Laszlo Alexandru

 

APPUNTI SU DANTE

 

 

            Petru Creţia fa pubblicare per l’Editrice Humanitas di Bucarest il libro Duomo di luci (Omero, Dante, Shakespeare). Il suo contributo sullo scrittore italiano rappresenta infatti uno studio sulla poetica della luce nella Divina Commedia, sgradevolmente superficiale, realizzato per mezzo di un’infinità di citazioni prive di qualsiasi tensione argomentativa o problematizzante. E se fosse solo questo.

            Ma “l’analisi" dell’Inferno comincia, sorprendentemente, così: “Il carattere cupo, tenebroso, oscuro della valle infernale non è una invenzione di Dante. Dantesca è però la presenza specifica di alcuni luci nell’Inferno e ugualmente l’integrazione del buio infernale nell’insieme della costruzione di luci che si alzano dalle profondità dell’oscurità per concludersi nell’empireo e nell’essenza divina. Potremmo dire addirittura che la più grande novità portata da Dante, dal punto di vista della luce, è la rappresentazione rembrandtiana dell’Inferno.

            Superiamo adesso, in fretta, la rumorosa successione pleonastica con l’aiuto della quale inizia l’autore il suo discorso: la valle dell’Inferno ha – niente meno – un carattere “cupo, tenebroso, oscuro”! A che serviva questo fastidioso manierismo?

            Ma non possiamo superare con la stessa velocità la stranezza dell’ultima frase citata. Dunque la grande novità portata da Dante è… la rappresentazione rembrandtiana?! Ho letto e riletto la frase, con meraviglia, facendo difficoltà a crederci.

            Come mai potè mettere in opera Dante, in modo rinnovante, al 1300, la visione di un artista che visse, tuttavia, al 1600? E che legame ci potrebbe mai essere tra due personalità diverse, affermate, ciascuna, per se stessa? È lo stesso come se dicessi nella letteratura romena che la più grande novità portata da Dimitrie Cantemir (nel Settecento) è la sua visione alla maniera di Nichita Stănescu (poeta del Novecento)! Oppure: il valore di Mihai Eminescu (nell’Ottocento) risulta dalle bellissime immagini alla maniera di Tudor Arghezi (poeta del Novecento). Dobbiamo comunque controllare un po’ i concetti che adoperiamo!

            Dobbiamo trattenere, soprattutto, per mezzo dei criteri cronologici, la nostra febbre comparatista! Dante lo merita pienamente.

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            Benvenuto da Imola su una predizione fatta al terribile Papa Bonifacio VIII, il grande nemico di Dante: “Penetrasti come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane”.

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            Osservazione interessante di Umberto Saba. Per essere davvero poeti, dobbiamo saper rimanere bambini nel nostro cuore. (E a pensare che Cesare Pavese risentiva questa situazione come uno svantaggio, un ostacolo contro la socializzazione e si accusava spietatamente, molto spesso, di non aver saputo “maturare” dal punto di vista psichico!)

            Ma questo non basta. Dobbiamo stabilire un perfetto equilibrio tra la nostra anima da bambini e la nostra esistenza da adulti. La sintesi ideale: Dante. “Dante è un piccolo bambino, continuamente stupito di quello che avviene a un uomo grandissimo, sono veramente «due in uno». Guardate come il piccolo Dante trasale, grida, si illumina di gioia, trema di collera e di (simulato) spavento, si esalta, si esibisce, si umilia per civetteria, si erge alle stelle davanti alle cose straordinarie (...). E contro a lui, unito a lui, Dante; Dante uomo intero, marito, padre, guerriero, uomo di parte, esule infelice e glorioso; Dante con tutte le tremende passioni dei suoi tempi e dell’età matura, in lotta con gli altri e (meno) con se stesso, ai quali i fatti davano sempre torto, tanto più sicuro d’aver sempre ragione, e quindi sempre con gli occhi fuori della testa, allucinato d’odio e d’amore”.

            E Umberto Saba prosegue, alla stessa altezza di tensione ideatica. Quando viene rovesciato l’equilibrio perfetto tra il bambino e l’adulto, possiamo diventare un Goethe, cioè il poeta comunque noioso, perché troppo “maturo”. Oppure, all’altra estremità, vediamo l’infantile Pascoli, “poeta puer”, che ci dà “insoddisfazione e un po’ di vergogna”.

