Anca Şerban



PERSONAGGI DELL’ “INFERNO” DANTESCO



Premessa


Una lettura attenta dell’Inferno dantesco potrebbe mostrarci abbastanza facilmente che la maggior parte dei personaggi che lo popolano sono figure esistite realmente; alcune conosciute direttamente da Dante – concittadini, nobili o figure politiche incontrate durante il suo esilio – altre arrivate alla sua conoscenza per la loro fama; una parte importante è costituita da personalità marcanti dell’Antichità latina e greca o da nomi illustri della cultura o della storia medievale. Eppure la Commedia è stata scritta ed è percepita come un’opera di finzione, non solo per ciò che riguarda il tema, ma anche per il modo in cui sono stati creati i personaggi. Certo che accanto alle figure storicamente esistite vivono nell’Inferno personaggi mitologici, biblici, personaggi letterari; rari sono i passi in cui Dante inventa personaggi (un caso felice sono i canti XXI e XXII, dove il poeta crea un’intera squadra di diavoli, ai quali dà un’individualità e un nome).

Almeno su un paio di aspetti si deve insistere sin dall’inizio, prima di passare all’analisi dei personaggi danteschi e del modo in cui sono denominati.

Dante e i suoi contemporanei condividevano il concetto latino “Nomina sunt consequentia rerum”, “frase giuridica, che vien fatta risalire alle Institutiones di Giustiniano, e in quel contesto significava che ci deve essere rispondenza, adeguatezza tra le cose e i nomi che le esprimono” [1]. Certo che il poeta non può sempre intervenire direttamente sui nomi dei personaggi perché li prende come tali da fonti storiche, mitologiche, letterarie o filosofiche, ma adopera spesso certi procedimenti nel nominare i personaggi; tre sono i più frequenti:

1. Far accompagnare il nome da un aggettivo epiteto con il quale Dante sorprende un tratto fisico o morale del personaggio o che riporta sulla tradizione medievale che spesso limitava una personalità a un’unica caratteristica evidente : “Caron demonio”, “Orazio satiro”, “Seneca morale”, “Cleopatras lussuriosa”, “Ciriato sannuto”, “Rubicante pazzo”, “Dionisio fero” (Dionisio, il tiranno di Siracusa);

2. Nominare il personaggio attraverso una metafora che accompagna il nome o lo evoca in assenza del nome: “Pluto il gran nemico”, “il maestro di color che sanno” (Aristotele), “Cerbero, il gran vermo”, “maledetto lupo” (Pluto), “lo savio mio” (Virgilio), “sozza immagine di froda” (Gerione), “il re de l’universo” (Dio);

3. L’antonomasia, che nella maggior parte dei casi riporta sul luogo natio del personaggio: “il Navarrese” (Ciampolo), “O, Tosco…” (Dante stesso così chiamato da Farinata).

Nel primo Medioevo non esisteva ancora il personaggio letterario come individualità in grado di agire secondo dei principi propri in una situazione data; spesso il personaggio è rappresentato per via di un unico tratto e diventa simbolo allegorico di una realtà. Non raramente il personaggio entra a far parte di un canone letterario, religioso o filosofico. Afferma Goffredo Rosati a proposito del simbolo e allegoria nel Medioevo: “Tutta la cultura e la spiritualità medievali riconoscono nel simbolismo e nell’allegoria i fondamentali schemi espressivi della concezione generale del mondo, terreno e ultraterreno: nel Medioevo l’unità di vita e di fede non presenta soluzioni di continuità e tra la fede e la vita simbolo e allegoria si inquadrano coerentemente. È saldissima cioè l’unità spirituale del mondo cristiano, per la quale Arte, Scienza e Filosofia sono tutte figlie dell’unico Dio, e si esprimono con parole che hanno ciascuna un significato particolare, ma pure cospirano nel loro insieme a un’armonia particolare” [2].

Precisiamo ancora che Dante non fa la distinzione tra il personaggio reale e il personaggio fittizio; per lui i personaggi mitologici sono figure esistite anteriormente, i personaggi biblici lo stesso; pure i personaggi letterari li percepisce come reali e spesso li mescola con figure illustre della storia (è suggestiva per questo aspetto la schiera dei lussuriosi del canto V, sulla quale ritorneremo).

Diceva De Sanctis che Dante “entrando nel regno dei morti, vi porta seco tutte le passioni dei vivi, si trae appresso tutta la terra (…). Alla vista e alle parole di un uomo vivo le anime rinascono per un istante, risentono l’antica vita, ritornano uomini” [3]. Certo che le anime non hanno consistenza corporea, però Dante fa si che nella pena si comportino come se avessero il corpo, dunque avvertono il dolore, il malessere, il freddo, il caldo…

 

I personaggi dell’Antichità latina e greca

Cominciamo da VIRGILIO, modello assoluto di Dante per ciò che riguarda lo stile, gli argomenti da lui trattati, l’esempio di moralità. La sua apparizione, nel primo canto dell’Inferno è provvidenziale per il viaggio di Dante. Ostacolato dalle tre bestie allegoriche – la lonza, il leone, la lupa – Dante sta per ritornare nella selva dei peccati, quando improvvisamente gli si affaccia un’ombra o un uomo che si autodefinisce con dati biografici concreti: luogo e data di nascita e il periodo storico in cui è vissuto (“Nacqui sub Iulio”, negli ultimi anni del glorioso Impero di Giulio Cesare, “Vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto”), la religione (“nel tempo de li dei falsi e bugiardi”). È ovvio che il giudizio di Virgilio sulla religione pagana appartiene al cristiano Dante. Importantissima nella presentazione che Virgilio fa a sé stesso è la sua condizione di poeta (i testi di Virgilio erano studiatissimi nel Medioevo, Dante li ammirava, riconosceva la bellezza del loro stile e la profondità del pensiero tanto da ritenersi senza riserve il discepolo del poeta mantovano); interessante è però il fatto che dalle tre opere ben note che Virgilio ha composto (le Bucoliche, le Georgiche, l’Eneide), questo ritiene giusto accennarne solo a una:


