo averne allontanato la buccia, con grande difficoltà, appena arrivi all’essenza, trovi tanto più dolce e gustoso.

            O.P.: Ti ricompensa.

            L.A.: Certo. E quindi uno dei problemi collegati a Dante è proprio la sua complessità, i diversissimi punti di vista da cui può essere esaminato. Si sono scritte intere biblioteche di interventi e di commenti sull’autore italiano, e le cose tuttavia non si ripetono, sono portati sempre altri argomenti in discussione. Perché mai? Perché ciascuno si costruisce un suo Dante. Questo fatto e la complessità dell’argomento stesso legittimano, fino a un certo punto, la pluralità degli approcci. Noi però da quale punto di vista ci riferiremo a Dante? Ti sei domandato e me l’hai domandato per giusta ragione. Dobbiamo dare una spiegazione di metodo a tutte le persone che ci faranno forse l’onore di leggerci. Oggi, dopo centinaia d’anni che Dante Alighieri visse e creò, la mentalità, la civiltà umana conobbero uno sviluppo e una modifica sostanziali e l’accesso diretto a Dante è piuttosto difficile. In grande misura egli è dipendente, è schiavo dei suoi tempi. È anche l’imperatore dei suoi tempi, visto che rappresenta la sintesi del Medio Evo, di cui fu l'artista più importante. È quindi un imperatore-schiavo, oppure uno schiavo-imperatore. Ma è un medievale, prima di tutto. E allora la nostra sensibilità postmoderna, del XXIo secolo, le nostre letture, l’orizzonte delle attese sono ben diversi da quelli dell'uomo del Medio Evo. Dunque ci vuole una mediazione. Qui abbiamo l’attività di numerosissimi specialisti, i cosiddetti “dantisti e dantologi”, che hanno lavorato sodo, alcuni, per mediarlo, gli altri per approfondire e aprire nuove strade di ricerca. Noi che cosa faremo adesso? Una mediazione per il lettore del XXIo secolo, per colui che ha sentito forse soltanto parlare del fatto che c’è stato, tempo fa, un tizio con il nome di Dante, o un approfondimento delle cose che non si sono ancora dette? Secondo me, dovremmo percorrere la prima strada, perché Dante deve essere “aperto” al grande pubblico. È questo il dovere degli intellettuali, agli inizi del nostro secolo, diffondere “il ben dell’intelletto”. Si possono ancora trovare, forse, delle novità rivoluzionarie, ma esse danno solo un aiuto insignificante al lettore medio di oggi, in paragone alla vera e propria mediazione verso l’opera dantesca.

            O.P.: Direi anch’io che ci vuole, più che mai, un’oscillazione tra due poli. Ci ritroveremo forse nella situazione di tentare – e qui penso soprattutto a me stesso, in quanto medievista – una ricostituzione, facendo un tuffo in quel secolo che conosciamo più o meno, quindi un’archeologia dell’opera e dell’autore? Oppure faremo del nostro meglio per diminuire tali note specifiche e un po’ misteriose, per scoprire quel Dante che può ancora parlare alla nostra epoca? Devo confessare che non mi è piaciuto troppo lo spettacolo di Orfeo in Inferno, con Jean Marais, quando tutto si svolgeva verso gli anni ‘50 dello scorso secolo. Non mi piace nemmeno Giulietta e Romeo, con la variante “in motocicletta”. Preferisco la patina dell’epoca, per un gusto che può sembrare forse discutibile agli occhi degli altri. Preferisco, per queste ragioni di gusto personale e a causa di un certo tipo di educazione, in quanto storico per mestiere, una descrizione dell'opera nel contesto dell’epoca stessa, e non trascurandola. Comunque, secondo me, tale oscillazione si dovrebbe fare.

            L.A.: In questo punto concordo con te. Secondo me, dovremo fare un viaggio di “andata e ritorno”, in cui sprofondarci nel Medio Evo per capirlo e, così, capire meglio Dante stesso, come più significativo testimone della sua epoca. Allo stesso tempo dovremo portarlo nei nostri tempi, per valutare, da quello che ha vissuto, da quello che ha sofferto e ha pensato, quanto possa essere ancora attuale e importante per noi, oppure quanto risulti superato.

            O.P.: Infatti. Dobbiamo vedere se ci sia un Dante archetipico, o in che misura ci sia un Dante in pelle e ossa. Ricordo che nel 2002, in occasione di un congresso svoltosi nel Nord Italia, ho visitato un piccolo monastero, in riva al noto Lago di Garda, affacciatosi verso la Svizzera, e dove, ai tempi della quarta crociata, una volta, nel Duecento, ci viveva un solo eremita. Ho visto questo eremita, straordinariamente bene conservato. Era il primo uomo del Duecento che vedessi… in pelle e ossa. Era tutto rattrappito, ma per il resto era ben conservato e molto concreto. E questa sua concretezza mi ha colpito, perché una cosa è vedere un monumento costruito centinaia di anni fa, e tutt’altra cosa è trovare un profilo umano con tratti riconoscibili. Forse troveremo un simile Dante alquanto concreto, sebbene immaginario, nelle nostre discussioni, anche se non si conoscono tante notizie precise della sua biografia. Quelle che si conoscono permettono però una certa ricostruzione, vero?

            L.A.: Scusami, non ho capito se si trattava o meno di una figura stilistica. Quell’eremita di cui stai parlando è un uomo vivo, che ha indossato i vestiti medievali davanti ai turisti, o si tratta di uno scheletro conservato da quei tempi?

            O.P.: È una figura stilistica fondata su una esperienza vissuta in realtà. Quest’uomo santo fu vivo, e adesso sta lì in un feretro ed è venerato. D’altronde, ho visto simili feretri con persone venerate in diversi posti. Nella meravigliosa basilica di Milano, che mi è piaciuta moltissimo, la famosa Sant’Ambrogio, ho visto lo stesso padrone della chiesa e della liturgia milanese in questa circostanza. Ho avuto poi la fortuna (e vorrei raccomandare a coloro che possono fare simili esperienze di non esitare) di vedere a Padova il dito di Sant’Antonio. Ho visto delle cose che sono oggetto della pietà popolare e davanti a cui, se stai parlando in astratto, prima di vederle, non hai quella sensazione che può indurre la concretezza aureolata dal mito.

            L.A.: Però dobbiamo essere prudenti, perché Boccaccio, sin dal Medio Evo, ha dedicato squisitissime pagine di beffa alle “reliquie”: un personaggio del Decameron si vanta di aver visto con i propri occhi “il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai”, “una delle coste del Verbum caro fatti alle finestre”, “una delle unghie dei Gherubini”, “alquanti dei raggi della stella che apparve ai tre Magi in Oriente”, “un’ampolla del sudore di San Michele quando combattè con il diavolo”, “uno dei denti della Santa Croce”, “in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone”, “la penna dell’agnol Gabriello” ecc. ecc.

            O.P.: Ho conosciuto anch’io una volta un tizio che giurava di aver incontrato Mircea Eliade, negli anni ‘80, a Bucarest! Però non parlavo dal punto di vista dell’uomo caduto in estasi mistica davanti a tali prove, ma da quello di uno storico interessato alla conservazione di una testimonianza su un secolo passato, non nelle piccole parti che evoca, bensì nella sua integralità. Potrei chiamare, d’altronde, questa sorpresa dell’innamorato del passato, l’“effetto dell’Atride”, per evocare l’entusiasmo straordinario di colui che scoprì la necropoli piena d’oro degli Atridi. Senz’altro però che si potrebbe chiamare anche l’“efetto di Troia”, pensando a Schlimann, o l’“effetto di Tuthankamon”.

            L.A.: È vero che il Medio Evo ebbe questo culto per le reliquie, ma altrettanto vero è che verso la sua fine, con il genio di Boccaccio, ebbe anche il potere di prenderle in giro.

            O.P.: Eppure, se ci andrai, vedrai anche tu, caro Alex, che dopo le riserve espresse dalla gente per mezzo del Boccaccio (prima di tutto), ma anche per mezzo della “sinistra” del Novecento, davanti alle proposte della Chiesa in questo campo, ci sono ancora tante persone che coltivano tali esperienze, che portano fuori per strada le reliquie, una volta l’anno…

            L.A.: Hai ragione. Anche da noi sono ancora venerate le reliquie di Santa Paraschiva, per esempio.

            O.P.: Ma, ripeto, si trattava di una metafora fondata su una esperienza molto concreta e personale. Non avevo mai più visto un uomo in pelle e ossa, che risalisse precisamente al Duecento. Non dubito che fosse proprio così, per tutt’una serie di particolari difficili da falsificare. Parlando però di Dante, dopo questa parentesi – forse benefica, forse parassitaria, lo decideranno altri, ma comunque non premeditata – volevo riferirmi a quello che dicevi dello scopo pedagogico del nostro dialogo. Secondo me, si tratta prima di tutto di un’autopedagogia, e lo devo confessare onestamente. Sentivo il bisogno di avere una discussione in questa direzione, senza per niente darmi le arie di un esperto di Dante. Tu l’hai studiato, l’hai ripetuto con i discepoli, hai trascorso molto tempo insieme a lui. Io, al contrario, ne ho una lettura abbastanza superficiale, ma piena di reale interesse. E allora il mio scopo è quello di discutere, con un uomo avvisato, di quest’autore che mi suscita l’interesse per le sue proposte, per le sue oscurità, per i labirinti di un’opera che hai appena indicato – senza pretese di enunciare qualcosa di originale – come di grande complessità. Se ce la facciamo, se alla fine delle nostre discussioni riusciremo a entrare meglio in risonanza con Dante (senza capirlo necessariamente fino in fondo), mi sembrerà straordinario.

