Laszlo Alexandru

 

MARIAN PAPAHAGI: RITRATTO NON RITOCCATO

 

 

            Ho seguito il dibattito agitato svoltosi recentemente sulla stampa letteraria romena intorno a Marian Papahagi e chiuso con inni ed elogi ai piedi della statua venerata. Sono rimasto sorpreso nel notare che la provenienza universitaria dei partecipanti non avesse attenuato la grandine di colpi bassi, argomenti da sofisti e menzogne flagranti. Mi sono sentito confuso. Se avessi creduto alle frottole lette, avrei dovuto rinnegare i miei ricordi e le mie personali informazioni, raccolte per esperienza diretta. Mi sono detto che la migliore soluzione fosse quella di fare una rassegna comparativa tra quello che ho letto e quello che conosco. Per chiarire in questo modo la realtà e, allo stesso tempo, per spiegare a un lettore più giovane o meno avvertito, la verità.

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            Nel suo intervento per l’inchiesta dell’Observator cultural dedicata alle "Scommesse culturali", Marin Mincu confessa all’improvviso una sua grande meraviglia. Il professore italianista ha avuto l’opportunità di constatare che il suo prestigioso collega di Cluj, sebbene svolgesse un incarico di rilievo nella propaganda culturale esterna del nostro paese, sembrava scettico sull’oggetto del suo lavoro: "Mi ricordo che, nel dicembre 1997, quando Marian Papahagi fu nominato direttore dell’Accademia di Romania a Roma, ci incontrammo nel suo ufficio dell’Accademia e gli proposi di unire i nostri sforzi per diffondere meglio la nostra letteratura nello spazio italiano. Fui estremamente sorpreso quando questi mi rispose secco che «si deve anche credere nei valori che si intende diffondere», frase da cui risultava, senza equivoco, che egli non credeva nei valori della letteratura romena". Nonostante la conclusione unilaterale enunciata da Marin Mincu, la risposta che si vide ricevere in faccia è piena zeppa di ambiguità. Essa sembra riflettere lo scetticismo del nuovo funzionario culturale non tanto nei propri poteri, quanto piuttosto nelle capacità di azione del suo interlocutore. Questa ipotesi può essere confermata anche dal sottoscritto il quale, nella seconda metà degli anni ‘80, ebbi l’occasione di sentire alcune opinioni in merito, per niente lusinghiere, di Marian Papahagi (bloccato dal regime comunista per lunghi anni in Romania), a proposito di Marin Mincu (per anni altrettanto lunghi titolare di una cattedra universitaria in Italia).

            Comunque, quando due accademici puro sangue si punzecchiano a vicenda dietro le quinte, cercando allo stesso tempo di mantenere le apparenze di convivialità, fingere l’innocenza non rappresenta per nessuno una soluzione credibile.

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            Proseguendo con la vendetta, Marin Mincu scrive d’un tratto: "Con grande dispiacere noto oggi che Marian Papahagi (forse anche perché si è spento troppo presto) non ha fatto niente per la letteratura romena (non ha pubblicato nessun articolo di promozione su una rivista importante e non ha parlato con nessun editore per far tradurre e stampare almeno Ion Mircea e Adrian Popescu, i suoi amici), sebbene l’avesse potuto fare, nel breve intervallo in cui ha svolto il più alto incarico culturale…". Quest’affermazione, quanto imprudente, tanto inadatta nelle sue parole, ha scatenato una tempesta di reazioni violente. In realtà Marian Papahagi fu, negli anni ‘80, un osservatore attivo della letteratura romena, nello spazio delle sue cronache culturali stampate sulla rivista Tribuna di Cluj. Egli stese alcuni studi di orignale ermeneutica su testi classici della storia letteraria romena, riprendendo – per esempio nel suo La critica di laboratorio – la ricerca delle varianti, sulla scia di Gianfranco Contini. Si preoccupò della redazione e della coordinazione, insieme ad altri, del Dizionario degli scrittori romeni, uscito postumo e in parte oggi alquanto superato come interpretazione critica (ma importante come bibliografia e come iconografia).

