Laszlo Alexandru

 

IL MONDO DI DANTE, IMMAGINATO DA PATAPIEVICI

 

 

            La presenza di Horia-Roman Patapievici nello spazio pubblico romeno dopo il 1989 ha provocato meraviglia, curiosità, ammirazione – e numerose polemiche. L’elemento insolito che caratterizza l’autore bucarestino è la sicurezza ferma che egli espone, quando si slancia in zone intellettuali molto distinte. Che si tratti di filosofia, antropologia, ermeneutica, postmodernismo, statuto delle minoranze, morale sociale, anticomunismo o collaboratori della ex-Securitate, la sua voce si fa sentire con chiarezza e rizolutezza dentro le mura. È la voce di una persona che assume in modo molto responsabile le proprie opinioni. E le sue parole mirano i punti nevralgici della mentalità contemporanea.

            Gli scritti di H.-R. Patapievici hanno il più spesso delle volte l’apparenza di una sentenza. Davanti ai lettori, egli non si permette il lusso umano, troppo umano, di esitare, di esplorare alla ricerca della verità. Dà sempre l’impressione di comunicarci il risultato di alcune riflessioni anteriori, pesate a lungo e definitivamente risolte nell’intimità del proprio laboratorio mentale. Le sue frasi sembrano portare alla luce dogmi e conclusioni finali.

            Il ritratto dello scrittore sprofondato nella realtà romena è arricchito oggi con il commento dantesco. Il volume Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante? (Bucarest, Humanitas Editrice, 2004) include la conferenza pronunciata da H.-R. Patapievici davanti al pubblico di Oradea e stampata inizialmente sulla rivista Orizont di Timişoara.

            È inutile riaffermare la difficoltà stessa di un nuovo intervento critico su Dante. L’edificio della Divina Commedia esprime una meravigliosa sintesi di epico, lirico e drammatico. Gli stessi versi sono quanto affascinanti nel loro lirismo, tanto impressionanti nel loro drammatismo e tanto incitanti nelle loro suggestioni epiche. Un episodio come il viaggio di Ulisse (Inf. XXVI) può essere letto nello stesso tempo da diversi punti di vista: come una sfida lanciata contro gli dèi e contro i limiti del mondo, come una prova di solidarietà umana, come un sacrificio sull’altare del conoscere, come una ripresa in chiave intertestuale del personaggio di Omero, ma anche come un viaggio vero e proprio, effettivamente ricostituibile per mezzo delle indicazioni geografiche molto precise.

            Si deve dire sin dall’inizio che H.-R. Patapievici non affronta un simile discorso diversificato e nemmeno un’analisi appartenente alla critica letteraria, o alla storia letteraria, o alla teoria letteraria. L’autore evita o omette numerosi aspetti essenziali della Divina Commedia, come la metrica, la prosodia, la sintassi o lo stile, fino al lirismo, la storia, la politica o la dottrina morale nell’opera di Dante. Il suo discorso si concentra su un unico aspetto: il progetto cosmologico dantesco, dal punto di vista della geometria. Evidentemente il conferenziere ha la piena libertà di stabilire il campo della sua azione intellettuale. Ma, per quanto ci riguarda, abbiamo la stessa libertà di definire con precisione il suo modo di fare, includendolo nell’ambito del saggio (= “studio di proporzioni ridotte su temi di filosofia, letteratura o scienza, composto con mezzi originali, senza avere la pretesa di esaurire il problema”). Il secondo fatto che si deve sottolineare è che, nonostante le sue apparenze occasionali, di conferenza pronunciata davanti a un pubblico vario, l’intervento di H.-R. Patapievici si fa notare per la sua profondità nel piano delle idee e per la sua sobrietà nel piano dell’espressione.

            Dalla grande varietà di possibili interpretazioni del poema, il commentatore romeno accoglie il poeta italiano solo sul sentiero delle scienze precise. Le sue premesse sono, a dire la verità, giuste: la Divina Commedia ha ispirato, con la precisione delle descrizioni, tutt’una serie di rappresentazioni grafiche. L’Inferno è un gigantico imbuto, con la strada che scende in forma di spirale. Il Purgatorio è una montagna ripida, con l’ascensione difficile che simboleggia il progressivo perdono dei peccati. Il Paradiso è una successione di cieli, attraverso i quali si vola per mezzo dell’imponderabilità ottenuta dopo l’abluzione. Tutti questi indizi espliciti si ritrovano nel testo poetico, gli illustratori non hanno dovuto fare altro che soprammettere le immagini tracciate con il pennello sulle immagini create dalle parole. Non si sbagliava quindi T.S. Eliot a notare che “Dante godeva di una immaginazione poetica fondamentalmente visiva” (p. 16). Ma è importante mantenere viva la disponibilità della nostra percezione anche per gli altri livelli di lettura: l’insistenza esclusivamente sulla linea epica, delle immagini grafiche deducibili dai versi della Divina Commedia, rende più povera la polisemia del capolavoro.