            L.A.: C’è quel detto: “Docendo discimus”. Insegnando agli altri, impariamo noi stessi. Qualsiasi specialista in Dante, qualsiasi suo lettore, anche dopo decine di anni, arrivato alla fine della vita, avrà sempre qualcosa da imparare. Nessuno potrà mai dire di aver esaurito questo campo di ricerca.

            O.P.: La differenza tra di noi rimane tuttavia quella che tu leggi con grande passione anche l’esegesi dantesca. Io non la conosco. Sarò interessato a sentire da te, ogni tanto lungo le nostre discussioni, che cosa ne dice uno, che cosa ne dice l’altro, senza entrare nei pettegolezzi.

            L.A.: Leggo questa esegesi piuttosto per la curiosità di vedere in quale misura certe mie intuizioni o supposizioni siano o meno sostenute dalle ipotesi degli altri. C’è un quadro generale in cui si può includere Dante, il suo tipo di pensiero e la sua opera. All’interno di questa cornice si possono riconoscere certe realtà, certe direzioni. Puoi capire in che misura uno o l’altro siano specialisti nel campo, secondo il livello in cui ci stanno nel quadro o meno. Ma non dell’esegesi dantesca sarebbe interessante discutere, prima di tutto. Vorrei proporti qualcosa, visto che il nostro argomento è estremamente ampio e abbiamo moltissimo da dire, poiché ci rivolgiamo a qualcuno che forse non ha sentito più di una volta questo nome: Dante Alighieri, e non sa di lui, forse, altro che si tratta di un italiano. A una simile persona dovremmo comunicare, noi due insieme, diverse cose. Potremmo partire dal basso per salire insieme e, accontentando coloro che entreranno per la prima volta in contatto con il poema di Dante, non dovremmo tuttavia deludere nemmeno coloro che ne sapevano già qualche cosa. Per fare questa strada, avremo bisogno di strutturare, in diversi aspetti, i nostri argomenti.

            O.P.: Certo. Forse non entreremo ancora nella “selva oscura”, ma sosteremo per un po’ ai suoi piedi. Cioè discuteremo oggi, se lo vuoi, approposito del nostro tema, dei suoi diversi aspetti e del contesto in cui viene configurato. Ti confesso un sentimento personale, il quale forse è troppo soggettivo per avere un altro valore che non quello di una confessione. Ho il sentimento che, in Romania, quando si è discusso di Dante nel mondo culturale, questa cosa si sia realizzata con una certa superbia e per fare colpo sulla gente meno colta, meno educata.

            L.A.: Alcuni sì, altri no. I veri specialisti si sono dati da fare sul serio. Ma sono poco cunosciuti.

            O.P.: Perfetto. Sarà successo come di solito avviene: hanno scritto per una decina di colleghi che li seguivano, sulle pubblicazioni specializzate. Pensavo però alle grandi proposte che ci sono. Oltre alla monografia di Alexandru Balaci per il grande pubblico, c’è stato da noi, nel campo della dantologia, questo gruppo di traduzioni assolutamente utili, alcune di grande merito (mi riferisco a quelle portate a buona fine). Non dovremmo forse parlare di quello che abbiamo di Dante nella letteratura romena?

            L.A.: Dante è venuto all’attenzione della nostra cultura sin dall’Ottocento. Il periodo intorno al 1848 ha conosciuto una grande ripresa in questa direzione.

            O.P.: A causa del Romanticismo al quale aderivano loro? Lo sappiamo bene che i romantici amavano il Medio Evo.

            L.A.: Sì. Dobbiamo quindi estendere ancora di più il nostro discorso. La situazione di Dante in Italia fu questa. Egli si spense in esilio, in condizioni difficili e trattato ingiustamente dai suoi compatrioti fiorentini. Morì a Ravenna dov’è tutt’oggi sepolto. Seguirono alcuni secoli, verso il Romanticismo, di poca attenzione nei suoi confronti, se tralasciamo le grandi eccezioni tra cui Boccaccio. Egli fu il primo biografo celebre di Dante ed offrì, allo stesso tempo, diversi contributi in favore dell’opera dantesca. È anche colui che inaugurò una nuova disciplina, Lectura Dantis. Ci furono due figli dello scrittore, Pietro e Jacopo, che si piegarono sui manoscritti del loro genitore, commentandoli. Si può ricordare anche un Ottimo Commento, anonimo, che risale probabilmente all’epoca contemporanea del poeta. Nel periodo storico successivo l'attenzione fu focalizzata non sulla figura di Dante, bensì su quella di Petrarca. Egli fu quello che, con le sue volute stilistiche, con l’attenzione rivolta alla forma artistica, all’espressione, si impose in avanscena. Il formalismo petrarchesco, la corrente petrarcheggiante dominarono la letteratura italiana fino verso il Cinquecento e il Seicento. Dante rimase in penombra. Ebbene, con il Romanticismo, Dante tornò dalla porta principale, mentre Petrarca cadde in una certa desuetudine. Nell’Ottocento dominò certamente l’immagine di un Dante romantico, furono scoperti i suoi personaggi adatti a una simile lettura: Francesca da Rimini, divisa fra l’amore legittimo per il marito e quello passionale per il cognato, oppure Farinata degli Uberti, l’eroe importante della storia fiorentina ecc. Gli autori romantici erano impressionati dai personaggi romantici. Ecco un argomento molto interessante da affrontare: fare la differenza, morfologicamente, tra diverse categorie di personaggi della Divina Commedia. Abbiamo quelli tipicamente medievali, poi quelli che prefigurano l'audacia del Rinascimento (come per esempio Ulisse del canto XXVI dell’Inferno), o altri con tratti romantici ecc. Si deve sottolineare il grandissimo ingegno artistico di Dante, di prevedere alcuni tratti dello spirito e della sensibilità umana, che si sarebbero manifestati soltanto dopo centinaia d’anni. Quindi il “romantico” Dante fu quello riscoperto e riaffermato nell’Ottocento, durante il Romanticismo di Ugo Foscolo o di Francesco De Sanctis. La vera esegesi dantesca si stese però soprattutto lungo il Novecento italiano (Francesco Torraca, Luigi Pietrobono, Isidoro Del Lungo, Carlo Grabher, Attilio Momigliano, Natalino Sapegno, Siro A. Chimenz, Umberto Bosco, Carlo Salinari, Tommaso Di Salvo etc.). Allora si creò una scuola di specialisti in filologia dantesca, per esempio a Firenze sotto la guida di Michele Barbi, che pubblicò tutt’una serie di studi nel campo.

            O.P.: In che periodo succedeva tutto questo?

            L.A.: Nei primi decenni del Novecento. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, il contributo di Niccolò Tommaseo, il quale insistè in modo impressionante sulle influenze latine del testo dantesco e lavorò per circa quarant’anni al suo commento dedicato alla Divina Commedia, già dall’Ottocento, quindi anche prima di Michele Barbi. Se veniamo dalle nostre parti, la cultura romena dell’Ottocento era piuttosto intuitiva nella percezione di Dante e insisteva solo su certi brani isolati dal contesto, che venivano estrapolati. Mancava ancora in quei tempi una conoscenza profonda, seria e globale di Dante Alighieri.

            O.P.: Era probabilmente una frivolezza che andava insieme ai viaggi, ai sogni, agli episodi in cui ritroviamo i romantici romeni in Occidente, da Palermo – dove giaceva malato il povero Bălcescu – fino a Parigi, dove, non dimentichiamo, Jules Michelet ed Edgar Quinet, i mentori del nostro Romanticismo, si nutrivano con gli insegnamenti del grande napoletano Giambattista Vico, inclusi nella sua sintesi filosofica, la Scienza nuova.

            L.A.: Certo che il trapianto di Dante nei territori romeni nell’Ottocento rifletteva un’ammirazione e una sintonia di alcuni viaggiatori con lo spazio occidentale, che avevano percorso a volte anche a piedi.

            O.P.: Ma, secondo la tua opinione, possiamo parlare di Dante come del più grande poeta italiano, così come i romeni si precipitano a riconoscere, oltre qualsiasi esame critico, in Eminescu, il poeta che meglio li esprime?

            L.A.: Sì, questo è indiscutibile…

            O.P.: Perché tuttavia egli ha dei concorrenti importanti. Hai ricordato Petrarca… ma quanti ce ne sono ancora… se veniamo fino a D’Annunzio…

            L.A.: Eh, D’Annunzio…

            O.P.: O Leopardi.

            L.A.: Se Eminescu viene contestato oggi e deve subire la concorrenza abbastanza dura dei diversi poeti che gli succedettero, per quanto riguarda Dante credo – e non soltanto io – che le cose siano molto chiare.

            O.P.: Se Budai-Deleanu non fosse stato l’autore di un’epopea eroi-comica postuma, quindi se avesse pubblicato la Ţiganiada [la Zingariade] durante la vita ed essa avesse avuto una circolazione pan-romena nell’epoca in cui è stata scritta, avremmo una lontana equivalenza a quello che aveva fatto Dante, alcuni secoli prima, nello spazio italiano. Così invece dobbiamo ricordare il nome di Eminescu.

            L.A.: Non ti nascondo che, secondo me, la Ţiganiada di Ion Budai-Deleanu è molto vicina, dal punto di vista del suo valore, alla produzione di Eminescu. Se fosse “ripulita” (ma non è più possibile) da certi arcaismi e dalle goffaggini inerenti a quei tempi, ne potremmo assaggiare più facilmente la forza dell’impatto. È un’opera poetica meravigliosa per il momento e la mentalità in cui fu creata.

            O.P.: Per me Budai-Deleanu è il poeta del cuore, che rimane anche per motivi di solidarietà regionalistica un artista importante…

            L.A.: Ma non importa la regione in cui scrisse, egli è un poeta di prima importanza della cultura romena!