            Tant’è vero che Marian Papahagi non fu un romenista, nel vero senso della parola, cioè non fece pubblicare studi e ricerche di divulgazione della lingua e della letteratura romena all’estero. L’attività analitico-speculativa di esegesi significa una cosa, invece lo sforzo sintetico-divulgativo è tutt’altro. Essi non si possono e non si devono confondere, nemmeno nei giudizi accesi lanciati sulla stampa culturale.

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            Le affermazioni di Marin Mincu, in parte maldestre, in parte giustificabili, ricevono la risposta di Ion Pop (in Observator cultural, no. 278/2005). Il corifeo di una volta del movimento culturale Echinox insiste che in questa situazione ci confrontiamo con "un’accusa che non esito a considerare esagerata. Sarebbe sufficiente leggere, per darne una radicale smentita, il volume La ragione di essere, che raccoglie, postume, le confessioni di fede espresse da Marian Papahagi: ci troviamo iscritta l’intera devozione di un uomo per i valori della cultura nazionale, incluso quello letterario, e una volontà quasi patetica di farli conoscere attraverso le istituzioni solide e i progetti di grande portata. Il fatto che non sia riuscito che a tracciarne il cantiere è dovuto, come ammette perfino l’emittente dell’ingiusta frase, appunto a quel decesso prematuro e alla brevità dell’«intervallo» di cui l’ex-direttore dell’Accademia di Romania dispose per mettere in pratica le iniziative culturali come quelle invocate".

            Quanto precipitosa la difensiva di Ion Pop (che trascrive in modo errato perfino il titolo del volume Ragioni di essere), tanto fragile nei suoi argomenti. Le pubbliche confessioni di fede non valgono ancora per fatti concreti. La volontà "quasi patetica" di grandi progetti e di solide istituzioni non significa ancora portare a buon fine grandi progetti e solide istituzioni. Il decesso prematuro di Marian Papahagi avvenne tuttavia dopo i 50 anni compiuti, età alla quale "i progetti di grande portata" tendono di solito a superare il livello di "volontà patetica". Proclamare intenzioni gigantesche, ma… non messe in pratica, per consacrare un’immaginaria statura titanica, non rappresenta altro che un processo di intenzioni, e cioè di intenzioni… non realizzate. Non importa se la grande esagerazione si fa per uno scopo generoso o meno.

            E guardate un po’ come girano le idee nella testa di Ion Pop! Anche se egli comincia la frase contestando apertamente l’ipotesi di Marin Mincu ("un’accusa che non esito a considerare esagerata"), tuttavia, dopo un piccolo interludio, chiude sull’implicito accordo, con la scusa delle circostanze attenuanti ("la brevità dell’intervallo"). Ah, quant’è affascinante il desueto sofisma provinciale.

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            "Avesse avuto davanti a sé, come Marin Mincu, altri vent’anni passati in Italia, avrebbe scritto senz’altro anche quegli «articoli» di sostegno, avrebbe fatto anche quelle proposte di edizione" – scrive Ion Pop senza batter ciglio su Marian Papahagi. Stupefacente argomentazione della solidità culturale, introdotta con verbi al condizionale passato, destinati a descrivere un futuro immaginario! Nel campo della grammatica italiana, tale periodo ipotetico esprime l’azione improbabile. Invece nel campo paremiologico, esso viene contrastato da una esortazione diretta: "non lasciare a domani quello che si può fare oggi". Non darà proprio nessun fastidio il sofisma flagrante per mezzo del quale le intenzioni e i progetti vengono promossi a livello di realizzazioni e vittorie personali?!