            H.-R. Patapievici ci fa compagnia di corsa attraverso i tre regni dell’aldilà, per arrivare insieme a noi al brano considerato da lui cruciale: i canti XXVII e XXVIII del Paradiso. Nell’opinione del commentatore, qui appare una modifica fondamentale, dal punto di vista cosmologico. Fino a questo punto abbiamo ammirato un edificio proporzionale: la sfera terrestre contiene nelle sue viscere la grotta dell’Inferno, all’emisfero opposto c’è la montagna del Purgatorio, e il tutto è circondato dai nove cieli del Paradiso. Arrivato al nono cielo (il Primo Mobile), il personaggio Dante guarda in su verso l’Empireo, verso il trono di Dio, intorno al quale osserva i gruppi di angeli, disposti in nove cerchi successivi. Il saggista riconosce qui il punto di miracoloso incontro di due sfere complementari: “Al passaggio dal Cielo IX-o al Cielo Empireo si passa da un sistema di sfere concentriche, visibili e corporali, avendo al centro la Terra, in un altro sistema di sfere concentriche, invisibili e incorporali, avendo al centro Dio. (…) Il sistema corporale è geocentrico e materiale, il sistema invisibile è divinocentrico e spirituale” (p. 88). Il problema di H.-R. Patapievici consiste nel fatto che tanti illustratori della struttura della Divina Commedia, e specialmente Michelangelo Cactani, rappresentano la posizione dell’Empireo sopra le sfere celesti, al loro esterno. Ma una tale immagine sarebbe contraria alla preoccupazione dantesca per la simmetria: “L’Empireo, nella visione di Cactani, è una specie di escrescenza asimmetrica, aggiunta con inabilità al corpo molto simmetrico e bello del cosmo greco” (p. 71).

            Da questo punto in avanti, la poesia di Dante rimane trascurata in un angolo ed è sostituita da complicati calcoli matematici attraverso i quali l’autore cerca di determinare… la disposizione della sfera dell’Empireo nei confronti della sfera del Cosmo. Si rinuncia alla geometria euclidiana, a favore di quella riemanniana, ci si spiega con tanti particolari la struttura dell’ipersfera, “cioè una sfera a quattro dimensioni, una sfera la cui superficie sarebbe uno spazio tridimensionale. Nella descrizione di Einstein, l’universo è un’ipersfera. Ebbene, proprio la stessa cosa si può dire anche dell’universo descritto da Dante. È un’ipersfera. (…) L’ipersfera è, topologicamente parlando, la figura formata dalla riunione di due sfere piene (…) tangenti in qualsiasi punto della loro superficie” (p. 95-96) –, vengono emesse delle teorie sullo spazio sferico immaginario a forma di pallina ecc.

            Non è la prima volta che l’opera dantesca è sfruttata dalle più strane direzioni. A causa della concisione lapidaria del suo messaggio poetico, Dante è stato rivendicato da contesti veramente incredibili. Numerosi commentatori si sono ingegnati non a capire le parole dell’autore italiano, ma a risolve le loro proprie tensioni ideatiche. L’ingresso del protagonista della Divina Commedia, sotto la guida di Virgilio, nello spazio infernale (“mi mise dentro a le segrete cose” – Inf. III, 21), è stato già “decifrato” come un’allusione esoterica e Dante è stato etichettato come francmasone. Ma l’Alighieri potrebbe essere considerato anche… uno scienziato musulmano, se ci fidiamo allo spettacolare edificio analitico di Miguel Asín Palacios (L’escatologia islamica nella Divina Commedia) – in realtà un gigantico castello di sabbia in Spagna. Il Romeno H.-R. Patapievici, quando identifica l’immagine del mondo di Dante con un’ipersfera, trova il posto meritato nella schiera di questi eccentrici che hanno sbagliato strada. Alcuni commentatori, invece di avvicinarsi a Dante per scoprirlo (e grazie a Dio, ci sarebbero tantissime cose da vedere!), trasformano il suo testo in pretesto e ne fanno un punto di partenza per le loro proprie teorie e i loro propri paradigmi.