            O.P.: Non molto tempo fa ho comprato a Timişoara un libro di G.I. Tohăneanu, I limiti della lingua romena, in cui questo fa l’analisi di alcune espressioni usate da Budai-Deleanu, oggi desuete, esotiche o arcaicizzanti, a cui mette in luce non solo il senso originale, che a noi sfugge in una lettura superficiale o non avvertita, ma perfino il sapore.

            L.A.: Ecco che si può fare una lettura linguistica di Budai-Deleanu, ma si può anche seguire, senza esagerazioni, la direzione di studio di Nicolae Manolescu, nel suo primo volume della Storia critica della letteratura romena, e scoprire un Budai-Deleanu della famiglia di Jorge Luis Borges, con i suoi giochi letterari-filologici, con la sua intertestualità nascosta, o le note a piè di pagina che prefigurano nuovi stili letterari. Oppure si può mettere l’accento sul comico straordinario di Budai-Deleanu, così attuale anche ai nostri giorni.

            O.P.: Hai trovato dei brani comici in Dante?

            L.A.: Sì. Ce ne sono, ma non tanti. È anche questa una direzione interessante nella nostra discussione. La enuncio molto brevemente. Per quanto riguarda la Divina Commedia, il capolavoro dantesco prende per eccellenza come modello la complessità della Bibbia. Possiamo affermare, senza paura di esagerare, che Dante abbia voluto fare una nuova Bibbia, questa volta letteraria…

            O.P.: Come un’eco alla Bibbia. Quindi, implicitamente, anche una parodia, fino a un certo punto. Mi sia perdonato, ma Virgilio che viene da un altro universo, antico, non può trattenersi nei territori sacri della trascendenza biblica se non con un trapianto, anche se involontariamente parodico…

            L.A.: A quel punto non so se si trattasse proprio di una parodia. Ma sicuramente Dante si era proposto di offrire una seconda Bibbia, per la complessità del messaggio e per questa sfida, la scommessa di abbracciare tutto quello che si era detto, tutto quello che si sapeva, tutto quello che si conosceva. Tutti gli aspetti dell’attività e della conoscenza umana. Cioè appunto quello che faceva la Bibbia. E questo include anche la forma dell’espressione: la Bibbia ha pochissimi brani comici, di buon umore; è sobria, impressionante, emozionante. Tant’è vero che a volte include passi lirici o erotici, come per esempio nei Salmi o nel Cantico dei cantici, ma la comicità nel senso vero e proprio della parola ci si ritrova raramente, perché la Bibbia vuole dare insegnamenti, saggezza allo stato puro, modi di comportamento per l’umanità. E questa è anche l’ambizione di Dante. L’autore, parlando della Divina Commedia, lo dice apertamente che si tratta del libro di un fiorentino “di nascita, non di costumi”, e nella sua corrispondenza confessa di aver creato uno strumento di insegnamento per i suoi contemporanei e per i posteri. Quindi l’azione pedagogica, la finalità pratica, questo ruolo di Deus ex machina, che viene e chiarisce certi aspetti una volta per sempre, lo avrebbero messo in difficoltà, se lo avessero spinto a usare anche il tono comico, scherzoso. Il quale c’è qualche volta, ma solo nei dettagli.

            O.P.: Abbiamo piuttosto un sorriso, non una commedia.

            L.A.: C’è perfino la satira. Ma il comico si sottomette allo scopo generale di trasmettere, con la frusta della satira, la conclusione morale. Per cui il comico dantesco, quindi, rappresenta un problema secondario. Tanto perché la personalità dell'autore era poco comica, quanto perché lo specifico del suo capolavoro non andava d’accordo con l’aspetto divertente dell’espressione.

            O.P.: Va bene. Siamo rimasti ai tempi dei romantici. Parlavamo della ricezione di Dante nella cultura romena, come introduzione alla discussione sulla stessa opera dantesca.

            L.A.: È vero. Noi, nella cultura romena, non potevamo precedere gli italiani, non siamo stati protocronisti, per quanto lo avessero voluto alcuni. Abbiamo seguito le tracce italiane. È interessante notare che non abbiamo avuto una scuola filologica di studi danteschi, e la scoperta di Dante è stato nella cultura romena il risultato delle scommesse individuali: certe personalità eccezionali, lavorando in modo autonomo, lo hanno “inventato”, lo hanno promosso con entusiasmo e hanno dedicato decine d’anni della loro biografia professionale a tale scopo. Anche nella nostra cultura, quindi, il Novecento è rilevante per la presenza di Dante. In questa direzione un impulso essenziale venne dal professor Ramiro Ortiz, che creò la prima cattedra di lingua e letteratura italiana in Romania, presso l’Università di Bucarest e che attirò intorno a sé e formò alcuni italianisti, tra cui G. Călinescu, un grande ammiratore del poeta fiorentino (secondo le leggende, recitava a memoria decine e decine di versi danteschi nei momenti di nostalgia), o Alexandru Marcu, un altro dantista e italianista di spicco ecc. Il primo grande traduttore di Dante in romeno e forse il migliore fu George Coşbuc, il nostro importante poeta.

            O.P.: Sono rimasto sorpreso quando l'ho scoperto. L’ho saputo abbastanza presto. Mio padre aveva comprato un’edizione della collana Classici della Letteratura Universale, con le straordinarie illustrazioni di Gustave Doré. Sono rimasto di sasso nel vedere che G. Coşbuc, il poeta degli idilli e del paese romeno transilvano, illuminato come per incanto dal sogno, era stato attirato e poi era stato capace di tradurre quest’opera gigantesca. Ho saputo più tardi che Coşbuc non era per niente un povero rurale pieno di polvere, senza accesso alla cultura universale.

            L.A.: Non dobbiamo dimenticare che George Coşbuc ebbe una solida formazione di classicista. Egli conosceva bene il latino e il greco.

            O.P.: Tradusse anche la Sakuntala, senza conoscere il sanscrito come Mircea Eliade.

            L.A.: Sì, per mezzo degli altri. Ma tradusse l’Eneide di Virgilio e l’Odissea di Omero. Ho fatto già prima, da qualche parte, un piccolo riassunto del modo in cui avvenne l’“incontro” di Coşbuc con Dante. Suo padre, prete greco-cattolico della zona di Bistriţa, voleva arricchire il suo bagaglio di omelie domenicali e aveva un’edizione in tedesco dell’Inferno. Chiese al figlio di darci uno sguardo e di riassumere alcune scene infernali, ad uso del prete in chiesa, per impressionare i fedeli. George Coşbuc si mise a leggere l’Inferno di Dante, ne rimase affascinato e cominciò a tradurlo, prima in base alla variante tedesca. Studiò in seguito per anni la lingua italiana, appunto per avere un accesso diretto al testo originale. Fece ordinare alcune edizioni italiane della Divina Commedia e si può dire che la poesia dantesca gli fece da cicerone per imparare questa lingua, ciò che non è per niente una cosa trascurabile. Dopo tutto questo, fece un viaggio in Italia, con i suoi risparmi, andò a vedere alcuni musei e luoghi danteschi a Firenze, credo sia stato anche a Ravenna, si lasciò conquistare dalla personalità di Dante, tornò a casa in Romania con alcune edizioni e commenti che ci si trovavano a quei tempi. Per una ventina d’anni tradusse, rispettando con grande fedeltà le esigenze originali, il capolavoro dantesco. Era a tale misura affascinato dall’autore fiorentino che, nei suoi appunti personali, cominciava le meditazioni in romeno e, a metà della frase, scivolava all’improvviso verso l’italiano, o passava alla grafia italiana, con la “z” invece della “ţ” ecc.

            O.P.: Questo sembra una reminiscenza dalla metà dell’Ottocento, quando il nobile moldavo Constantin – forse Costică? – Negruţ diventava Negruzzi. C’era la moda italianizzante, che ritroviamo anche in Ion Heliade-Rădulescu: “Suzană, eşti bellă / ba chiar florelinte / şi a tale belleţă / mă scoate din minte”.

            L.A.: Per Coşbuc si trattava di una prigionia in cui scivolava pian piano, quando si lasciava affascinare da quell'universo italianizzante per eccellenza.

            O.P.: Ma come lo spieghi? Dante ha un aspetto tormentato, mentre Coşbuc è assolutamente bucolico. Nelle sue poesie il cielo è sempre sereno, o si è appena vendicato per mezzo di una tempesta. Si tratta di un altro tipo di sensibilità. Sarà proprio la coincidentia oppositorum, un’attrazione delle tenebre?

            L.A.: Durante i miei studi universitari, a un seminario, c’è stato un piccolo dibattito su questo tema. Uno dei nostro professori ci ha invitato a non lasciarci ingannare dal carattere bucolico e “contadino” di Coşbuc, perché guardando attentamente la misura poetica e confrontandola con i versi del poeta romeno, avremmo potuto notare il riflesso di un ingegno molto minuzioso e scrupoloso, di un artista della parola. Colui che lo guarderà esclusivamente come autore di stampo rurale si sbaglierà. George Coşbuc è un grande intellettuale…

            O.P.: …un classicista…

            L.A.: …uno squisito artista della poesia, prima di tutto. Il suo lato rustico e luminoso-festivo sembra piuttosto una maschera. Comunque, egli è un classicista, un ottimo conoscitore di latino e di greco. È colui che aveva il coraggio di esclamare, nell’intimità dei suoi manoscritti che, dopo aver frequentato per anni e anni Omero e Virgilio, scoprendo Dante, questi gli sembrava molto più complesso degli altri due e che si considerava più ripagato spiritualmente, traducendo per decine di anni Dante, in paragone agli altri due classici, che ugualmente conosceva in dettaglio.