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            Una lettura penetrante e allo stesso tempo sorprendente sul protagonista della Divina Commedia offrono nel Saggio su Dante le osservazioni di Ossip Mandelstam. “Dante è un plebeo. Nel suo cuore, Dante è un uomo del popolo, ma di vecchio sangue romano. Si caratterizza, quindi, non per gentilezza, ma per tutt’altro. Devi essere una talpa cieca per non vedere che, lungo l’intera Divina Commedia, Dante non sa come comportarsi, non sa come camminare, non sa cosa dire, non sa come salutare. Non sto inventando questo, lo deduco dalle numerose testimonianze dantesche diffuse nella Divina Commedia.

            La sua angoscia interiore e la goffaggine pesante, confusa, che accompagnano ad ogni passo l’uomo insicuro di se stesso, quasi maleducato, l’uomo che non sa approfittare della sua esistenza interiore e obiettivarla nei gesti della persona tormentata ed esiliata, tutto questo conferisce del fascino e del drammatismo al poema. Questi aspetti contribuiscono alla creazione dello sfondo del poema, del suo strato di mestica psicologica.

            Se Dante fosse rimasto da solo, senza "il dolce padre" – senza Virgilio, lo scandalo sarebbe scoppiato sin dall’inizio e avremmo avuto non un viaggio attraverso l’inferno e attraverso diversi posti memorabili, ma una buffonata.

            Le maldestrezze anticipate da Virgilio correggono e migliorano con insistenza il corso del poema. La Divina Commedia ci introduce nell’intimo delle qualità dell’anima di Dante. Quello che per noi si presenta come un cappuccio perfetto e una figura da aquila, era all’interno una goffaggine superata con grandi sforzi, come nella lotta del kammer-junker puskiniano per la sua dignità sociale e per la situazione sociale del poeta. L’ombra che spaventava i bambini e le vecchie era lei stessa piena di spavento. Alighieri era spesse volte mortificato: passava da straordinari accessi di fiducia in se stesso alla coscienza della sua completa nullità.”

            Queste osservazioni di Mandelstam sono altrettanto sorprendenti quanto incitanti al dibattito e alla dissociazione. La confusione più evidente che sta facendo lo scrittore russo è tra il personaggio Dante della Divina Commedia e lo scrittore Dante della vita reale. Che il personaggio Dante non sapesse comportarsi e parlare, durante il suo viaggio nel regno dei morti, ecco una situazione pienamente giustificabile dalle circostanze fittizie in cui si trovò all’improvviso (mi ritrovai per una selva selvaggia”). Un personaggio onnisciente, che si movesse con disinvoltura tra le enormità a cui assiste, darebbe una situazione inverosimile. Nessun vero artista si permette l’imbecillità di passeggiare con placidità in mezzo ai più terribili orrori.

            E d’altronde quale dei mortali, ritrovatosi in vita tra gli spiriti dell’altro mondo, riuscirebbe mai a non sconcertarsi, a non assistere a questo inatteso “spettacolo” come all’evento più speciale non solo della sua esistenza, ma addirittura dell’intero genere umano?!

            Una simile ipotesi sarebbe stata sbagliata, poi, dal punto di vista della costruzione letteraria. Il protagonista sicuro di se stesso avrebbe fatto inutile accanto a lui il ruolo di qualsiasi guida spirituale. Virgilio sarebbe rimasto lontano, nello sfondo, e il fondamentale asse di equilibrio tra i due personaggi principali, per mezzo dei quali Dante esprime la relazione tensionale maestro-discepolo, si sarebbe perso.

            Del tutto avventata è l’equipollenza tra il poeta e la sua proiezione fittizia nell’opera. Se portassimo avanti una simile inadeguatezza, dovremmo leggere nello stesso modo la sua opera di giovinezza, la Vita nuova, e dedurre dalle sue inflessioni eterico-principesche, dalla sopraelevata messinscena aristocratico-stilistica, che Dante fosse uno dei più grandi nobili per nascità dei suoi tempi. E invece niente di tutto questo! La Vita nuova ci offre soprattutto un gioco successivo di maschere e smascheramenti. La donna amata viene indicata per mezzo delle perifrasi, è nascosta tra le altre persone femminili, lei stessa nasconde così bene i suoi sentimenti che non sapremo mai se avesse amato o meno il nostro eroe il quale – anche lui – fa tutto quello che gli è possibile a non svelare la sua debolezza, finge di essere innamorato di un’altra solo per coltivare con più grande tenerezza nel profondo del cuore il suo amore per la vera donna scelta ecc.