            Che le cose stiano proprio così è dimostrato anche dall’inaspettato abbandono della lettera delle terzine, nell’analisi di Patapievici. Se fino a questo punto avevamo un discorso razionale, dimostrativo, con numerose citazioni dantesche e rappresentazioni grafiche, da adesso in poi l’autore si accontenta a… raccontarci, a… descriverci, a… spingerci verso le visioni mistiche e tras-umanate: “L’Empireo, come infatti l’intera realtà, ha il viso che sei degno di guardare. Fino quando i tuoi sensi sono normali, vedi la geometria molto simmetrica dei due sistemi, visibile e invisibile, avendo al centro uno la Terra, l’altro Dio, e trovandosi in equilibrio al limite tra il Cielo Cristallino e l’Empireo (la rappresentazione cosmologica). Ma appena i tuoi sensi sono stati «tras-umanati» e i tuoi occhi si sono abbeverati con la sostanza stessa del paradiso, cominci a vedere il miracolo della Rosa Divina” (p. 75-76). In altre parole, i lettori che non accettano le teorie di H.-R. Patapievici sono implicitamente esiliati nel gruppo dei profani senza accesso alla beatitudine, tra la folla insensibile e amorfa. Chi oserà mai auto-escludersi dalla condizione del pubblico nobile? Chi avrà mai il coraggio di riconoscere onestamente che “non è degno” e che non si può rappresentare le immagini fantasiose suggerite dal parlante? Chi si butterà mai a richiamargli l’attenzione che, sul più bello della sua dimostrazione, è scivolato dalle citazioni precise e convincenti alle affermazioni generali e incerte – come quando enuncia con sovranità: “Questa descrizione del mondo di Dante si può ritrovare nel Canto XXVIII del Paradiso” (ma dove precisamente?)?

            E non c’è da stupirsi che, arrivato all’epicentro della sua dimostrazione, H.-R. Patapievici rinunci alle citazioni e alle illustrazioni, per esortarci a “tras-umanare” le nostre percezioni. La geometria di Riemann, che studia le proprietà di uno spazio con n dimensioni, è per eccellenza non-rappresentabile graficamente. Quant’è strano però criticare l’aspetto di una figura geometrica pienamente autorizzata dal testo di Dante – poiché se l’Empireo non si trovasse “sopra”, Beatrice perché mai guarderebbe “in suso” (Par. II, 22), e gli angeli come mai potrebbero “in su (…) farsi, e fioccar di vapor triunfanti” (Par. XXVII, 70-71)? – e invece proporre una figura astratta, con proprietà metriche e proiettive alterate, costruita da semplici parole che esortano alla fede.

            Può essere interessante un breve paragone tra il meccanismo di pensiero di Dante e quello di Patapievici. Il poeta italiano mette il razionalismo alle basi del suo universo soprarazionale, sebbene ammetta il momento di frattura mistica, irrazionale, dovuto alla sopraconoscenza divina. L’Empireo, secondo le parole del Convivio, “è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu solo ne la prima Mente”. E nel Paradiso XXVII, 113-114, dello stesso Empireo ci viene detto che “quel precinto / colui che ‘l cinge solamente intende”. La mente umana non può quindi rappresentare e capire, secondo Dante, il mistero divino della posizione dell’Empireo. Oltrepasasando questa soglia dell’incomunicabile, il poeta descrive tuttavia la struttura interna dell’Empireo, senza però insistere sulla sua posizione esterna, cosmologica. Superando l’ostacolo dell’irrazionalità comandata dalla mente divina, Dante prosegue il suo viaggio nei limiti segnatigli dalla ragione.