            O.P.: Potrebbe darsi che George Coşbuc fosse, d’altronde, il beneficiario delle più belle edizioni dantesche, tra quelle che sono uscite fin’oggi nella cultura romena. Forse anche delle più grandi tirature. Ci sono almeno due meravigliose edizioni con la traduzione di Coşbuc. La primissima è quella interbellica, ornata di illustrazioni, curata, accompagnata dall’apparato critico e con lo studio introduttivo di Ramiro Ortiz.

            L.A.: Prima di arrivare alle edizioni, si deve aggiungere ugualmente che, avendo fatto il suo pellegrinaggio in Italia, alle origini di Dante, Coşbuc tornò a casa e lavorò per anni alla traduzione. Piano piano, la sua attenzione fu attratta da altre possibilità. Per mezzo della sua trasposizione, egli avrebbe voluto scivolare verso un commento molto minuto e scrupoloso del capolavoro dantesco.

            O.P.: Come mai questa attrazione per l’erudizione, che per tanta gente sembra un semplice gioco dotto, un rebus sempre più complicato, una strada sbagliata?

            L.A.: È vero. Borges è un piccolo bambino innocente, in paragone a Dante. L’argentino ha fatto pubblicare una serie di conferenze dedicate al grande fiorentino, abbastanza ingenue tra l’altro e a volte contestabili. Ma, se mi concedi un’ironia, Dante è un borgesiano molto più grande dello stesso Borges…

            O.P.: Un borgesiano avant la lettre!

            L.A.: Infatti. Il poeta medievale è colui che si perse per primo in questo giardino dei sentieri che si bifurcano. A mettere il piede nello spazio dantesco, più avanzi, e più sei ripagato, se dimostri una certa tenacia e forza della volontà. Quanto la curiosità è più grande, tanto il desiderio di avanzare è più intenso e lo spazio ti prende come una trappola, non ti lascia più andare via. Quelli che si gettarono in questo campo di studio ci rimasero attaccati e affascinati fino alla morte. Per decine d’anni, questo capitò anche a George Coşbuc. Egli cominciò a tradurre, finì quasi tutto, ma da quel punto in poi scivolò verso un’altra sfida: elaborare la sua propria interpretazione della Divina Commedia. Era molto preoccupato soprattutto di stabilire la data precisa del viaggio di Dante nel mondo dell’aldilà. Dedicò centinaia di pagine a questo tema. Purtroppo, come notò anche G. Călinescu, a questo punto George Coşbuc perse la strada giusta. I suoi sentieri si biforcarono fino allo smarrimento. Ci sono due volumi, di qualche centinaio di pagine in formato ottavo, pubblicate alla metà degli anni ‘60, con le sue analisi. La morte lo sorprese faticando al commento, spinto avanti fino al più inutile vico cieco.

            O.P.: Io non sarei così duro. E, in fin dei conti, lo scopo della nostra discussione è anche quello di essere in disaccordo qualche volta.

            L.A.: Ma certo. Senz’altro.

            O.P.: Forse non tanto con te, quanto con il “divino” critico George Călinescu.

            L.A.: Purtroppo qui G. Călinescu non si sbaglia.

            O.P.: Forse sì, forse no. In un certo senso, eventualmente rischiando, potrei assimilare questo sforzo in apparenza paranormale di datare con esattezza la discesa di Dante all’Inferno con un esercizio di tipo cabalistico. Non altro stavano facendo i cabalisti che si prendevano una parola, la esaminavano dal punto di vista numerologico, provavano a vedere di quante lettere fosse composta, che valore avesse ciascuna, cercavano diverse corrispondenze sacre. Una strada che oggi può sembrare alquanto stravagante a tutti coloro che vengano dall’esterno dello spazio in cui loro si ingegnarono. Oppure se diamo uno sguardo all’Albero di Sephiroth o ad altri tentativi fondati su simili diagrammi mistici; ma non soltanto... Una lettura differente di tutto l'enorme sforzo di Coşbuc (non sapevo che ci fossero rimasti proprio due volumi) non potrebbe essere fatta, eventualmente?

            L.A.: E i suoi quaderni con gli appunti non sono stati ancora tutti pubblicati…

            O.P.: Fantastico! Questo mi incuriosisce tanto!

            L.A.: Li ho letti ma, purtroppo, devo dare ragione a G. Călinescu. Il nostro poeta si perde in diversi particolari privi di rilevanza per noi, lettori moderni. Egli comincia per esempio una inutile polemica, su decine di pagine, contro quasi tutti i dantisti. Dobbiamo ricordare che ci sono tentativi di identificazione precisa, calendaristica, delle giornate e delle ore del viaggio dantesco nell’aldilà.

            O.P.: Li conosciamo forse?

            L.A.: Sì. Secondo diversi suggerimenti di carattere astronomico, si suppone che Dante abbia cominciato il suo viaggio nel venerdì santo del 1300, una cifra rotonda che fa pensare ugualmente alla simbolistica della perfezione. Ebbene, Coşbuc si schiera in polemica contro tutti, sostenendo che il viaggio si dovrebbe infatti anticipare di 2 anni, cioè tutto sarebbe successo nel 1298, perché gli scritti astrologici medievali furono interpretati male da tutti ecc. Si prosegue poi per strade di minore rilevanza per la comprensione globale e perfino puntuale della Divina Commedia.

            O.P.: Prima di andare avanti, vorrei sottolineare ancora, con il mio sguardo di ricercatore, che un simile esercizio sembra del tutto specifico per i computazionisti medioevali. Ci fu una lunga discussione, a partire dalla fine dell’Antichità, in margine alla cronaca di Eusebio, Geronimo e di altri: quando è cominciata la storia? A che periodo risale l’inizio del mondo? Come si sa, in un certo momento fu stabilita una data, ma ci furono anche numerosi dibattiti e vediamo che ai nostri giorni si proseguono in forma moderna e direttamente dipendente dai fantastici progressi registrati dalle scienze del tempo, dalla cronologia, dalla fisica ecc. Oggi stesso assistiamo ancora alle riforme del calendario, a diverse modifiche. Avevo ormai l’età della giovinezza quando la Romania cominciò a mettere in pratica la regola del passaggio dall’orario invernale a quello estivo. Niente di nuovo dal punto di vista astronomico, ma per ragioni economiche e practiche si anticipava di un’ora l’intero programma del giorno, o si tornava all’orario conosciuto. E non vorrei insistere sulla riforma del calendario, sul fatto che oggi, al mondo – e anche in Romania –, il nuovo anno comincia in date diverse, secondo il culto religioso al quale appartieni o ai propri punti di riferimento. Ce n’è uno per gli islamici della Dobrogea, un altro per gli ucraini della provincia di Maramureş, mentre per noi, gli altri ortodossi allineati al modello del calendario cattolico, le cose sono diverse. Mio padre, buon’anima, sui documenti aveva una data di nascita diversa dal suo vero compleanno, perché nel frattempo c'era stata la riforma del calendario. E quindi, pur essendo nato in un altro giorno, era festeggiato dalla famiglia il 1 gennaio di ogni anno. Simili cose fanno parte anche della nostra vita. Forse non è troppo assurdo questo interesse. Se egli – e adesso sto pensando a Coşbuc – ritenne come attività essenziale per gli ultimi anni della sua vita (e questi erano, ricordiamoci, proprio gli anni successivi alla morte di suo figlio, che lo segnò profondamente) esaminare scrupolosamente quando fosse sceso Dante all’Inferno, una tale preoccupazione, forse non ossessiva, ma comunque ricorrente, persistente, di Coşbuc, si deve registrare come tale e valutata con piena serietà. Può darsi che si trattasse di una “quête”, di un’avventura spirituale del poeta, il quale si sarà sentito, in un certo modo, destinato a mettersi in contatto, come l’enciclopedista Hasdeu con la sua giovanissima figlia morta, per mezzo dello spiritismo, con il mondo dell’aldilà.

            L.A.: Sì, è un’ipotesi molto interessante. Non ci avevo pensato.

            O.P.: Non vorrei esagerare …

            L.A.: È un’ipotesi affascinante! Il problema in principio è però quello valido per qualsiasi commento letterario, per qualsiasi esegesi: che cosa è più importante, l’opera artistica che stiamo esaminando, oppure le nostre ossessioni che vogliamo appagare, trasformando quel testo in pretesto?

            O.P.: Non sarà forse ciascuno di noi a dare la propria risposta a questa domanda?

            L.A.: La mia risposta è tuttavia quella che, comunque, il testo originale è più importante. Non ho il diritto di “coccolare” i miei propri tormenti spirituali, appoggiandomi a un’opera letteraria. Oppure lo posso fare, ma a quel punto non mi occupo più dell’esegesi, bensì di altre cose. Torniamo però al traduttore romeno della Divina Commedia. Possiamo colorare il nostro dialogo, per illustrare uno stile stranissimo, bilingue, di espressione, citando un brano di autovalutazione di Coşbuc, facilmente comprensibile anche da un italiano, vista la somiglianza delle due lingue: “In questi studi parla un pazzo. Deci cel ce s-apropie de ele să ştie şi să lase orice speranţă că se va găsi pe acelaşi teren pe care l-au învăţat şi l-au condus comentatorii. Terenul meu e d’altro mondo. Un pazzo care a supus criticii tot ce s-a scris despre opera lui Dante şi n-a avut alt criteriu de judecată decît bunul-simţ. Pentru că e sigur că nici Dante n-a avut altul”. Sono facili da mettere in evidenza la passione e perfino “l’ossessione” che tormentavano l’autore.

            O.P.: Da quello che ne so, egli ebbe la decenza di non pubblicare i suoi appunti.