            La spiegazione è molto più semplice di quanto provi a romanzarla Mandelstam. Nella Vita nuova il messaggio artistico richiedeva una esposizione tortuosa, velata in penombre, sottintesi e discrete coperture. Nella Divina Commedia, e specialmente nella sua prima parte, l’Inferno, la franchezza delle rivelazioni scabrose e spettacolose nella loro soprannaturalità provoca la confusione dei lettori e del protagonista. Questi non è arrampicato su un artificiale piedistallo di onniscienza, ma scopre insieme a noi il mondo dell’aldilà, si meraviglia o esita, si rallegra o soffre, si sdegna o rimpiange. E nelle situazioni di insopportabile tensione – sviene. Dedurre però, da queste esperienze al limite del personaggio Dante, che l’autore Dante fosse un plebeo, che non sapesse comportarsi nella vita – ecco una generalizzazione troppo audace, che soltanto l’amore eccessivo per il genitore della Divina Commedia poteva giustificare.

            La lettura simpatetica, quasi passionale, con cui una delle grandi vittime del Novecento, Ossip Mandelstam, si pronuncia su una delle grandi vittime del Medioevo, Dante Alighieri, suscita la mia ammirazione e il mio affetto. Ma non mi convince.

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            L’evoluzione (o il cambiamento) delle mentalità. Durante la lezione di letteratura su Dante, un’allieva non può capire per niente perché mai si trovano condannati all’Inferno i golosi. Come mai può essere la golosità un peccato? La sua spiegazione: sono a casa mia, chiudo la porta dietro di me, vivo dai miei soldi, faccio quello che mi pare, mica ammazzo nessuno, mica rubo da nessuno, mangio quanto mi pare, sono cavoli miei quando, quanto, che cosa, come e dove mangio. Perché dovrei essere punita per questo? I suoi compagni, anche se per l’intuito le danno torto, non hanno tuttavia argomenti forti per contraddirla.

            Alla fine sono costretto a intervenire. Attiro la sua attenzione che la Divina Commedia è un’opera medievale, sottoposta alle mentalità di allora. Secondo la gente medievale, io non sono da solo nemmeno quando chiudo la porta dietro a me e mangio o faccio quello che ben mi pare. Il concetto di solitudine non esisteva a quei tempi. Dio era in tutti e dappertutto. Se entro in casa mia, vuol dire che Dio mi ha dato una casa. Se mangio, vuol dire che Dio ha voluto che io sia sano, che abbia una famiglia e abbia cosa dare da mangiare. E se mangio troppo, vuol dire che ho infranto l’esortazione divina alla misura e alla buona convivenza. Gli allievi non sono molto entusiasti della mia spiegazione, ma la accettano fino alla fine.

            Dopo la lezione mi rendo conto di essere stato troppo indulgente. Volendo venire loro incontro, ho “ceduto” e ho ammesso che si trattava di un aspetto tipicamente medievale, questo, della sottomissione davanti a Dio. Ma in realtà si tratta di un concetto generalmente umano, che trova una sua totale giustificazione anche ai nostri giorni. Scontento di me, racconto la situazione ad alcune colleghe in sala professori, e loro mi offrono una soluzione più adeguata. Poiché si trattava di una classe di signorine, avrei dovuto parlare loro della cura dimagrante e dell’estetica dell’aspetto fisico, per fargli capire quanto sia importante evitare la golosità. Semplicissimo, caro Watson!

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            Un’altra situazione di evidente evoluzione delle mentalità si può comunque trovare in Dante. Secondo il poeta italiano, al fondo dell’Inferno, nel posto riservato ai più grandi colpevoli si trovano i traditori: di parenti, di benefattori, di patria. Invece di una punizione più indulgente godono gli assassini. I miei allievi, un’altra volta, non capiscono: come mai il crimine potrebbe essere meno grave del tradimento?

            In questo caso gli do retta, anzi cerco di spiegargli le realtà storiche. Ai tempi di Dante il crimine non rappresentava un fenomeno straordinario, era anche un obbligo di famiglia vendicare il parente insultato o ucciso. C’era tutt’una catena di uccisioni: quando qualcuno uccideva un tuo famigliare, eri tenuto ad ammazzare per vendetta un famigliare dell’assassino. Non fare il tuo dovere valeva per una terribile vergogna. Il crimine diventava quasi inevitabile, secondo il codice sociale di allora. Era molto diverso dal tradimento, che rappresentava una colpa premeditata, una infamia rivolta contro l’intera comunità di origine e quindi era assolutamente imperdonabile.