“Poeta fui, e cantai di quel giusto

figliuol d’Anchise che venne di Troia,

poi che ‘l superbo Ilion fu combusto” [4]


Nelle due terzine in cui Virgilio si autodefinisce si può notare un personaggio descritto con dati obiettivi, tranne l’osservazione sulla religione. Dal momento in cui Dante interviene nel dialogo con l’autore dell’Eneide, progetta sul suo interlocutore una luce simbolica ed allegorica. Virgilio è nominato “il maestro”, “l’autore”, da lui dichiara Dante aver preso “lo bello stile” che l’ha reso celebre. Sul piano allegorico Virgilio rappresenta la ragione umana che illumina l’uomo sui compiti e sui fini che gli sono stati assegnati. Sul piano storico, Virgilio è il simbolo della civiltà classica, capace di opere di altissima importanza, ma incompleta senza la rivelazione cristiana. Sono molti gli aggettivi con i quali Dante lo caratterizza lungo il poema e tantissimi acquistano nel sistema dei valori medievali grande importanza. “Saggio” è denominato perché nella concezione medievale saggezza e poesia coincidevano: la poesia era una forma di sapienza offerta con linguaggio e con tecnica diversi da quelli della filosofia. Beatrice lo nomina “anima cortese mantovana” e per la letteratura medievale “cortese” era un aggettivo tipico della letteratura cavalleresca e designava la gentilezza di anima, i modi eleganti, segni distintivi di una condizione nobile sul piano psicologico. Nello stesso ambito possiamo collocare l’attributo che gli dà Dante nel canto VII: “quel savio gentil”; la gentilezza, sinonimo della cortesia era il valore massimo per la poesia del Dolce Stil Nuovo, nata a Firenze intorno a Guinizzelli, Cavalcanti e il giovane Dante.

Nell’economia dell’Inferno, Virgilio come personaggio è un esempio evidente del modo in cui Dante opera su personaggi storicamente esistiti in un’epoca anteriore al Medioevo: li presenta come tali fino a un punto, per dargli poi significati che superano di lunga il periodo in cui questi personaggi sono veramente vissuti, significati ritrovabili nel sistema culturale etico-religioso del Medioevo.

Virgilio è una delle personalità di grande rilievo che compone il canone letterario classico nell’Inferno. La struttura di questo canone si delinea esplicitamente nel quarto canto, in cui Dante e Virgilio sono accolti in mezzo a un gruppo di “spiriti magni”, composto da nomi sonori nel Medioevo. Tommaso di Salvo considera che nell’elenco di poeti che compongono questo canone ci sia qualcosa di arbitrario, come sempre quando uno deve fare un elenco di libri preferiti, ma ammette che viene rispettato il gusto dell’epoca in materia di letteratura. È chiaro che i poeti citati (Virgilio, Omero, Orazio, Ovidio, Lucano) sono i più elogiati dai consumatori di letteratura del Medioevo (Omero non era letto perché il greco non si conosceva nel Medioevo, ma era conosciuta la sua fama).

Ci sono, però, studiosi che danno un senso più profondo e più logico a questo elenco. La retorica medievale considerava la poesia epica come la forma più alta, nobile e complessa della letteratura. Il massimo rappresentante di questo genere è Omero, poeta greco, autore dell’Iliade, che d’altronde gode del più alto prestigio nel gruppo; viene chiamato “poeta sovrano” da Virgilio e considerato un “sire”, cioè capo gerarchico come rappresentante dei valori più alti. Dalle parole con cui si rivolge verso Virgilio (“Onorate l’altissimo poeta”) capiamo che Virgilio è valutato da Omero come poeta superlativo sempre nel campo della poesia epica, visto che Virgilio si identifica con l’Eneide come opera sua rappresentativa. Dunque abbiamo due poeti superlativi – uno greco e uno latino – rappresentanti del genere più alto e complesso della poesia. Per ciò che riguarda gli altri tre, uno solo ha un aggettivo in grado di caratterizzarlo: “Orazio satiro”; gli altri due sono soggetti a possibili interpretazioni interessanti. Ovidio era nel Medioevo celebre soprattutto grazie alla sua poesia di ispirazione amorosa, mentre Lucano è famoso per la sua opera Farsalia, di ispirazione civica e storica che narra la guerra civile tra Cesare e Pompeo. Tre poeti rappresentanti della poesia satirica o della rettitudine (Orazio), erotica (Ovidio) e delle armi (Lucano). Dante viene ricevuto nel gruppo dei cinque: “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno”. Che posto occupa? Accanto ai minori Orazio, Ovidio, Lucano o ai maestri dello stile grave? Sicuramente si sente molto più vicino ai poeti superlativi, per gli argomenti discussi, per il genere epico; già nel momento in cui la sta scrivendo, Dante colloca la sua Commedia accanto all’Iliade e all’Eneide, si considera pari ai suoi modelli antichi [5].