            L.A.: Non li pubblicò perché era in un continuo work in progress. Come non fece stampare nemmeno la sua traduzione, che era ugualmente in un work in progress.

            O.P.: Non ne fu stampato niente, prima della sua morte?

            L.A.: Egli fece pubblicare sulla stampa letteraria di quel tempo i canti XXXIII e XXXIV dell’Inferno, i suoi migliori successi di traduzione, ma anche altri. La maggior parte dell’intero lavoro rimase tra le sue carte e ne fu disseppellito, più tardi, dal professor Ramiro Ortiz. Ma vorrei sottolineare un’altra cosa adesso. Ci capita a volte nella vita di rimanere ossessionati da un certo scopo, che ci sembra fondamentale. Per esempio nella nostra biografia, o nella nostra attività professionale. Mi sembra essenziale finire questo libro che sto scrivendo adesso. Ho a disposizione due settimane. Non mangio, non dormo, faccio tutti i sacrifici, scrivo come un pazzo perché ho questo limite esclusivo. Finisco il mio libro, lo pubblico e forse dopo dieci anni, quando lo rileggo, non mi dice più niente, invece mi ricordo con vergogna di quelle giornate in cui, per esempio, non trovavo il tempo per lavarmi. O per farmi la barba. Quel sentimento di imbarazzo nei miei propri confronti mi è rimasto in mente e mi tormenta. Invece il contenuto del libro, che per me a quei tempi era assolutamente vitale, adesso si è dissipato. Ho fatto un esempio del tutto immaginario e costruito ad-hoc, per sottolineare che, ecco, possiamo avere grandissime preoccupazioni esistenziali, le quali con il tempo spariranno, invece quello che è stato allora meno rilevante per noi, con il passare del tempo, ha potuto ricevere, tutt’al contrario, altre dimensioni, un nuovo peso.

            O.P.: Forse davvero la persistenza dei ricordi di natura fisiologica o materiale è più forte. È possibile.

            L.A.: Qui Marcel Proust sarebbe un grande specialista, a cui potremmo chiedere aiuto: le care immagini di Combray e di zia Léonie rischiano di allontanarsi, invece il gusto di un banale dolce, la madlena, si è prolungato con gli anni, suscitando inattesi brividi. Ritorniamo però a Coşbuc, che sembra aver subito la stessa sorte: egli fece una enorme scommessa con il suo commento dantesco, e invece oggi, dopo la sua morte, il peso e il senso delle cose è cambiato e lo ammiriamo soprattutto per la sua meravigliosa vittoria come traduttore della Divina Commedia. Dobbiamo aggiungere subito che in romeno ci sono cinque traduzioni complete del capolavoro dantesco. Questo rappresenta ormai una bella realtà, da invidiare a livello mondiale.

            O.P.: E ce ne sono altre ancora, ma frammentarie.

            L.A.: Sì. Alcune parziali.

            O.P.: Come ti spieghi questa strana passione? È piuttosto una specie di torneo, un concorso di natura medievale?

            L.A.: È una sfida. Ed è ugualmente la scommessa di alcuni che vogliono vedere il loro nome vicino a quello di Dante, per tirarsi fuori da una situazione meno gloriosa. Ma è una sfida nobile, che si deve applaudire e ammirare.

            O.P.: La biblioteca di Coşbuc ci è rimasta fino a oggi e, insieme a essa, dei brani importanti della sua bibliografia dantesca.

            L.A.: Dopo quella di Coşbuc, la successiva versione in romeno, cronologicamente parlando, è dovuta ad Alexandru Marcu, l'importante italianista del periodo interbellico, professore all’Università di Bucarest, con diverse responsabilità nella vita politica, pubblica e universitaria. Egli fece stampare un articolo, Perché ho tradotto la “Divina Commedia” (che ho letto proprio ieri, perché mi sto documentando in vista di uno studio più ampio). Lo scrittore confessa che, facendo per anni Lectura Dantis, ha voluto dare una traduzione con finalità didattiche, per i suoi studenti, in modo che questi avessero davanti agli occhi, d’una parte, l’originale, e dell’altra parte la variante romena in prosa. Due-tre anni dopo l’uscita del Paradiso tradotto da Coşbuc e commentato da Ramiro Ortiz, ecco che Alexandru Marcu comincia a stampare la sua traduzione. Oltre a questi due, abbiamo l’interessante storia di un giovane, chiamato Ion A. Ţundrea, il quale aveva studiato in un liceo di Turnu Severin e sin da allora si era affezionato alla cultura peninsulare. Specialmente perché alla fine degli studi aveva fatto una memorabile gita in Italia. C’era in quel tempo un’interessantissima abitudine: i professori e gli alunni risparmiavano i soldi, anno dopo anno, durante gli studi liceali, in modo che alla fine fosse accantonata la cifra per la gita. Questo Ţundrea, figlio di una famiglia povera di contadini, fu ricompensato, come migliore della classe, con un viaggio indimenticabile. Tutti quanti andarono con la nave, sbarcarono in Sicilia, poi in treno salirono successivamente, videro Roma, il Vaticano, Firenze, i luoghi danteschi, i più importanti punti turistici, Milano, Venezia; a nord oltrepassarono i confini della penisola e tornarono per l’Austria. Fecero questo giro impressionante, che rimase nei loro ricordi per tutta la vita. Alla fine del liceo, Ion Ţundrea proseguì con gli studi di medicina, non ebbe una laurea in lettere, e lavorò poi come medico. In parallelo cominciò a tradurre la Divina Commedia, in versi, rispettando la rima, la terzina, l’endecasillabo ecc. Finì il suo lavoro nel 1940 e pubblicò cinque anni più tardi l’Inferno, con la brevissima prefazione di Nicolae Iorga. Fu chiamato sotto le armi, come medico militare sul fronte. Si spense nelle ultime giornate di guerra, malato di tubercolosi. I suoi manoscritti rimasero in possesso della famiglia, che cercò per decine d’anni, senza successo, di pubblicarli. Si sapeva dell’esistenza della traduzione, di cui una copia era stata depositata, per essere consultata, presso la Biblioteca dell’Accademia Romena e fu menzionata dagli studiosi. Solo nel 1999, dieci anni dopo la caduta del comunismo, fu stampata questa variante di Ţundrea, in tiratura discreta, presso la Casa Editrice… Medica (che ironia del destino!), un editore del tutto estraneo alla letteratura. Assolutamente per caso sono riuscito a comprarmene una copia e a conoscere l’avventura di questa versione stampata, ecco, più di metà secolo dopo la sua conclusione.

            O.P.: Com’è la traduzione di Ţundrea?

            L.A.: È buona. È onesta, è diligente. Non appartiene a uno scrittore, è alquanto povera. Ma è ben fatta.

            O.P.: Pensi alla sua destrezza di vocabolario?

            L.A.: Sì. E anche alle sue abilità letterarie. Si capisce che è fatta da qualcuno senza la pratica della parola. Ma è di straordinaria onestà, di buona fede, di grande sforzo e di buona conoscenza del testo dantesco. La grande trappola è proprio questa: non puoi iniziare la traduzione prima di essere in possesso dei contenuti stessi che devi trasmettere. Vista la loro grandissima complessità, il rischio di sbagliare è immenso.

            O.P.: Per la loro semplificazione…

            L.A.: Per il loro fraintendimento. Per la comprensione sbagliata di quello che l’autore ha voluto dire. Perfino per la mancanza di conoscenza di quello che devi tradurre.

            O.P.: Ma il vocabolario dantesco non è difficile in sé, a causa del suo specifico cronologico? Ecco venire uno che non è scrittore e che sceglie di tradurre dall’intera letteratura italiana un’opera maggiore, è vero, ma scritta nella lingua del Medio Evo.

            L.A.: Devi appunto fare una scelta, sin dall’inizio. Dante arriva con la Divina Commedia – lo diceva Erich Auerbach – proprio nel momento della formazione dell’italiano letterario. C’era un bilinguismo chiaro, nei suoi tempi. D’una parte c’era il volgare, la lingua del popolo, l’italiano, che però non si scriveva, era solo parlato. C’erano pochissime persone istruite, gli intellettuali, che usavano l’italiano. La comunicazione scritta, ufficiale, si faceva soprattutto in latino, la lingua del Vangelo.

            O.P.: Per molto tempo si andò avanti così. Anche nel Rinascimento.

            L.A.: Una delle intenzioni fondamentali di Dante con la Divina Commedia fu proprio questa: attirare l’attenzione sull'esistenza di una nuova lingua, che valeva la pena di essere usata anche in contesto culturale. Egli voleva metterne in evidenza la dimensione intellettuale, gli aspetti nobili. (Anche per questo, Dante è pochissime volte comico. Egli è aristocratico, è aulico e quindi raramente divertente.) E che cosa dovrebbe fare il traduttore del Novecento? In che lingua dovrebbe tradurre? Noi non abbiamo il rumeno medievale. Il primo documento della nostra lingua risale al 1521. Noi avevamo lo slavo. Riempiamo tutto il testo di termini slavi? E così ammazziamo il lettore!

            O.P.: Secondo alcune nuove ricerche, un primo testo in lingua rumena risale al 1498…

            L.A.: Ci fu qualcosa prima della Lettera di Neacşu del 1521?

            O.P.: Sì.

            L.A.: Prima di Neacşu? Questa è una novità per me.

            O.P.: Sì. Claudia Tiţa, la moglie del poeta Ion Mircea di Sibiu, ha pubblicato sulla rivista Cultura, dov’era segretaria di redazione (della prima serie), un intervento in questo senso. Mi ha interessato moltissimo perché, come sai, sto lavorando a una storia della letteratura romena medievale, nel senso che includo nella letteratura romena anche gli scritti slavi del nostro spazio. Ma insomma.