            Invece il suo commentatore romeno annulla la cesura trascendente e lancia una sfida contro il mistero della posizione cosmologica dell’Empireo, benché ci sia stato detto chiaramente che questi non è luogo nello spazio, ma solo una realtà nella mente di Dio (Convivio), e che rappresenta il “precinto” il quale Dio solo “intende” (Par. XXVII, 113-114). H.-R. Patapievici cerca tuttavia di entrare con scasso nel mistero divino, ricorre alle teorie di Bernhard Riemann e Albert Einstein per imporre la comprensione dell’incomprensibile e finisce – lui stesso – nella più grande assurdità: “Immaginatevi che viviamo in un mondo come una piccola pallina. Questo varrebbe a dire che lo spazio è curvo. Adesso, mettiamo che io tenda la mano avanti. Se la sfera del nostro mondo fosse piccolissima, sapete cosa succederebbe? La mia mano toccherebbe la mia nuca. Al massimo, in un universo sferico a dimensioni molto ridotte, avendo cioè una curvatura abbastanza grande, per grattarmi la nuca dovrei tendere la mano avanti” (p. 93).

            Tra Dante Alighieri, l’intellettuale razionale che, confrontato con il mistero divino, sceglie di constatare l’ostacolo, di rispettarlo e di descriverlo entro i limiti che gli offre la ragione – e Horia-Roman Patapievici, l’intellettuale razionale che, confrontato con lo stesso mistero divino, ne sforza la penetrazione con l’aiuto della scienza moderna, ma solo per fallire nel più completo irrazionalismo, la differenza è davvero appariscente.

            Ma per fare strada alla sua teoria fantasiosa secondo la quale il mondo di Dante rappresenti “l’intersezione di un’ipersfera con lo spazio tridimensionale in cui viviamo” (p. 101), H.-R. Patapievici doveva scartare le rappresentazioni grafiche precedenti sulla struttura della Divina Commedia, e tra esse la più conosciuta, quella di Michelangelo Cactani, che vede l’Empireo sopra il Cosmo sferico, in forma di un’altra sfera oblunga. In quali termini e con quali giustificazioni scientifiche rifiuta Patapievici quest’immagine? Quali sono i versi e le terzine di Dante che egli cita, a sfavore del suo predecessore? “L’Empireo, nella visione di Cactani, è una specie di escrescenza asimmetrica, aggiunta con inabilità al corpo molto simmetrico e bello del cosmo greco" (p. 71); “Se fosse così, allora il cristianesimo, dal punto di vista geometrico, non varrebbe granché!” (p. 72); “L’aspetto dell’Empireo immaginato da Cactani è effettivamente indegno, goffo, inadeguato” (p. 76); “Pensate che c’è un’enorme sfera che contiene all’interno altre nove sfere e da qualche parte una specie di piccola corona in cui si trova il mondo invisibile di Dio. Non va bene!” (p. 76). Ecco dunque i termini per mezzo dei quali il saggista romeno pensa di poter discreditare una teoria grafica pienamente valida, fondata strettamente sui versi di Dante: “escrescenza asimmetrica”; “indegno, goffo, inadeguato”; “non va bene!”. Ma così ci troviamo proprio nel bel mezzo del giudizio di gusto personale, della simpatia e dei sentimenti che aspettano di essere dimostrati (e forse quello che a lui sembra inadeguato, a un altro sembrerà funzionale; quello che a lui sembra goffo, a un altro sembrerà ingegnoso)! L’autore mette prima le radici di alcuni ferrei pregiudizi e poi gira e rigira a trovarne una soluzione pratica: i legami tra il cristianesimo e la geometria sono altrettanto numerosi come quelli tra il mondo di Dante e l’ipersfera: zero! E se pensiamo che il saggista ha speso tanta energia a invocare nomi sonori, da Bernhard Riemann ad Albert Einstein, solo per nascondere la banale volontà del suo gusto personale!

            E quando il gusto e le impressioni non superano la prova del testo poetico costretto a diventare pretesto, il discorso di H.-R. Patapievici scivola nell’artificio logico, trasformando ciò-che-era-da-dimostrare in ciò-che-è-stato-dimostrato: “Vi invito solo a meditare a questa provocazione che Dante, un medioevale, ha potuto descrivere un’ipersfera, come soluzione al problema cosmologico della teoria cristiana, confrontata con l’astronomia greca” (p. 100). Niente affatto! L’ipersfera è stata descritta da Patapievici, non da Dante. “Non sostengo d’altronde – continua il saggista – che Dante abbia avuto le facoltà di geometra di Bernhard Riemann, o che lui parlasse in modo cosciente di un’ipersfera. Assolutamente no! Egli non ha saputo che stava descrivendo un’ipersfera…” (p. 100). Eccoci in pieno paradosso gnoseologico. Magari se qualcuno mi spiegasse in modo credibile come potrei descrivere un concetto o una figura geometrica della cui esistenza non ho la minima idea e i quali del resto saranno scoperti solo tra seicento anni! No, no, Dante non assomigliava ad alcuni dei suoi chiosatori di oggi che parlano di quello che non conoscono, e anzi attribuiscono anche al loro maestro le stesse capacità magico-divinatorie. “Dante non era solo intelligente o geniale – era anche straordinariamente onesto. Egli non «imbrogliava» le carte per «cavarsela»” (p. 101).