            Ai nostri giorni la situazione è radicalmente cambiata. Il tradimento può riflettere una scelta personale, nel contesto di una realtà relativa, in continua evoluzione. Ecco per esempio la situazione delle due ex-spie comuniste Răceanu o Pacepa, che hanno “tradito” il dittatore Ceauşescu e si sono rifugiate all’Occidente. Fino al 1989 la loro scelta è stata equivalente al tradimento di patria. Dopo la caduta del comunismo e della famiglia dittatoriale, tutti quelli che hanno determinato in un certo modo questo declino sono stati considerati eroi. L’immagine dei due traditori è stata ricondizionata, il gesto ha cambiato radicalmente la sua sostanza. Il crimine invece è diventato – nella mia opinione – la colpa più orrenda della nostra società contemporanea, e colui che ha ucciso (non importa se l’ha fatto ai tempi di Ceauşescu, Iliescu o Constantinescu) deve ricevere senza indugio e senza prescrizioni la sua punizione.

            Il passar del tempo può portare interessanti rovesciamenti nella percezione mentale collettiva.

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            Uno dei vecchi commentatori della Divina Commedia, Buti, dà una straordinaria spiegazione per la pietà risentita dal personaggio Dante davanti a certi peccatori: “Benché si dolesse della dannazione di coloro, non si dolse che non volesse che fossero dannati, ma dolsesi che avrebbe voluto che non avessero peccato”.

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            Sull’imbecillità di alcuni rimproveri che si fanno oggi a Dante. Uno gli contesta il senso storico: il poeta si oppose di tutte le sue forze al Comune fiorentino e appoggiò calorosamente l’imperatore tedesco, il cui arrivo con esercito in Italia incoraggiò e attese con ansia. In conseguenza, Dante sarebbe un retrogrado, perché abbraccia le forme statali dell'organizzazione medievale, e invece cerca di rovinare le costruzioni della borghesia in ascensione.

            Una simile obiezione falsifica in modo grossolano, prima di tutto, il pensiero dantesco, e poi dimostra l’inettitudine per quanto riguarda lo specifico della mentalità storica. Dante privilegiò nella sua concezione i criteri morali di giudizio, ispirati all’autorità divina. Quindi condannò l’agitazione (diremmo: dionisiaca) arbitraria e abbusiva di alcuni borghesi fiorentini, privi di scrupoli, bugiardi, vendicativi e criminali; incoraggiò l’atteggiamento (diremmo: apollineo) aristocratico, della giustizia somministrata da un sovrano, che fonda la sua attività sulla ricompensa delle virtù e la punizione dei vizi. (Se così stanno le cose, non dobbiamo nemmeno perderci tra gli argomenti di natura biografica: i borghesi “progressisti” lo diffamarono, gli fecero ingiustizia e lo cacciarono via in esilio dalla patria tanto amata; gli aristocratici “passatisti” gli permisero di sperare in una rivincita della giustizia.)

            Si deve poi sottolineare che la coscienza delle grandi tappe storiche non si sta assolutamente formando allo stesso tempo con lo sviluppo degli eventi. L’idea del Romanticismo, per esempio, fu la costruzione ideologica ulteriore di una mente chiara, che mise accanto alcuni tratti convergenti di una epoca e diede loro un nome. Ma i romantici non seppero di essere romantici, così come, senz’altro, nemmeno gli interbellici ebbero la minima idea di vivere in un periodo… interbellico. Come mai potevano sapere che sarebbe scoppiata un’altra guerra mondiale?! E Dante come mai poteva sapere – al 1300 – che nella storia dell’umanità il Medio Evo sarebbe stato seguito dal Rinascimento, e l’aristocrazia sarebbe stata seguita al potere dalla borghesia?! È del tutto stupefacente l’imbecillità di colui che rimprovera a Dante che, nel 1300, non abbia avuto la prospettiva di pensiero e di azione che noi abbiamo nel 2000… No, no, il poeta italiano pensò e agì molto bene, esaminando le realtà che aveva sotto gli occhi, passando tutto per il filtro critico della morale (cristiana, ma non solo) e tirando le più legittime conclusioni possibili.