            L.A.: Comunque l’informazione deve essere presa con cautela prima di vedere se l’ipotesi sarà accettata o meno dalla comunità scientifica. Per adesso è comunque una novità.

            O.P.: Sì, ma la possiamo enunciare.

            L.A.: L’uso comune, l’accezione generale considerano come primo documento della lingua rumena la Lettera di Neacşu, del 1521. E allora che cosa può fare un traduttore? In quale rumeno medievale tradurre Dante? Oppure: che senso ha costruire, in modo artificiale, un rumeno medievale?

            O.P.: La distanza tra il rumeno del Trecento e quello del Seicento, che proseguì fino a noi, è molto più piccola di quella tra il romeno del Settecento e quello del secolo successivo. Il problema è diverso però, secondo me: quale deve essere il nostro atteggiamento? Includiamo gli arcaismi o adattiamo al rumeno moderno?

            L.A.: Si tratta di tutt’una serie di scelte generali che il traduttore deve fare.

            O.P.: Da quello che ho notato io, le traduzioni hanno cercato la via di mezzo, non hanno arcaizzato al livello del vocabolario, ma hanno incluso a volte piuttosto delle inversioni di topica, per dare l’impressione dell’arcaismo; un trucco letterario, in fin dei conti.

            L.A.: Dobbiamo tenere presente che Dante inventa qualche volta, intenzionalmente, delle parole mai esistite prima. Le adatta. Abbiamo visto entrambi poco fa un brano in internet, dove si parlava di “quidità”. Un termine latino adattato all’italiano, ma che non è più né uno, né l’altro. Dante ha delle terzine scritte direttamente in latino. Quelle rimarranno certo così. O delle parole inventate. Per esempio un terribile diavolo si fa avanti, all’inizio del canto VII dell’Inferno, e grida: “Pape Satán, pape Satán aleppe!”. Una frase di cui si scrissero tantissimi commenti, cercando di spiegare che cosa significa “Pape”, che cosa c’entra “Satan”, se per caso “aleppe” proviene o meno dalla prima lettera dell’alfabeto ebraico ecc. Alla fine, la convergenza degli specialisti fu l’idea che si trattava di un linguaggio demoniaco, privo di senso, che rifletteva il “chiasso” assurdo dell’Inferno e che sarebbe una pazzia cercare dei sensi là dove non se ne trovano proprio.

            O.P.: Con la voce di quel diavolo parlava probabilmente James Joyce, del Finnegan’s Wake… Come si sa, l’intero contenuto del suo libro include le sonorità modificabili dal punto di vista anamorfico, che conducono per le foreste dell’oscurità anche ad altre radure che non quelle direttamente decifrabili.

            L.A.: Infatti! Ecco quindi che ci sono, nell’accezione convergente dei ricercatori, brani che Dante lasciò di proposito confusi, privi di senso, per rispecchiare l’illogicità dell’inferno stesso. E allora che cosa fa il traduttore? Dà senso là dove non ce n’è? Oppure traduce in una lingua che non ci fu mai da noi e che non c’è più nell’Italia di oggi? O fa – come ci ha provato Eta Boeriu – un Dante lirico? Un Dante molto vicino alla lingua contemporanea? È anche questa una scelta – che io non condivido. O un altro problema sollevato da Eta Boeriu, nel suo studio Come ho tradotto la “Divina Commedia”: noi siamo lettori romeni. La maggior parte dei romeni è ortodossa. Se io, in quanto traduttrice, portassi qui i termini della religione cattolica, non farei amare Dante. Io lo devo “attualizzare”.

            O.P.: Il Purgatorio come si chiama tra gli ortodossi?

            L.A.: Non si tratta di questo. Invece non avremo più lo “Spirito Santo”, ma “Sfîntul Duh” e tutt’una serie di termini specifici: “prescură”, “psaltire”, “tropar”, “toacă”, “Ucigă-l toaca” ecc. La terminologia cattolica è trasposta nel lessico autoctono. Un Dante ortodosso… Mi sembra, anche questa, una scelta molto audace, però ingiusta.

            O.P.: Se pensiamo alla fiumana di greci che si rifugiarono davanti ai turchi e contribuirono alla diffusione del Rinascimento, con Georgios Gemistos Plethon e gli altri… Se pensiamo al Concilio di Ferrara-Firenze, dove le Chiese si ritrovarono dopo più di tre secoli di scisma… Se pensiamo a tutto il commercio di idee che troviamo anche a Venezia fino al Seicento, dove si stampavano libri per gli slavi dell’Oriente, per il mondo greco al di là dell’arcipelago, fino ai Paesi romeni, allora forse le distanze non sono più così grandi. Comunque la scelta rimane difficile per il traduttore.

            L.A.: È questo il vero problema: il viaggio di “va e vieni”. Quanto “mi sposto” verso lui e quanto “attiro” lui verso me. Si deve mantenere un equilibrio! Secondo me, se trasponiamo Dante nella spiritualità ortodossa, lo attiriamo già troppo verso noi. Forse il traduttore avrebbe dovuto “spingere” di più il lettore verso lo spazio italiano.

            O.P.: Gli ha fatto cambiare il berretto fiorentino con una giubba orientale.

            L.A.: Forse qui si è andati un po’ lontano.

            O.P.: È un rischio. Ma guarda che cominciamo a criticare Eta Boeriu prima di arrivare con il discorso principale da lei. Si tratta della prossima versione?

            L.A.: Successivamente a Ion Ţundrea, che lasciò una traduzione onesta, pulita, bella – purtroppo con commenti brevi ed elementari…

            O.P.: Era sotto la pressione del tempo? O gli mancava semplicemente la padronanza degli studi danteschi?

            L.A.: Tutt’e due, forse. Non dobbiamo dimenticare che molte di queste traduzioni si fecero addirittura durante la guerra. Proprio ieri stavo leggendo l’intervento di Alexandru Marcu, Perché ho tradotto la “Divina Commedia”. È pubblicato nel 1944, quando la gente tremava sotto le bombe, si interrompeva la corrente, si pativa di fame, le persone morivano mitragliate per strada, e qualcuno era appassionato di Dante e pubblicava sulle prime due pagine della rivista Dacia Rediviva di Bucarest una simile confessione. Ti viene a dire: “Ma a che cosa gli serviva proprio?”.

            O.P.: È vero. Ma spesse volte riesci a sopravvivere senza il pane e senza la carne da mangiare, però non è altrettanto semplice farcela senza la luce spirituale, alla fine quantunque lontana del buio.

            L.A.: La concisione dei commenti di Ion Ţundrea è dovuta sicuramente tanto alla guerra, che lo colpì pienamente, quanto al suo triste destino, dato che egli si spense subito dopo. In parallelo a Ţundrea abbiamo la quarta variante, anche questa molto strana. È dovuta a un italiano che si era stabilito in Romania, Giuseppe Cifarelli, un ex-funzionario della Banca Nazionale. Anche a lui mancavano gli studi letterari, però ebbe una grande passione per Dante Alighieri e per la cultura romena. Visse in Romania nel periodo fra le due guerre mondiali. Si mise in testa di fare, per conto suo, una traduzione integrale, in versi, bene realizzata, corretta, seppure senza grande ingegno stilistico.

            O.P.: Si sa bene che di solito devi conoscere molto meglio la lingua nella quale stai traducendo.

            L.A.: Sì. La lingua “di destinazione”.

            O.P.: Quindi è un risultato impressionante che un italiano traduca la Divina Commedia in rumeno…

            L.A.: Sì, è un’opera davvero rara.

            O.P.: Venne personalmente dall’Italia, o c’erano già qui i suoi genitori? Te lo chiedo perché anche oggi abbiamo una grande comunità italiana in Romania.

            L.A.: Non lo potrei dire con precisione. Da quello che ricordo (ne ho letto qualcosa anni fa), mi sembra si sia stabilito da giovane in Romania. Visse qui, comunque, per alcune decine di anni. Comunque riuscì a imparare in modo così ricco e profondo la lingua rumena, che diede questa variante integrale, in versi, della Divina Commedia. La sua traduzione ebbe ugualmente un destino triste: rimase in manoscritto per decine d’anni e fu pubblicata solo dopo il 1989. Ci fu un’edizione in tiratura ristretta, presso una casa editrice oscura di Craiova, e la secondo ristampa, presso l’Editrice Dacia di Cluj, ebbe lo stesso una tiratura simbolica. Quindi la traduzione Cifarelli appartiene solo alla bibliofilia, fatta per pochissimi conoscitori.

            O.P.: Una parentesi sul destino del libro. La nostra cultura è molto lontana dai successi editoriali dell’Italia. Ho visto il lancio peninsulare di alcuni scrittori latino-americani. Uscivano sul mercato allo stesso tempo cinque romanzi, due volumi di novelle e anche due monografie dedicate a quegli autori. Lo spazio italiano ha una vera infrastruttura, gode della scienza manageriale per lanciare e imporre la cultura. Noi siamo lontani da queste realtà. E tuttavia noto con soddisfazione – mentre ti ascolto parlare di tante traduzioni apparentemente oscure, poco o per niente conosciute durante la vita dei loro autori, ma recuperate – che, pian piano, possiamo dire che anche da noi “i manoscritti non bruciano”, non tutti i libri vanno persi e ci sono realtà che si accumulano. Non credi?