La stessa struttura gerarchica si può notare anche tra gli spiriti magni che formano il canone filosofico. Il modello per eccellenza era per Dante e per tutta la filosofia medievale Aristotele, metaforicamente nominato “ ‘l maestro di color che sanno”. Vicino a lui, ma non sullo stesso piano stanno Socrate e Platone: la trinità della filosofia ellenistica. L’elenco continua con Democrito, che sosteneva che il mondo si era formato per un fortuito concorso di atomi, Diogene, il filosofo cinico, Anassagora, filosofo e fisico greco accusato di ateismo per aver sostenuto che il sole è una massa incandescente, Talete, Empedocle (l’ultimo dei grandi filosofi naturalisti presocratici che interpreta la ragione del divenire come mescolanza e dissoluzione delle quattro radici di tutte le cose da lui identificate negli elementi ultimi della realtà: fuoco, acqua, aria, terra) e Zenone. Come nel canone letterario si distinguono i tre maggiori (Aristotele, Socrate, Platone), maestri del pensiero in assoluto, accanto a rappresentanti di varie scuole, celebri, ma restrittivi nel loro operare filosofico. Tutti greci però, conosciuti per via della Scolastica, di San Tommaso, di Alberto Magno e soprattutto del maestro Brunetto Latini. Gli seguono due filosofi romani, Seneca morale e Cicerone, conosciuti in modo diretto da Dante perché scrissero in latino, anche se la loro opera, non ancora scoperta in quel momento dagli umanisti, arriva a lui parzialmente: “Fra i prosatori sta al primo posto Cicerone. Il quale non fu certo per Dante quello che fu per il Petrarca e il Rinascimento; le sue cognizioni ciceroniane si limitarono a poche opere filosofiche e retoriche, ignoto gli era l’oratore e l’epistolografo” [6]. A Cicerone, Dante si riconosce debitore per averlo condotto a meditare sulla finalità ultima della vita, sul destino supremo dell’uomo e sulla riflessione filosofico-morale. Quanto a Seneca , “non fu né poté essere un ignoto per Dante: si sa però come il «Seneca morale» , nel Medioevo fosse diffuso per florilegi, o raccolte di sentenze sue e non sue, e la prudenza non sarà mai troppa nel giudicare quanto Dante debba di prima mano a lui. L’appellativo stesso di «Seneca morale» preesiste in Dante. Indubbiamente dal Convivio, dalle Epistole, dal De vulgari eloquentia la sua figura emerge in espressioni di venerazione e in varietà di citazioni; ma insomma un’azione veramente spirituale del filosofo su Dante non si coglie, e se egli sta fra i grandi spiriti del Limbo, ultimo del resto ad apparire fra i Latini con Livio, nel «Seneca morale» c’è il suggello d’una tradizione , più che una personale caratterizzazione” [7].

Accanto a questa schiera di illustre personalità Dante colloca medici (Dioscoride, Ippocrate, Galieno), musicisti (Orfeo, personaggio mitico), matematici (Euclide), astronomi (Tolomeo, che definì meglio di ogni altro fino ai suoi tempi il sistema solare e terrestre, sostenne e impose la teoria della centralità della terra, rispettata da Dante nel suo poema) e anche due filosofi arabi, Averroè (che ha fatto il gran commento delle opere di Aristotele, il che gli ha conferito una grande fama nel Medioevo) e Avicenna, filosofo, medico e letterato persiano.

Abbiamo già precisato nella parte introduttiva che per Dante non esistono differenze tra personaggi reali e personaggi mitologici, vedremo più tardi che pure i personaggi dei romanzi medievali acquistano lo stesso statuto di persone realmente esistite. Si vede anche nel limbo, dove accanto a poeti, filosofi, scienziati, artisti si trovano gli eroi leggendari della storia troiana e romana. L’elenco comincia con Elettra, progenitrice dei troiani e accanto a lei Dante riconosce, come se fossero reali, Ettore, Enea e Cesare. In un altro gruppo appartenente alla categoria di eroi della storia troiano-romana appaiono Camilla, l’eroina italica morta nella guerra tra Troiani e Rutili, Pentesilea, reggina delle Amazzoni che aiutò i Troiani, il re Latino che regnava Sul Lazio all’arrivo di Enea, Lavinia, sua figlia e futura moglie di Enea, poi Bruto, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia. Ciò che accomuna questi personaggi è il loro fine: quello di costruire l’impero che Dio ha voluto, accanto alla Chiesa, per garantire la pace e la felicità terrena e celeste agli uomini.

Una presenza insolita tra questi spiriti che hanno arricchito il mondo culturale e storico greco-latino è il Saladino. Certo, seguendo il buon senso, Dante lo isola dagli altri e lo presenta solo, come spetta a un non cristiano per scelta e non per costrizione, però non possiamo non notare lo spirito aperto di Dante che concede a un pagano l’onore di stare in una simile compagnia. D’altronde questo personaggio si iscrive in una schiera di uomini politici o nobili che dedicarono la loro vita al buon operare civico. Saldino fu chiamato nel Medioevo il sultano d’Egitto Salt-el-Din, salito al trono nel 1174: operò con tanta generosità, chiarezza e nobiltà anche nei rapporti coi cristiani, mercanti o pellegrini, che questi lo ammirarono e ne diffusero la fama in Occidente. Dante lo apprezza (non lo salva, certo, perché non ha riconosciuto Cristo) come apprezza anche Averroè e Avicenna, spiriti colti e nobili del mondo islamico. Ciò che conta per Dante nella scelta dei personaggi del Limbo non ha legame con la loro appartenenza a un mondo reale o mitico, a una religione precristiana o musulmana, conta il valore che il personaggio simboleggia e di cui diventa rappresentante. Il Limbo può essere letto come la somma dei valori morali di Dante e insieme a lui del Medioevo, ma anche come simbolo dello spirito enciclopedico del poeta, atto a classificare e a dare un’immagine coerente dello scibile esistente fino a lui.

 

Le Malebranche : il momento più fortunato della finzione dantesca dell’Inferno

Dante e Virgilio stanno superando il ponte della quarta bolgia prendendo la strada verso la quinta. Stanno parlando su argomenti forse futili, visto che l’autore li passa sotto silenzio. Comunque all’inizio del canto XXI Dante nomina “Commedia” la sua opera e ci dobbiamo soffermare un attimo sul significato della “commedia” come genere letterario nel Medioevo. La distinzione tra “commedia” e “tragedia” portava sul registro linguistico e stilistico. La tragedia è l’opera che presenta temi nobili in lingua altrettanto nobile, ricercata e solenne. La commedia è genere letterario che permette il miscuglio di vari argomenti espressi in linguaggi adatti al tema scelto e che possono oscillare dal nobile al grottesco.