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            Il guanto gettato un po’ rumorosamente da Marin Mincu viene raccolto da un gruppo di professori specializzati nella divulgazione della cultura romena in Italia: Gheorghe Carageani, Marco Cugno, Bruno Mazzoni, Alexandru Niculescu, Lorenzo Renzi e Luisa Valmarin (in Observator cultural, no. 278/2005). C’è da meravigliarsi che una così brillante pleiade accademica si sia riunita per un così basso regolamento di conti di tipo pamphlettista. I lettori scoprono notizie sui… Capponi di Renzo Tramaglino (sin dal titolo) e si domandano, insieme agli autori: Marin Mincu sarà stato professore associato di ruolo o soltanto professore incaricato all’Università di Firenze? Sarà stato dimesso per giuste ragioni o in modo abusivo? Ecco qui particolari per niente accademici, anzi vergognosamente bassi, che con l’argomento in dibattito non hanno certo niente a che fare.

            Quando si viene a parlare anche dell’italianista di Cluj, i suoi avvocati peninsulari si lanciano in giudizi accesi e si propongono di condividere con noi niente meno che "la verità su quello che credeva e quello che ha fatto per la cultura romena Marian Papahagi, il più generoso e più brillante scienziato romeno che abbia messo piede sul suolo dell’Italia nella seconda metà del Novecento". Coraggioso tentativo. Imprudente iperbole.

            Supponiamo tuttavia che siamo invitati ad assistere non ad una riunione paranormale, anche se qualcuno si mette in testa di spiegarci… "la verità su quello che credeva" una persona che non si trova più tra noi. Resta da verificare, allora, la base scientifica delle frasi lanciate. Il suolo dell’Italia ha visto i piedi di non pochi romeni, alcuni di loro dei veri scienziati. Per quanto riguarda invece Marian Papahagi, tra 1968 e 1972, come studente universitario a Roma, poteva essere al massimo un giovane di grande speranza. Il suo esame per vincere la borsa di studio conteneva "i più numerosi sbagli di lingua" italiana, secondo i ricordi di una delle insegnanti che l’aveva esaminato a quei tempi, la prof.ssa Doina Condrea Derer (vedi Tribuna, no. 72/2005, p. IX). Tra la fine degli studi e dicembre 1989, a Marian Papahagi è stato assolutamente vietato di viaggiare nell’occidente. Il periodo tra dicembre 1997 e gennaio 1999, quando il professore ha lavorato come effimero direttore dell’Accademia di Romania, ha rappresentato "un troppo breve intervallo" (come stanno ammettendo perfino i sei magnifici delle università italiane). Ecco allora che "la seconda metà del Novecento" in cui "il brillante scienziato romeno" abbia messo il piede sul suolo dell’Italia si riduce infatti a un povero paio d’anni, con diverse intermittenze. A che cosa servono queste volgari esagerazioni partigiane?

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            Una vera Testimonianza bugiarda fa pubblicare Ioan-Aurel Pop in România literară (no. 30/2005). Nel tentativo di rovesciare l’osservazione corretta di Marin Mincu (secondo il quale l’italianista di Cluj non è stato, ugualmente, un romenista), il secondo Pop scrive con toni fermi e taglienti, in base ai suoi propri ricordi: "Ho conosciuto Marian Papahagi sin dal 1976, nell’atmosfera dell’Echinox a Cluj, dove «istruiva» dei giovani capaci di illustrare la letteratura romena, a conoscerla, a capirla, a spingerla avanti. Nello stesso tempo, per circa due decenni, prima di far risuscitare gli studi di italianistica a Cluj (fatto accaduto dopo il 1989), Marian Papahagi ha tenuto corsi e seminari di letteratura romena per molte classi di studenti universitari. L’ha fatto con grandissima abilità e ha suscitato soltanto ammirazione, secondo le testimonianze dei suoi studenti di una volta, oggi loro stessi dei creatori nel campo della letteratura romena". Un’esperienza personale ne vale un’altra, e tutt’e due si possono verificare con la realtà dei fatti. Gli studi di italianistica si sono proseguiti, senz’altro, all’Università "Babeş-Bolyai" di Cluj, negli anni ‘70-‘80, come seconda specialità. Che razza di professore – e storico, per di più! – è quello che non ha la minima idea sul curriculum della propria università? E poi, Marian Papahagi non ha insegnato letteratura romena a Cluj, bensì ha tenuto corsi e seminari di lingua e letteratura italiana, di lingua portoghese e di filologia romanza. Una semplice scorsa del suo C.V. esposto alla fine del Dizionario degli scrittori romeni avrebbe evitato a Ioan-Aurel Pop l'errore dei ricordi prefabbricati. È sorprendente come un intellettuale di oggi possa confondere le discussioni su un personaggio pubblico con il delitto di lesa maestà. Come egli voglia permettere soltanto l’espressione degli elogi, ma cerchi di bloccare le riserve. Come egli possa equivalere i liberi dibattiti con "l’attentato alla memoria culturale romena". È chiaro che Ioan-Aurel Pop va matto per l’odore di mirto e incenso. Questo problema personale non lo autorizza però a diffondere le sue scelte private nello spazio pubblico, per mezzo della testimonianza bugiarda.