            L.A.: Questa coscienza si crea specialmente per mezzo degli sforzi individuali e dell’ostinazione personale. Possiamo fare un piccolo paragone. Nel sistema occidentale, non solo italiano, se mi serve un libro, anche uscito vent’anni prima, c’è il servizio di prestito interbibliotecario o interlibrario, così qualora non fosse presente nella biblioteca o nelle librerie della mia città lo posso ordinare in un’altra località. Con i nuovi sistemi tecnici, ho la possibilità di ordinare un’edizione ristretta, stampata in poche copie. In Romania non abbiamo una simile cosa. Da noi esce il libro e ti butti a comprarlo, se hai un po’ di fortuna. E se l’hai perso, ne senti parlare nei ricordi degli amici, o ne leggi due righe all’angolo di qualche rivista…

            O.P.: Oppure la fortuna lo pone davanti ai tuoi occhi stupiti, in un negozio di antiquariato.

            L.A.: Infatti. Da noi si tratta effettivamente di un gioco d’azzardo; mentre da loro tutto è fatto con cura, in modo organizzato, grazie ad una struttura ben salda.

            O.P.: Io, per adesso, sono contento a questo primo livello, che i manoscritti che giacciono nascosti da qualche parte, abbiano a volte la fortuna di finire, seppure in piccole tirature, nelle mani dei lettori.

            L.A.: È vero. C’è anche questo aspetto ottimistico della nostra attività. Tutto sommato, lo scrittore non deve preoccuparsi troppo di quello che succederà al suo manoscritto. È più importante che lo scriva. Il suo libro troverà in fin dei conti la strada verso i lettori. Un tragitto più tortuoso o più dritto. Il più spesso delle volte, un percorso assolutamente sorprendente per lo stesso autore. Il quale non potrà nemmeno sospettare che nuove avventure infligge alla sua creazione.

            O.P.: Mi sa che a noi due sono già successe simili cose.

            L.A.: Infatti. Potremmo scrivere ciascuno un libro con le avventure dei libri che abbiamo scritto e pubblicato, o con le traduzioni che abbiamo fatto e abbiamo pubblicato o meno.

            O.P.: È vero. Qui si trovano le nostre letture degli archivi.

            L.A.: Se andiamo avanti, il quinto traduttore integrale, in ordine cronologico, è la stessa Eta Boeriu. Si deve aggiungere subito – come lo confessano tutti – che la traduzione della Divina Commedia è in genere il frutto di un lavoro intenso, di decine d’anni. Almeno venti.

            O.P.: Erano comunque una specie di pittori di domenica, vero? Cioè gente che traduceva nel tempo libero. Era un’attività fatta per piacere.

            L.A.: Non direi.

            O.P.: Non sto pensando a Coşbuc. Ma qualcuno come Cifarelli, per esempio, che era funzionario…

            L.A.: Per fortuna o per sfortuna, Dante non ti permette di fare il dilettante. Devi sudare sul testo, devi stare con altre cinque enciclopedie e dizionari aperti e scompigliati intorno a te, per verificare tutti i sensi secondari di un sintagma o di una espressione. E poi, in parallelo, diversi commenti danteschi, in diverse edizioni.

            O.P.: Questo vuol dire che perfino i più rudimentali autori di traduzioni che ricordavi avevano avuto dietro un’intera armatura di erudizione?…

            L.A.: Non c’era altra scelta. Era il loro primo obbligo: conoscere il testo fino in fondo. Senza questo, ti metti a lavorare inutilmente. La quinta in ordine cronologico è, quindi, Eta Boeriu, che portò a buona fine la sua versione dantesca in piena epoca staliniana, alla metà del Novecento.

            O.P.: È considerata addirittura l’opera della sua vita, no?

            L.A.: Forse. La prima traduzione integrale prestigiosa di Eta Boeriu fu comunque il Decameron di Boccaccio. Dante venne soltanto dopo. Si può affermare che Eta Boeriu sia la più importante traduttrice della letteratura italiana in lingua rumena. Praticamente lei trovò equivalenze per le più grandi personalità: Dante, Petrarca, Boccaccio…

            O.P.: Nina Façon non entra in gara?

            L.A.: …ma tradusse anche Michelangelo, Leopardi, Giovanni Verga, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Elio Vittorini, nonché un’antologia poetica italiana dagli inizi fino al presente, ma anche un’antologia della poesia siciliana ecc. Per quanto riguarda Nina Façon, lei si affermò prima di tutto non per le sue traduzioni artistiche, ma per l’attività di ricercatrice e di professore universitario…

            O.P.: Non fu lei a tradurre Giambattista Vico?

            L.A.: …a cui dobbiamo soprattutto un dizionario enciclopedico della letteratura italiana, nonché una storia letteraria italiana. Quindi una sistemazione di tipo universitario, precisa, di grande diligenza filologica. Tradusse in rumeno, infatti, Vico e Machiavelli, ma anche la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis. Tornando alla traduzione della Divina Commedia compiuta da Eta Boeriu, abbiamo già prefigurato alcuni concetti che si trovarono alle basi del suo lavoro. Il principio fondamentale fu quello dell’attualizzazione…

            O.P.: Lei scelse di comunicare con i suoi contemporanei.

            L.A.: Sì, fu una persona di straordinaria delicatezza e di grandissima sensibilità dell’anima. Questo è anche un rischio, quando sei tradotto da una bella signora (con tutto il rispetto dovuto alle traduttrici): puoi finire mutato in veste lirica. Qualcuno come Petrarca, sì, fu lirico. Ma Dante fu molto più di tanto! Dante rappresentò una sintesi di epico, lirico e tragico. Invece Eta Boeriu mise l’accento appunto sul lirismo di Dante, lo avvicinò a Petrarca – facendo una piccola falsificazione. Lo attirò verso lo spazio ortodosso – altra piccola falsificazione. Lo ripulì di una serie di arcaismi – una nuova piccola falsificazione. Lo edulcorò e lo contemporaneizzò eccessivamente, lo fece più “poeta” di quanto sarebbe stato necessario. Dante è poeta, sì, ma è anche molto di più, è l’autore che usa la poesia per comunicare i suoi insegnamenti. La poesia rappresenta per lui non uno scopo, bensì un mezzo.

            O.P.: È vero. Ma la tua “esecuzione” nei confronti di Eta Boeriu mi sembra tuttavia sommaria. Vorrei addolcirla un po', se me lo concedi, con alcune considerazioni di natura storica. Penso al fatto che Dante è poeta per eccellenza, anche se lo esaminiamo da autore che supera i generi letterari. La sua opera – mi riferisco a questa trilogia affascinante – è in uguale misura epica, ma anche lirica. Guardando diversi siti in internet, o i commenti critici, la gente lo considera comunque uno dei promotori del Dolce stil nuovo. Cioè un nuovo stile di poesia, in cui divenne famoso accanto ad altri poeti, meno notevoli di lui, ma insieme a loro. Prima di Petrarca, prima del Rinascimento come tale, Dante viene con un nuovo stile, ma continua anche quello che c'era stato prima di lui, la poesia per eccellenza piena di epico, dei Minnesänger dello spazio tedesco, dei trovatori e dei trovieri dello spazio provenzale, ancora estremamente prestigioso dal punto di vista lirico e culturale…

            L.A.: Lo spazio francese era il più prestigioso e molto ben conosciuto da Dante. Troviamo a volte delle sorprendenti reminiscenze francesi nel lesico e nella frase della Divina Commedia.

            O.P.: Certo. Dunque non mi sembra una scelta illegittima, quella di Eta Boeriu, da questo punto di vista.

            L.A.: È discutibile, comunque.

            O.P.: Sì, la possiamo discutere e lo stiamo facendo proprio adesso. Del resto, per quanto riguarda le sue scelte di simpatia ortodossa – discutibili anche dal mio punto di vista – abbiamo già ricordato questi legami con i greci, con tutto quello che voleva ancora dire il Bisanzio, che per mezzo dell’imperatore Paleologo andava a Roma per fare l’unione in persona, nella speranza di un aiuto occidentale contro i turchi. C’è tutto questo mondo che spesse volte percepiamo in toni troppo risoluti, in cui il negozio si faceva non solo con le idee e con i valori, ma a volte anche con la morale. Non so se mi spiego bene, non vorrei trasformare Dante in un ortodosso. Nemmeno per sogno! Non ti dimenticare però che a Ravenna trovi uno dei più grandi mosaici e un’atmosfera impregnata della presenza di una Bisanzio imperiale.

            L.A.: Infatti! Ravenna è bizantina nel modo più schiacciante.

            O.P.: Sì, è affascinante! E secondo me questo fa Dante ancora più ricco. Soprattutto se leggi la traduzione di Eta Boeriu in parallelo con altre versioni. Ti chiederò subito qual è la tua scelta personale, quale ti piace di più. Probabilmente quella di Coşbuc.

            L.A.: Ho già espresso la mia preferenza. La variante più ricca, dal mio punto di vista, è quella di George Coşbuc.

            O.P.: Non è un po’ desueta?

            L.A.: Non più del necessario. Un tratto fondamentale del lessico dantesco è la sua desuetudine – senza niente di spregiativo.

            O.P.: Come una specie di moneta d’argento, vecchia, un po’ annerita dal tempo?

            L.A.: Dante si include nelle strategie poetiche medievali. Egli ci dà la sintesi tematica, del pensiero e della filosofia medievale. Ma anche nella forma della sua espressione (forse ne parleremo in futuro), egli è un medievale per scelta propria. Trasformarlo in un lirico romantico dell’Otto-Novecento rappresenta una distorsione. Torniamo così al punto di partenza.

            O.P.: Quanto ossessivamente fedeli dovremmo essere nei confronti del testo.

            L.A.: Appunto. Quant’è che ci “spostiamo” noi e quanto invece lo “attiriamo” verso di noi. Per esempio c’è un libro imponente, di alcune centinaia di pagine, scritto da Miguel Asín Palacios, che parla del lato islamico dell’opera di Dante. Una tesi che colpì tutti quanti, destò stupore. Questo Asín Palacios è un ottimo ricercatore ed esperto del mondo e della mitologia islamica. Egli fece una combinazione tra le sue conoscenze erudite, acquisite in lunghi anni di studio, e l’universo teologico dantesco, nel quale notò tutt’una serie di simmetrie e di sorprendenti coincidenze, che vanno fino al livello delle implicite citazioni.