All’inizio del canto XXI, l’uso del termine “commedia” preannuncia questa varietà di stili e linguaggi specifica del genere. Siamo nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio, nelle Malebolge, dove Dante colloca i fraudolenti barattieri. Se guardiamo un po’ lo sfondo della biografia dantesca, l’argomento dei barattieri non è un tema estraneo all’autore. La baratteria era, come oggi, un peccato diffusissimo; era la prima imputazione che si faceva a un politico che cadeva o che doveva essere allontanato. Ed è stata l’imputazione fatta a Dante stesso, quando i Neri, arrivati al potere del comune di Firenze, lo processarono e lo fecero esiliare. Non mancano nell’Inferno i passi in cui Dante usa la sua opera per regolare certi conti con personaggi o aspetti della vita politica o sociale che hanno segnato in modo negativo la sua vita. Dante dedica ai barattieri un largo spazio – i canti XXI e XXII – nell’Inferno e non è del tutto improbabile o esagerato interpretare questo aspetto come una rivincita o un chiarimento di che cosa significhi un vero barattiere. Ed i barattieri, tutti uomini contemporanei a Dante, sono condannati a vivere sotto una “pegola spessa” e bollente, pena che rimanda al modo sotterraneo in cui hanno fatto i peccatori la loro fortuna. In più, questi sono condannati ad essere soggetti al sadismo straordinariamente immaginativo dei diavoli che fanno da guardia nella bolgia. Niente di nobile in questo canto, nessuna partecipazione emotiva di Dante o di Vergilio, anzi una paura ancor viva scuote il Fiorentino.

Il canto XXI è la parte più dinamica, più movimentata di tutto l’Inferno, direi la più immaginativa e la più fortunata se pensiamo al peso della finzione nell’opera dantesca. È il canto più diversificato per ciò che riguarda lo stile, il linguaggio e i personaggi. Si comincia con una descrizione realistica avant la lettre, in cui Dante paragona la pece bollente della bolgia alla “tenace pece” che bolle d’inverno sui cantieri veneziani per rinnovare le navi. Tutto presentato con dettagli precisi in un movimento frenetico che annuncia la scena dinamica dei diavoli:


“chi ribatte da proda e chi da poppa;

altri fa remi e altri volge sarte;

chi terzeruolo e artimon rintoppa”. [8]


L’apparizione del primo demonio – “un diavol nero” – incute a Dante una forte paura, paragonabile soltanto a quella iniziale, quando il poeta si è ritrovato da solo nella foresta. In ambedue i passi, la paura si manifesta attraverso la stessa esclamazione : “Ahi, quanto a dir qual era è cosa dura / questa selva selvaggia e aspra e forte” (canto I), “Ahi quant’elli era nell’aspetto fero!” (canto XXI). La descrizione del diavolo risente la tradizione medievale, l’iconografia e, soprattutto, l’immaginario popolare. Il diavolo è nero, colore che tradizionalmente simboleggia il peccato, e feroce (“fero”), crudele (“acerbo”) nel comportarsi, si muove con agilità e presenta due ali aperte, segno della caduta dal Paradiso e dalla condizione angelica. I diavoli danteschi sono gli stessi che oggi ispirano l’immaginario popolare.

I demoni vengono chiamati con un nome collettivo fittizio, che sorprende un dettaglio fisico trasformato in strumento di pena per i peccatori. Infatti MALEBRANCHE è nome composto da due parole “branche” e “male”, cioè dotati di maligni artigli con i quali graffiano la carne dei peccatori che fuoriescono dalla pece. Spicca tra questi diavoli il capo, già presentato sopra come “un diavol nero”; il nome completa la sua descrizione con un dettaglio fisico che Dante aveva omesso all’inizio: MALACODA. Certo, diavolo senza coda sarebbe una mancanza grave all’aspetto tradizionale assegnato dall’immaginario collettivo ai diavoli. L’epiteto “mala” sottolinea l’aspetto negativo, malefico, la grande perversità del capo dei Malebranche. Più che violento, Malacoda è perverso psichicamente; lui è il maestro della menzogna e riesce molto bene a nascondere il suo pensiero sotto un discorso benevolo, a volte proprio gentile. Se costruisce un inganno per Dante e Vergilio, lo fa per il piacere di prenderli in giro e di offrire ai diavoli che ha in subordine uno spettacolo diverso da quelli ai quali partecipano ogni giorno. Sembra una farsa popolare o carnevalesca, in cui le parti si rovesciano e sono i diavoli che fanno la legge dinanzi a chi fu autorizzato dalla divinità a compiere il viaggio salvatore. Anche gli altri diavoli portano nomi altrettanto fortunati per chi studia gli antroponimi danteschi. Nei nomi sono raccolte le loro qualità psicologiche, il modo di comportarsi oppure la caratteristica fisica più evidente. Ogni nome è composto da un sostantivo comune al quale viene aggiunto un prefisso o un suffisso, un aggettivo o un verbo; eccezione fa SCARMIGLIONE che ha alla base il verbo "scarmigliare", preceduto da un accrescitivo con valore spregiativo. Questo è il diavolo che manifesta il più forte desiderio di far provare a Dante l’efficacia del suo uncino: “Vuo’ che ‘l tocchi / […] in sul groppone?”. Solo l’ordine duro di Malacoda rimette il diavolo al posto suo, salvando la schiena di Dante dal desiderio sadico: “Posa, posa, Scarmiglione!”.

Sottocapo dei diavoli per ordine di Malacoda è BARBARICCIA. Lui sarà il capo della brigata formata da dieci diavoli che accompagnano Dante e Virgilio. Il suo nome è esplicito; formato da un nome comune (“barba”) seguito da un aggettivo epiteto (“riccia”), riporta su un tratto fisico evidente del diavolo. Però non è tanto il nome che lo caratterizza, quanto l’atteggiamento, i gesti, e soprattutto quello che chiude il canto XXI, gesto di grande volgarità, espresso in parole popolari di grande effetto comico: “elli avea del cul fatto trombetta”. Tale gesto e tali parole incredibili nell’opera di Dante dimostrano la straordinaria capacità del poeta di adattarsi agli stili più vari, agli argomenti più sorprendenti. È forse l’unica volta che Dante lascia agire i suoi personaggi da soli, in base a una loro psicologia propria, senza sottoporli ai suoi principi etico-religiosi. Infatti, non reagisce nel canto XXI al gesto rozzo di Barbariccia, anzi lo colloca alla fine del canto proprio per dargli maggiore rilievo, né chiede a Virgilio spiegazioni dotte per giustificarlo. Lo prende come tale, segnale di partenza per due viaggiatori per l’Inferno, accompagnati da una “brigata” di diavoli con gli uncini e i denti pronti a scarmigliare chicchessia.