            Un’altra obiezione – offensiva e sfacciata – mette in questione il senso patriottico di Dante: come mai si permise di accogliere l’imperatore tedesco e di esortarlo alla lotta contro gli italiani di Firenze? Non si dimostrò per caso un ingrato nei confronti dell’Italia e degli italiani, inginocchiandosi davanti a uno straniero? Una volta ancora, però, Dante vide le cose meglio di alcuni suoi commentatori di oggi. Il patriottismo non deve rappresentare un valore assoluto, un assegno in bianco che la patria spreme dalle tasche dei suoi cittadini. Amo la mia patria perché essa si merita il mio amore, perché ha quelle virtù e quelle bellezze che la rendono amabile. Invece quando la mia patria sta crollando, offesa dall’infamia, dalle bugie, dagli abusi e dai crimini di un piccolo gruppo di arrivisti, qualsiasi azione è benvenuta per riconquistare la sua brillantezza di una volta. È proprio così che la sto amando: cercando di aiutarla! O perbacco! La complicità esterna di cui godettero i guelfi neri per cacciare via dal governo il gruppo politico di Dante fu almeno di un pizzico più legittima? Il Papa Bonifacio VIII (capo di un altro stato) e l’esercito di mercenari francesi guidato da Carlo di Valois furono più italiani, nelle loro furbizie, dell’esercito imperiale sostenuto dalle parole accese di Dante?

            Per non dire niente dell’infamia o dell’ignoranza del commentatore che butta in passato, proprio nel Trecento, il concetto romantico di patriottismo, che si formò e si estese soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi! Ci vuole molta stupidità per rimproverare a un medievale (e proprio a quello che esprime la sintesi stessa dell’uomo medievale) che non pensi e non agisca come un romantico! Niente di più flagrante come pensiero arbitrario.

            L’atteggiamento di Dante, le sue scelte biografiche e intellettuali dovrebbero insegnarci tantissime cose. Potessimo, anche oggi, pensare in modo così chiaro e corretto!

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            Nel suo libro sulla cosmologia dell’universo dantesco, oltre a molte cose discutibili – e discusse già nella polemica che gli ho consacrato – il saggista romeno H.-R. Patapievici si mette a parlare anche del rapporto conflittuale tra il mondo fenomenico e il mondo trascendente. Lo scrittore è del parere che l’uomo medievale non sia stato capace di “recidere” una disputa così complessa. Nella mia risposta, gli ho fatto presente che il mondo medievale non conosceva per niente una simile divergenza, che a quei tempi ci fu in realtà una piena armonia tra scienza, filosofia e religione, che la tensione da lui identificata apparve solo successivamente al Medio Evo, insieme alle scoperte scientifiche del Rinascimento, le quali misero in una nuova luce la tipologia del pensiero umano.

            L’autore continua le sue osservazioni sul “conflitto” tra il mondo fenomenico e l’esistenza divina, affermando che tale tensione sarebbe stata risolta solo nel periodo moderno, con la scelta cosciente dell’individuo: “Quando l’uomo moderno lo recise [questo problema teologico-politico – aggiungo io], lo fece a favore del mondo secolare – e così cominciò la modernità”.

            Doppio errore! Non assistiamo per niente nel periodo moderno al declino del pensiero religioso (anzi se diamo uno sguardo al fiorire del fondamentalismo islamico – oppure al venerabile prestigio della papalità ai nostri giorni, diremmo tutt’al contrario!). Quello che si riuscì con sempre maggiore risolutezza nel mondo civile moderno fu la separazione dei problemi dell’anima (di carattere intimo, individuale) dai problemi della città (di carattere pubblico, civico). Si realizzò infatti la secolarizzazione del pensiero politologico. La questione, sollevata anche da Dante (vedi De Monarchia), fu messa in pratica solo dopo alcuni secoli di evoluzione delle mentalità sociali.

            In secondo luogo non si può parlare di una “scelta” cosciente dell’individuo a favore… del mondo divino o del mondo terreno. La fede non è risultato di un ordine proveniente dal cosciente. Nessuno può comandare a se stesso: “da domani in poi crederò in Dio!”. Non siamo noi a scegliere Dio, ma è probabilmente Egli a scegliere noi. La fede è collegata alla grazia divina e ce l’hai o non ce l’hai. Essa può aumentare o può diminuire, ma non si può inventare. Non esiste tormento spirituale più terribile della ricerca inutile del Signore. Non esiste beatitudine più dolce della comunione, per mezzo della grazia divina, con il Signore. Lo diceva anche San Francesco: “Beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati”.