            O.P.: Vorrei proprio farne una discussione più ampia. Ci dobbiamo riferire anche alle tesi che facevano di Dante un esoterico.

            L.A.: Ci sono pure queste. Ma per Asín Palacios, Dante è un erudito musulmano, che va in giro a ripescare le sorgenti arabe (sebbene manchino assolutamente le prove che il poeta italiano abbia conosciuto quella spiritualità o quella lingua)…

            O.P.: Mancano però anche le prove che non le abbia conosciute…

            L.A.: È vero. E quindi Asín Palacios stabilisce una catena di simmetrie. Le sue conclusioni, però, non hanno una base solida, dal punto di vista cronologico e dei dati scientifici a nostra disposizione. Esse ci mettono in angoscia, ma furono rifiutate da quasi l’unanimità dei dantisti italiani. Ci sarà stato ovviamente anche un sussulto di orgoglio nazionale offeso: come mai? Il nostro grandissimo Dante sarà per caso un propagatore dell’Islam? Impossibile! Se veniamo invece a analizzare tutto quanto dalla prospettiva della “confluenza delle civiltà” (e non parliamo adesso del “conflitto tra le civiltà”), ecco che la lettura di Asín Palacios non appare riduttiva, al contrario, apre le prospettive.

            O.P.: Attira l’attenzione su un lato verosimile, se ricordiamo anche il fatto che ci fu una scuola averroizzante dei filosofi parigini, contro cui il vescovo di Parigi, Étienne Tempier, pronunciava degli editti e che oggi fa nascere una vera e propria esegesi. Questi autori cominciano a essere tradotti anche nella nostra cultura, Boezio di Dacia e tanti altri. Ora, però – dato che ci stiamo avviando verso la fine del nostro incontro di oggi, che è solo il primo, ma sono contento che abbiamo finalmente cominciato questa serie di discussioni che progettavamo già da diverso tempo – vorrei notare brevemente che la Divina Commedia di Dante è come una specie di tarocco. Cioè la puoi leggere in tante direzioni. E questo indica il fatto che ci troviamo nell’intervallo di una grande apertura.

            L.A.: Il problema è che abbiamo la cornice di un quadro, come dicevo. Le cose che effettivamente esistono – testimonianze, biografie, prove storiche, i testi letterari-scientifici dello stesso Dante – rappresentano una cornice. Quindi veniamo a esaminarla: coloro che si proclamano dantisti in che misura ci stanno dentro? Ci si trovano vicini o esprimono solo le loro proprie ossessioni? In un recente saggio di Horia-Roman Patapievici, che ho discusso già altrove, Dante è considerato un grande esperto in fisica, astrologo prestigioso che precede le teorie matematiche di Riemann e di Einstein ecc. Ma si tratta di un’evidente esagerazione protocronistica! Una tale ipotesi rimane all’esterno della cornice! Oppure abbiamo Asín Palacios che considera Dante un seguace della mitologia islamica. Ne scrive un libro di centinaia di pagine, estremamente convincente, con argomenti ed esempi molto preoccupanti. Ma finché non ci sono testimonianze dirette, prove attendibili, si tratta solo di strumentalizzazioni! Non importa adesso che le idee di Asín Palacios siano state rifiutate da quasi tutti gli specialisti italiani. Però la sua tesi effettivamente non è valida dal punto di vista scientifico, anche se, strutturalmente parlando, mette in scena situazioni estremamente convincenti. Oppure questa lettura esoterica che ricordavi. Fino a quando non ci saranno prove attendibili, “palpabili”, trasparenti, due parole buttate qua e là non credo possano indicare un eventuale esoterismo di Dante.

            O.P.: Adesso farò lo spiritoso: secondo me, l’esoterismo per questo è esoterismo, perché non lo puoi dimostrare in modo esplicito.

            L.A.: È vero. Ma tutto sommato noi vogliamo seguire un metodo scientifico. Usiamo argomenti che verifichiamo concretamente per giungere a conclusioni di natura ugualmente scientifica.

            O.P.: E cerchiamo di arricchire le interpretazioni anche per mezzo di una lettura probabilistica, là dove ci mancano le certezze.

            L.A.: Dobbiamo essere però molto prudenti in questa direzione probabilistica. Lo ripeto: da una parte le nuove metodologie arricchiscono Dante, lo fanno più attuale, più sorprendente; dall'altra, esse rischiano anche di tradirlo. Sarà dunque più indicato non soffocarlo con il nostro abbbraccio pieno d’amore, buttandogli addosso tutti i cristalli della nostra ammirazione speculatrice. È meglio guardarlo dalla semidistanza e apprezzarlo con un’analisi critica razionale.

            O.P.: Si tratta, una volta in più, della tua scelta personale, adesso che Heidegger è interpretato in letture di sinistra, mentre i suoi scritti si dimostravano evidentemente piuttosto di destra. Un’epoca in cui un autore di colore sta parlando delle radici “nere” della cultura elladica, quindi della sua dipendenza da influenze dell’Africa nera. Un autore tedesco, il signor Illig, parla di un grandissimo falso: secondo la sua lettura, ci mancherebbero praticamente duecent’anni dalla cronologia che oggi accettiamo nella storia. Egli pretende che l’epoca di Carlo Magno fosse direttamente seguita dall’anno Mille e che duecent’anni furono inventati, senza prove molto chiare. Possiamo contestarli. Possiamo considerare tutti questi autori come degli stravaganti. Ma le loro ipotesi hanno, secondo me, il ruolo di scuotere un po’ le letture polverose e forse in questo senso vale la pena di tener conto di alcuni “palacionismi” o di altri interventi del genere.

            L.A.: Le stravaganze si devono trattare come tali: con ammirazione o con un sorriso un po’ scettico. Non dobbiamo dimenticare neanche il nostro affascinante saggista Alexandru Paleologu, il quale sottolineava che la Grecia antica aveva preceduto di tanti secoli la civiltà europea vera e propria. Quindi noi, qui, in Oriente, non dovremmo assolutamente avere complessi culturali di inferiorità. Il vero spirito europeo, il vero Occidente si trova nell’Est. Certo che si tratta di una speculazione lusinghevole, ma non più di una speculazione.

            O.P.: Vorrei aggiungere qualcosa sulla traduzione di Eta Boeriu, al passo dove parlavamo della trasformazione troppo lirica di Dante. Secondo me, questo può essere avvenuto per un eccessivo coinvolgimento personale della poetessa, del suo temperamento, del suo modo di essere. Nello stesso tempo può esserci stata anche un’influenza del contesto in cui lei si era formata come scrittrice. Sto pensando al Circolo letterario di Sibiu, dove Ştefan Aug. Doinaş, Radu Stanca ecc. parlarono della risurrezione della ballata, insisterono molto sul recupero del lirismo, nell’epoca in cui questo era un gesto di sfida e di coraggio, in rapporto agli inizi assolutamente devastanti dello stalinismo in Romania.

            L.A.: Tutto questo può essere vero. Nel caso di Dante però, anche in modo cosciente, l’autore diversifica la propria espressione artistica, secondo i tre regni dei quali sta parlando. Nell’Inferno Dante è molto più duro nella sua espressione, usa rime estremamente forti, che colpiscono.

            O.P.: Ammucchia le consonanti…

            L.A.: Sì, nel contesto delle analisi stilistiche si è notato che usa soprattutto le consonanti dure, la “esse”, la “erre” ecc.

            O.P.: Abbiamo quindi le consonanti infernali…

            L.A.: I colori più frequenti sono il nero e il rosso (è stato già ugualmente notato). Invece nel Paradiso siamo all’estremo opposto. Predominano le consonanti dolci, tipo “elle”, le vocali, la luce è bianca e il lirismo è più esteso. Qui, nel Paradiso, si può rintracciare a volte in Dante quel Dolce stil nuovo che ricordavi. Non troviamo il Dolce stil nuovo all’Inferno e ne troviamo pochissimo nel Purgatorio. L’autore sta adeguando il proprio tipo di espressione a quello che vuole esattamente esprimere. Ma quando il traduttore trasforma tutto quanto in un unico lirismo, secondo me tradisce questo tentativo di diversificazione dell’autore.

            O.P.: Dobbiamo concludere per il momento che il povero traduttore fa tutto quello che gli è possibile, ogni volta, con piena onestà e probabilmente con tutte le capacità intellettuali di cui dispone. Comunque fossero queste traduzioni – oggi abbiamo parlato solo di quelle portate a buona fine, non anche di quelle parziali…

            L.A.: …ma potremmo aggiungere qualche cosa anche delle altre…

            O.P.: Sì. Ne varrebbe la pena. Esse rappresentano, comunque, uno straordinario regalo offerto alla cultura romena.

            L.A.: …e anche una grande vittoria personale! Davanti a ciascuno di questi cinque possiamo inchinarci, con il cappello tolto in segno d’ammirazione (se abbiamo ancora il cappello nel XXIo secolo). Noi, se abbiamo paragonato le cinque versioni, abbiamo usato un metodo intellettuale obbligatorio per conoscere meglio la realtà.

            O.P.: Era anche una buona opportunità per ricordare la loro esistenza.

            L.A.: Certo. Ma dopo aver istituito questa gerarchia – per forza soggettiva e discutibile –, davanti a ciascuna delle cinque varianti rumene della Divina Commedia e dei loro autori dobbiamo piegarci con rispetto.

 

(capitolo di un futuro volume)