Il discorso su questo gesto lo riprende il poeta nel canto successivo, quando cerca un paragone all’insolito segnale di partenza lanciato da Barbariccia; non trovandolo, conclude con ironia:


“né già con sì diversa cennamella

cavalier vidi muover né pedoni,

né nave a segno di terra o di stella.” [9]


Ritornando ai comici nomi dei diavoli, alcuni sono attestati dalla numismatica tradizionale come ALICHINO, che deriva dal francese Hellequin, nome di diavolo conosciuto che ha alla base il sostantivo comune “ali”, il che testimonia la sua rapidità di movimento. Alla fine del canto XXII Alichino sarà protagonista di una scena di grande effetto comico, in cui vanta proprio il dono della sua agilità e velocità nel muoversi. Ecco le parole che lancia a Ciampolo, fraudolente navarrese che racconta la sua disavventura:


“Se tu ti cali,

io non ti verrò dietro di galoppo,

ma batterò sovra la pece l’ali” [10]


Anche FARFARELLO è un nome che si trova nella demonologia medievale ed equivale, forse, a folletto; cio che è sicuro è il fatto che la sua fisionomia è da avvicinare a un uccello da preda, rapace, i cui occhi brillano dal piacere di “grattare la tigna” del peccatore.

GRAFFIACANE è un nome composto di un sostantivo comune (“cane”) e di un verbo (“graffia”); il significato di questo nome fa pensare alla bestialità dei diavoli, alla tradizione popolare che associa il diavolo a animali crudeli e spietati. Lo vediamo in atto nel canto XXII: Ciampolo, il dannato protagonista del canto, si concede un attimo di respiro sopra la pece; a questo punto, Graffiacane, che era più vicino a lui, lo afferra con gli uncini per i capelli e lo tira fuori dalla pece; vedendo la vittima nelle mani del diavolo imbestialito, Dante ha un momento di pietà, l’unico in questi due canti, XXI e XXII. Quello che è invitato a mettere a dosso gli unghioni al personaggio è RUBICANTE:


“O, Rubicante, fa che tu li metti

gli unghioni adosso, si che tu lo scuoi!” [11]


Ecco come spiega Tommaso di Salvo il legame tra il nome e la sostanza del diavolo: “Ogni diavolo ha un nome che ne rileva le caratteristiche maligne più salienti, secondo un principio medievale per cui i nomi sono una conseguenza delle cose, per cui cioè vi è un rapporto preciso tra il nome e le caratteristiche psicologiche dell’individuo. Perciò Rubicante può derivare da ruber = rosso e può indicare malvagità, aggressività, quella che, secondo l’opinione comune, si accompagna agli uomini rossicci” [12]. Non va dimenticata, nel suo caso, come in altri della Commedia, che Dante definisce il personaggio attraverso un aggettivo che rappresenta la somma delle caratteristiche del personaggio in questione. Rubicante viene chiamato “pazzo”, col senso di “furioso”.

Lo stesso provvedimento lo troviamo nel caso di CIRIATTO, definito dal poeta come “sannuto”, ossia munito di zanne.Tra tutti sembra il diavolo che più manifesta tendenze animalesche, nel senso più basso della parola. Pure il nome Ciriatto ha origine nella parola “ciro”, che nel fiorentino parlato significa porco. L’intero suo aspetto fisico manifesta la brama animalesca di lacerare:


“E Ciriatto, a cui di bocca uscia

d’ogne parte una sanna come a porco…” [13]


CAGNAZZO, nome che proviene da “cagnaccio”, allude a un cane grosso e violento, non privo, però, di una certa intelligenza nell’annusare il pericolo di perdere la vittima. Più che di diavolo, ha certamente il comportamento di un cane da caccia o poliziotto dei nostri giorni, dotato di un “muso” capace di sentire l’inganno:


“Cagnazzo a cotal motto levò ‘l muso,

crollando ‘l capo, e disse : Odi malizia

ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!” [14]


Forse per motivi di rima con Cagnazzo, Dante nomina uno dei diavoli della “fiera compagnia” DRAGHIGNAZZO. La parola base è sicuramente “drago”, dunque il nome si ispira ai libri di magia. A questa parola viene aggiunta un’altra, “ghigno”, riso cinico, segno del sadismo. Come tutti gli altri diavoli, manifesta una chiara insubordinazione rispetto al capo Barbariccia, il che dimostra che fa parte di un gruppo costituito ad-hoc, incapace di riconoscere qualsiasi autorità. Lui, come gli altri diavoli d’altronde, si comporta da essere incontrollabile, istintivo, preda del proprio desiderio di violenza e sadismo. Appena il capo rilascia un po’ la vittima, prima Libicocco e poi Draghignazzo cercano di lacerare almeno un po’ la carne del peccatore Ciampolo.

LIBICOCCO deriva da un nome proprio, Libia, paese ritenuto come spazio dei demoni a causa dei suoi deserti smisurati. Incapace di stare ai patti, infrange l’ordine del capo che aveva ordinato ai diavoli di non toccare per un po’ la vittima; “Troppo avem sofferto”, esclama lui e straccia un pezzo del braccio della vittima con il suo uncino. “La tolleranza dei diavoli è di breve durata in conseguenza della loro irrequietezza, della loro labilità psicologica, del loro sostanziale infantilismo congiunto ad una volontà di immediata violenza.”[15]

CALCABRINA deriva da un “calcare la brina”, nel senso di rapidità nell’agire. Alla fine del canto XXII lo vediamo “irato” perché la vittima li ha ingannati e subito ripreso, cercando un’altra zuffa, visto che ogni violenza è buona, purché sia forte. L’ira destinata a Ciampolo la trasferisce subito sul compagno Alichino, la rissa comincia e dopo si ritrovano tutti e due avvinghiati nella pece. L’episodio è simbolico perché dimostra che per i diavoli la violenza, l’ira, l’irruenza è congenita, non è solo il manifestarsi del loro ruolo di guardie e strumenti di punizione contro i peccatori. Se non possono agire contro i dannati, i diavoli scaricano la loro collera aggredendosi reciprocamente, obbedendo così alla loro natura violenta e irrazionale.