            Un’altra serie di affermazioni del saggista romeno rispecchia la sua scarsa familiarità con l’opera e la mentalità di Dante Alighieri. È profondamente discutibile la sua ipotesi, secondo cui “i medioevali erano abituati a vivere in tensione. Il problema teologico-politico in cui vivevano, tra il Papa e l’Impero oppure tra il mondo di Dio e quello terreno, era per loro ugualmente insolubile e reale – cioè non si poteva risolvere. Forse avrebbero voluto risolverlo, ma non seppero come. Quando l’uomo moderno lo risolse, lo fece a favore del mondo secolare – e così cominciò la modernità” (p. 108-109). Tralasciando il vasto problema del conflitto tra la Papalità e l’Impero, che appartiene a un altro registro, del confronto di interessi politici, sottolineamo che l’universo medioevale non conosceva in realtà nessun conflitto tra il mondo divino e quello terreno. Il secondo era considerato dallo scolasticismo come una riflessione imperfetta e un proseguimento della prima, e la vita di qua era destinata a continuare inevitabilmente nella vita dell’aldilà. Lo stesso legame stretto e anzi l’interpenetrazione tra il nostro mondo e l’altro mondo viene espresso anche nella Divina Commedia. La suprema confluenza e armonia tra la scienza, la filosofia e la teologia si può trovare nell’opera di San Tommaso, uno dei maestri più apprezzati da Dante. Non fu “l’uomo moderno” a “risolvere” la pseudo-disputa medioevale tra il mondo terreno e quello trascendente, ma l’evoluzione del conoscere (soprattutto durante il Rinascimento, con le grandi scoperte geografiche e astronomiche) fu quella che mandò in dissuetudine il modello medioevale, stracciò l’equilibrio e i rapporti di reciprocità tra la scienza e la teologia. La prima si aggiudicò, in queste condizioni, il campo del conoscibile, lasciando all’altra la zona della metafisica. Ma la cesura avvenne molto tempo dopo il medioevo e non all’iniziativa dell’ “uomo moderno”, bensì come conseguenza dello stato di fatto.

            Ugualmente invalida è la prossima affermazione, in quanto parte da una premessa erronea e finisce in una conclusione falsa: “Dante potè fare la descrizione meravigliosa [dell’ipersfera! – n.n.] che fece perché aveva una mente abituata a pensare simultaneamente, in sospensione e mantenendo la tensione, le polarità contrarie – sapeva tenerle in tensione senza stringere i freni” (p. 109). In realtà, il maggiore sforzo strategico fatto da Dante lungo la sua intera vita fu quello di riconciliare i conflitti, non quello di tenerli in tensione, e tanto meno quello di “non stringere i freni”! Egli cercò di far riconciliare l’Impero e la Papalità, tracciandone due campi di attività complementari in De Monarchia. Provò a mediare il conflitto tra la lingua latina e la lingua volgare, difendendo l’importanza della seconda, ma usando l’espressione della prima in De Vulgari Eloquentia. Volle mettere in evidenza lo stretto legame tra i delitti commessi dall’uomo durante la vita e le terribili punizioni dopo la morte, popolando il suo Inferno con i più diversi delinquenti e peccatori realmente esistiti. Intervenne come ambasciatore per calmare la rabbia di Venezia contro Ravenna e, ammalandosi per strada, pagò addirittura con la vita questi suoi sforzi di mediazione. Dante non si mise mai al di sopra delle “polarità contrarie”, ma affermò sempre con energia le sue opzioni.