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            Doriana Unfer è, negli ultimi anni, la diligente responsabile delle attività del Centro Culturale Italiano di Cluj. La sua devozione per la diffusione della cultura italiana l’avrà spinta probabilmente a organizzare un dibattito sulla figura di Marian Papahagi, con prestigiosi interventi ritenuti nel supplemento della rivista Tribuna (no. 72/2005). A differenza di altri intervenienti che hanno insistito, per giusta ragione, sulla vivacità, il dinamismo, il fascino personale e il razionalismo dell’intellettuale commemorato, Doriana Unfer si considera obbligata a sottolinearne le qualità morali: "Davanti a Marian Papahagi, ho sempre avuto la piena fiducia che le sue decisioni, giuste o sbagliate, potevano nascere da errori di apprezzamento, umani, invece mai da considerazioni di ordine personale. La sua assoluta integrità morale era fondata in permanenza sulla sua buona fede e sull’assenza delle passioni che non sono sempre separate dal mestiere di intellettuale". Una volta ancora, un’esperienza personale ne vale un’altra ed entrambe si possono verificare per mezzo dei fatti. Doriana Unfer non era ancora arrivata a Cluj quando, nel 1994, l’assistente universitaria Ana Covaciu si dimetteva dalla cattedra di italiano guidata con modi balcanologici dal professor Papahagi, nonché dal dottorato di ricerca svolto sotto il suo coordinamento. La giovane italianista rimproverava al suo capo i favoritismi con cui trattava alcuni studenti poco preparati, lo spirito autoritario con cui prendeva le decisioni, senza chiedere il parere ai collaboratori, l’incoraggiamento di figure obbedienti, lo scoraggiamento di personalità con spirito critico, nonché le sue azioni in flagrante contraddizione con i principi clamati rumorosamente. L’insegnante sottolineava nettamente, nella sua lettera di dimissioni: "Se vuole essere convincente, Lei non si può permettere di affermare in tutte le occasioni possibili che il solo criterio valido per la selezione dei nuovi membri della cattedra sarà l’attività scientifica e non le virtù di insegnante, per promuovere poi persone che non hanno mai dimostrato alcun interesse per uno studio filologico serio e approfondito. / Insomma, se vuole essere credibile non si può permettere di usare i princìpi come le camicie, secondo gli interessi del momento. (…) Me ne vado perché ho capito che per Lei la cosa più importante è avere sempre ragione e imporla agli altri e che per vincere userà sempre tutte le carte. (…) Se Lei e certi Suoi colleghi si sono abituati a mescolare il bianco e il nero in modo tale da rendere grigio il mondo in cui operano, non deve credere che tutti siano obbligati ad accettarlo. Anzi, io spero tanto che Lei non riesca nella Sua proposta di rovinare il senso critico degli studenti".

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            Altri dettagli sulla personalità ipocrita di Marian Papahagi saranno a disposizione del pubblico, nei miei futuri interventi sulla stampa, basati su quello che ho vissuto, su quello che ho letto. La squadra scatenata di echinoxisti e romenisti che si butta a riscrivere ad ogni costo il passato è invitata a prendersi per il momento un piccolo periodo di riposo.