 

I demoni mitologici tra tradizione e fantasia dantesca

Abbiamo visto che nella presentazione dei diavoli dei canti XXI e XXII l’ispirazione era popolare, carnevalesca, folkloristica. Ma la fantasia di Dante occupa il primo piano, le sue trovate, i nomi che dà ai diavoli, il modo in cui questi si manifestano, il ritmo sfrenato che dà ai canti così insoliti nella Commedia ci permettono l’affermazione che questi passi sono il massimo della finzione dantesca.

Per ciò che riguarda i demoni mitologici custodi dell’Inferno, le influenze classiche sono più chiare, Dante è meno inventivo e scivola tra il solenne e il grottesco. I demoni mitologici – Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegias e più avanti le Furie e la Medusa – sono ispirati a Virgilio o alla mitologia.

CARONTE, il demonio, arriva direttamente alla conoscenza di Dante dall’Eneide di Virgilio e indirettamente dalla mitologia. La tradizione classica lo presenta come nocchiero che trasporta le anime nel regno dell’aldilà, vecchio e spietato. Caronte è la prima figura diabolica che appare nell’Inferno ed è nella sua apparizione un miscuglio di umano e diabolico. Prima di insisterci, dobbiamo fare un importante chiarimento: “Per Dante, ed anche per tutti i medievali, personaggi come Caronte, come Minosse, le Arpie, i centauri e simili non appartengono alla sfera dell’immaginazione mitica, e la mitologia non è un mondo popolato di esseri creati da un’immaginazione mossa e garantita da una religiosità superstiziosa: quei personaggi come le divinità furono reali, uomini magari che si distinsero ed eccelsero (come Minosse) in particolari attività e furono divinizzati. Ma, poiché nella realtà, quella che va al di là delle mitologie, esisteva Dio ed esistevano i diavoli nemici di Dio e in agguato fra gli uomini, in quei personaggi, come Caronte e come gli altri, bisognava vedere delle incarnazioni demoniache: dopo la morte finivano nell’Inferno e si realizzavano pienamente come diavoli” [16]. Ecco perché la prima immagine di Caronte è più umana che diabolica, sembra un vecchio disceso dall’Antichità per fare il suo uffizio nell’Inferno:


“Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo” [17]


Se non ci fossero le parole terribili che lui grida: “Guai a voi, anime prave / Non isperate mai veder lo cielo” potrebbe sembrare un vecchio benevolo. Ma Dante vuole trasformare l’antico nocchiero della tradizione in figura demonica perfino nell’aspetto; segno distintivo ne sono gli occhi di brace che illuminano l’Inferno e attirano verso il nocchiero le anime dannate. Due volte insiste Dante su questo dettaglio fisico: “ ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote”, “Caron demonio, con occhi di bragia”. Questo dettaglio serve da una parte ad attirare le anime perdute nel buio dell’Inferno, come abbiamo gia detto, da un’altra a creare un personaggio distinto, forte, dopo la descrizione terribile della massa informe degli ignavi.

Ad aprire il canto V sta un’altra figura demoniaca, MINOSSE, secondo custode dell’Inferno. La sua figura è diabolica e grottesca e solo la conoscenza del peccato gli dà un qualcosa di umano. Minosse è il mitico re di Creta e per gli antichi era il giudice dei morti. Lo è anche per Dante, solo che il Minosse dantesco opera per la legge cristiana; la sua figura è terrificante, la sua voce è un ringhio bestiale; esamina le colpe dei peccatori, decide la loro gravità e assegna loro un posto nell’Inferno. Anche lui, come Caronte dagli occhi di brace, ha un segno demoniaco distintivo: la coda lunghissima che gli serve anche da strumento di comunicazione della punizione. Nell’atto del giudicare le anime Dante fa di lui un essere piuttosto animalesco; privo della parola, segno umano e divino della razionalità, Minosse si affida solo alla coda per trasmettere ai peccatori il luogo assegnato loro. Lui agisce in modo meccanico, automatico, è un esecutore privo di discernimento dell’uffizio divino assegnatogli. L’atto di ringhiare è un altro segno della sua animalità. La domanda legittima che si può fare a questo punto: c’è un legame tra Minosse e i lussuriosi? L’istintiva bestialità di Minosse, la mancanza di qualsiasi razionalità c’entra mai con la colpa di quei disgraziati che hanno dimenticato sé stessi nell’atto di abbandonarsi alla passione? Minosse, come Francesca, sono conoscitori di ciò che significa peccato, sono personaggi ambivalenti che nella loro vita terrena hanno rinunciato al “ben dell’intelletto”, abbandonandosi all’istinto.

Ancor più bestiale e animalesco è CERBERO, il terzo custode dell’Inferno; siccome più si scende, più le pene si aggravano, anche i mostri custodi diventano figure sempre più diaboliche e violenti. Nella creazione di Cerbero, Dante ha sicuramente esagerato, seguendo la mitologia ma anche l’immaginario popolare che vede i demoni come dei draghi, figure grottesche con tre teste. Aggiungiamo che la mitologia rappresentava Cerbero fornito di capelli-serpi, simili alla Medusa. “In Virgilio (Eneide, VI) è presentato come portinaio dell’Averno; per superarlo, la Sibilla invita Enea a gettargli nelle strozze una focaccia fatta di miele e di erbe magiche. Durante il Medioevo Cerbero diventò simbolo dell’ingordigia ma anche della discordia intestina.” [18] Come nel caso di Caronte e Minosse, Dante trasforma Cerbero in strumento della volontà divina, ma gli rileva la natura bestiale e diabolica. Cerbero è una fiera crudele e “strana” (da capire mostruosa), con tre teste con le quali “caninamente latra” ai golosi immersi nel fango. Ha gli occhi di fuoco (“vermigli”), la barba unta e nera, il ventre largo come per simboleggiare il peccato della gola, mani unghiate con le quali graffia gli spiriti e li scuoia. L’immagine supera come violenza quella virgiliana ed è da riportare alle tendenze medievali che negli affreschi e nell’iconografia presentano scene infernali insistendo sul lato grottesco, terrificante ed animalesco. Tale è anche il modo in cui Cerbero reagisce dinanzi ai due viaggiatori: non più verbalmente, perché Dante gli rifiuta completamente questo dono, ma simile a un “gran vermo”, apre le tre bocche cercando di spaventare i due, mostra loro le sue zanne e muove le numerose membra che costituiscono la sua schifosa figura. Questa volta Virgilio non recita più la sua formula magica destinata ad imporre ai mostri custodi la volontà divina, ma riprende l’atto di chiudergli la bocca, presente anche nell’Eneide. Solo che non è la focaccia che soddisfa la golosità del mostro, ma un pugno di terra, simbolo della caduta di Cerbero nella degradazione e nell’animalesco.