            La stessa conoscenza insoddisfacente dell’opera dantesca risulta anche dalle successive frasi di H.-R. Patapievici, il quale insiste sulla sobrietà e sullo spirito aulico del poeta italiano: “La cosa che mi ha conquistato subito è che egli è un autore che non ride accanto al pubblico villano. In lui non troverete mai l’umorismo come alibi per la vigliaccheria…” (p. 105). Tuttavia una lettura veloce del Canto XXI dell’Inferno convincerà il saggista romeno che Dante sa benissimo essere anche comico, e “il pubblico villano" esulterà a vedere il demone Barbariccia che, dando alla schiera di diavoli il segnale di partenza, “avea del cul fatto trombetta”. Invece per quanto riguarda “l’umorismo come alibi per la vigliaccheria”… Patapievici dovrebbe dare un’occhiata alla divertente Tenzone tra Dante Alighieri e Forese Donati per completare un po’ le sue impressioni: mentre Forese accusa il poeta della vigliaccheria di non aver vendicato suo padre, Dante rimprovera all’amico mangione che sta trascurando la moglie, che tossisce la notte da sola a letto… Brani letterari divertenti come quello appena ricordato probabilmente darebbero un fremito d’orrore a H.-R. Patapievici, lanciato nella costruzione di una statua sobria, rigida, frigida, imponente e spaventosa per Dante Alighieri. Gli sforzi del commentatore romeno si dirigono non verso la spiegazione e la facilitazione dell’accesso al grande poeta italiano, a volte comunque difficile da comprendere, ma tutt’anzi verso la sua codificazione addizionale. Dante ha rinunciato nel suo capolavoro al latino e ha usato l’italiano proprio per farsi capire da categorie più ampie di lettori, volendo scendere alla ricerca del suo pubblico – il nostro saggista lo spinge indietro, come un vero elitario, verso la sfera geometrizzata dell’Empireo della poesia aulica. In questo modo porta un altro notevole danno al poeta fiorentino: non solo lo fraintende e lo riveste da indovino della geometria spaziale, ma cerca anche di tenerlo lontano dal grande pubblico.

            Le interpretazioni snaturate e irreali di H.-R. Patapievici non sono dovute però soltanto a una lettura… esaltata del testo poetico, ma anche all’ignoranza della bibliografia mainstream della dantologia italiana e straniera. Quando dico questo, penso non soltanto alla critica ottocentesca di G. Pascoli, N. Tommaseo e Fr. De Sanctis, ma anche all’importante scuola di filologia dantesca sotto la guida di Michele Barbi e a nomi come E. Auerbach, U. Bosco, B. Croce, E.R. Curtius, T. Di Salvo, G. Gentile, B. Maier, A. Momigliano, B. Nardi, G. Papini, G.E. Parodi, G. Petrocchi, F. Torraca, G. Vandelli, N. Zingarelli ecc. È vero che, in una spiegazione finale, H.-R. Patapievici offre un elenco bibliografico orientativo, molto mescolato e disuguale, che ha usato nella sua documentazione, ma essa include autori praticamente sconosciuti nel campo della dantologia (Edwin Abbott, Giorgio Agamben, Girolamo Benivieni, Henry Corbin, William Eggington, T.S. Eliot, Aram M. Frenkian, Pier Francesco Giambullari, Edward Grant, Hans Leisegang ecc.). Aggiungiamo ancora che l’edizione di Dante, Tutte le opere, uscita a Roma in Grandi Tascabili Economici Newton è di stampo commerciale e l’introduzione di Italo Borzi è qualsiasi. Oltre alle due traduzioni romene complete della Divina Commedia in terzine con endecasillabo (di George Coşbuc e di Eta Boeriu – le migliori), nonché la traduzione in prosa ritmata (di Alexandru Marcu) – ricordate e citate nel suo saggio da Patapievici – sono ugualmente disponibili altre due varianti romene complete in versi (di I. Ţundrea e di G. Cifarelli). Non si deve trascurare neanche il consistente studio critico di Ramiro Ortiz.

            Il libro di Horia-Roman Patapievici, Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante? ha il merito incontestabile di riaccendere l’interesse e la discussione intorno a Dante Alighieri in Romania, dopo un periodo storico agitato, che ha distolto l’attenzione del pubblico verso temi insipidi. La figura sociale importante dell’autore romeno avrebbe offerto anche le premesse di una lettura straordinaria. Purtroppo il saggista ha scelto non la strada dell’analisi prudente e lucida, inginocchiato con umiltà sotto la veste larga del geniale testo poetico, ma si è buttato in ipotesi azzardate, stimolate dalla febbre delle false intuizioni. Ha fatto come un pittore stracolmo di visioni, che volge le spalle alla natura perché questa non lo disturbi nel dipingere il paesaggio. Partito alla ricerca di Dante, Patapievici non ha trovato più di se stesso.