La corrispondenza Cerbero-golosi è evidente: le tre bocche, il ventre largo, le zanne rapaci, la brama con la quale ingoia la terra buttatagli da Virgilio sono tutti simboli del peccato della golosità.

PLUTO, il quarto custode dell’Inferno fa da guardia al quarto cerchio, dove vengono puniti i prodighi. La mitologia affidava a questo ex-dio la protezione delle ricchezze, dunque non per caso custodisce adesso i peccatori che hanno sottomesso il loro intelletto al denaro. Le parole di Pluto che aprono il canto – “Papè Satan, papè Satan aleppe!” – sono tra le più discusse dell’Inferno. Al di là di qualsiasi interpretazione, due cose sono indiscutibili: l’invocazione a Satana e il fatto che Virgilio ne capisce il senso. Alcuni interpreti ritengono che queste parole non abbiano e non vogliano proporre alcun senso e siano in sintonia con la mancanza di qualsiasi seme di ragione di Pluto e dei dannati del quarto cerchio. Altri, invece, ritengono che accanto a Satan = Lucifero anche le altre parole sono comprensibili: “papè” deriva da un’interiezione greca, “aleppe” deriva dall’ebraico “aleph”, prima lettera dell’alfabeto = il primo, Dio o dal greco “alpha” con significato identico a quello di “aleph”. In base a queste spiegazioni il verso suonerebbe così: “Oh Satana, oh Satana, oh Dio”. Comunque, ritornando al testo, Pluto è creato come personaggio misterioso, dalla voce rauca (“chioccia”), dalla faccia gonfia di ira (“ ‘nfiata labbia”), nominato da Virgilio “maledetto lupo”. Il significato del “lupo” o meglio dire della “lupa” è ovvio se pensiamo al primo canto. Secondo il senso allegorico la lupa simboleggia l’avarizia, la sete insaziabile di ricchezza. Questo, secondo Dante e la concezione medievale è il più grave peccato dell’umanità perché genera odio, violenza, guerra, corrompe l’individuo e le istituzioni. Ancora una volta si vede quanta corrispondenza esista tra i custodi demoniaci e il peccato che essi puniscono per volontà divina.

Meno caratterizzato e anche meno demoniaco pare FLEGIAS, il nocchiero che appare nel quinto cerchio, quello degli iracondi. Questo avanza verso Dante e Virgilio in “una nave piccioletta” e nelle parole che grida “Or se’ giunta, anima fella!” si legge la gioia del demonio che vede arrivare una nuova vittima. Anche questo nocchiero, come Caronte, Dante lo ha preso dalla letteratura classica, nella quale si dice di Flegias che, figlio di Marte e di Crise, incendiò il tempio di Apollo, irato contro il dio che aveva sedotto sua figlia. Dante gli ha assegnato il compito di guardiano e nocchiero dello Stige e ne ha fatto il simbolo dell’ira. Lo caratterizza Sapegno: “si traduce in un cieco impulso di vendetta e distrugge nell’uomo il timore e il rispetto della divinità. È più che un simbolo, una figura vivente dell’ira…plasticamente sbozzata con rapidi segni da una robusta fantasia, alla quale le fonti classiche hanno fornito poco più che lo spunto iniziale ed il nome”. Non ci insiste molto Dante, perché altra è la figura che fa da protagonista in questo canto, Filippo Argenti, contro il quale Dante ha parole dure (“brutto”, “maledetto”, “lordo”) e al quale assegna un posto ben più ampio di quanto dedica al nocchiero.

Molto più terribili sono le tre Furie, MEGERA, ALETTO, TESIFON che si levano in un gesto teatrale sulla torre della Città di Dite in un momento di grande drammaticità, quando Virgilio trova per la prima volta una difficoltà nel continuare il viaggio. Un esercito di diavoli si interpone nel canto VIII sulla strada dei due poeti ed è la prima volta che la formula magica di Virgilio non può funzionare. La ragione umana, religiosa o filosofica si vede scontrata dinanzi ai diavoli che, ritti sulle mura, impediscono loro l’entrata. Nel canto successivo, il nono, l’apparizione delle Furie accentua la drammaticità del momento. Le Erinni (le Furie) erano nella mitologia figlie della Notte e di Acheronte, divinità minori che garantivano la vendetta, perseguitavano i colpevoli e tormentavano i dannati. I greci attribuivano loro il compito di scatenare i rimorsi della coscienza. Dante non conosceva il greco, dunque le Furie arrivano alla sua conoscenza mediante Virgilio e altri poeti latini; il Medioevo le vedeva come mostri dai capelli fatti di serpenti, come la Medusa nel nostro immaginario. Nell’Inferno dantesco appaiono sporche di sangue (“di sangue tinte”), con membra e modo di comportarsi femminili (“che membra femminile avieno e atto”), col corpo ornato di serpenti verdi (“con idre verdissime eran cinte”) e tradizionalmente anguicrinite (“serpentelli e ceraste avien per crine”). Le Furie sono sorprese nell’atto di autoflagelazione, si feriscono il petto con le unghie e gridano con voci acute. Molto probabilmente loro rappresentano per Dante il manifestarsi della passione scatenata. Meno chiaro è il significato che assume nella Commedia la MEDUSA, mostro mitologico capace di pietrificare con il suo sguardo chi osi guardarla. I critici non hanno ancora trovato una soluzione unanimemente accettata per ciò che riguarda il compito affidato dal poeta alla Medusa e il significato che lei assume nell’economia del poema. La difficoltà sta nelle parole con le quali il poeta avverte il lettore che dietro ai versi strani che seguono l’apparizione della Medusa e al gesto protettore di Virgilio che copre il viso del discepolo c’è una dottrina, un significato religioso o etico che gli intelletti sani non devono trascurare:


“O voi ch’avete li ‘nteletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto ‘l velame de li versi strani.” [19]


Molti commentatori vi hanno colto “la disperazione del peccatore”, ritenuta dai teologi “gravissimo pericolo di perdizione” (Porena), risalendo così al mondo religioso e morale di Dante, il quale arricchisce, come spesso fa, un personaggio della mitologia classica di un significato allegorico nuovo. Altri studiosi hanno visto nell’apparizione delle Furie e della Medusa un semplice momento di grandiosa coreografia infernale o l’hanno interpretata – come abbiamo visto nel caso di Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegias – come la custode del sesto cerchio e quindi ne hanno fatto il simbolo dell’eresia. Boccaccio la vede come simbolo dell’ostinazione e la sua interpretazione non è priva di buon senso, visto che il Messo sceso in extremis per aiutare ai due poeti rimprovera ai diavoli, alle Furie e alla Medusa (e in genere a chi si oppone alla volontà divina, come gli eretici, per esempio) proprio l’ostinazione nel non riconoscere la loro sconfitta e nel contrastare Dio eternamente.

Privi dell’attributo demoniaco sono i personaggi mitologici che nel canto XII puniscono gli omicidi. Il MINOTAURO e i CENTAURI appartengono alla mitologia greca ed è soprattutto Ovidio che li introduce nella cultura latina. Nella creazione del Minotauro Dante opera qualche modifica, come spesso fa nei casi in cui trasforma i personaggi mitologici pagani in strumenti della realizzazione della volontà divina. Il Minotauro è il protagonista di uno dei miti più violenti della cultura greca. Pasifae, moglie del re Minosse, si innamora di un toro e dal loro rapporto nasce il Minotauro. Nel suo nome è evidente il detto latino “Nomina sunt consequentia rerum”: nato da un amore tra un essere umano femminile e un animale, “Mino” viene da Minosse e “tauro” viene da toro, dunque tradotto Minotauro significa “toro di Minosse”; la mitologia greca lo immagina metà toro e metà uomo, più precisamente con il corpo di un uomo e la testa di un toro. Dante rovescia la tradizione e lo raffigura con testa di uomo. Nel suo Inferno, il Minotauro è denominato “l’infamia di Creti” (canto XII, v. 12), metafora che gli dà un forte giudizio negativo sul piano etico. Il Minotauro è simbolo dell’ira che si trasferisce sulla propria persona; infatti questo è sorpreso nell’atto di mordersi alla vista dei due poeti di cui uno vivo, però non crea difficoltà a Virgilio; come ogni essere dominato dall’ira, alla violenza delle parole di Virgilio, che rievoca la scena della morte del mostro cretese (“Forse / tu credi che qui sia ‘l duca d’Atene, / che su nel mondo la morte ti porse?” – v. 16-18, c. XII, p. 241), il Minotauro cade preda al proprio istinto bestiale e mentre consuma la sua ira, libera inconsciamente la strada ai due viaggiatori. Nella mitologia greca lui è il mostro assetato di sangue che richiede ogni anno tributo di giovani sacrificati; Dante lo colloca nello stesso ambito, dei tiranni che hanno fatto violenza contro il sangue e i beni dei loro sudditi, ma gli attribuisce anche il simbolo della sconfitta; è cosi che si deve leggere il paragone con il toro che ha ricevuto un corpo mortale e non trova più la via della salvezza, ma si consuma nel dolore e nella disperazione:


“Qual è quel toro che si slancia in quella

c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale,

che gir non sa, ma qua e là saltella,

vid’io lo Minotauro far cotale” [20]


Nello stesso canto XII, nel primo girone appaiono tre personaggi mitologici che hanno il compito di impedire alle anime dei dannati di uscire dal Flegetonte, il fiume di sangue bollente nel quale sono puniti gli omicidi: sono i centauri NESSO, FOLO e CHIRONE. Nella mitologia greca questi appaiono come creature mostruose, per metà cavalli, per metà uomini, che girano il mondo armati di saette e spinti dalla loro duplice natura, simile a quella del Minotauro, a compiere atti di grande violenza. Il primo che si distingue nella schiera dei tre centauri è NESSO che minaccia con l’arco Dante e Virgilio e chiede ai due la natura del loro peccato e dunque della loro pena: “A qual martirio / venite voi che scendete la costa?” [21]. La mitologia racconta che Nesso, innamorato di Deianira, moglie di Ercole, rapì la donna amata, ma fu colpito dalle frecce avvelenate del marito. Prima di morire, il centauro tramò contro di Ercole un ultimo inganno: convinse Deianira che, se avesse intriso del suo sangue la camicia che indossava, avrebbe riconquistato l’amore del marito, se tradita, gliel’avesse fatta indossare. Quando Ercole si innamorò di Iole ed era tentato ad abbandonare la moglie, questa gli offrì a indossare la camicia insanguinata: il veleno penetrato dalle frecce di Ercole nel sangue di Nesso ritornò contro chi le aveva mandate ed Ercole vi trovò la sua morte. Questa volta Dante non si allontana dalla mitologia e sorprende in una terzina densa l’intera storia del centauro, insistendo sull’amore per “la bella Deianira” e sulla vendetta crudele.

FOLO, il secondo centauro, è più vicino al Minotauro in quanto “fu sì pien d’ira” (c. XII, v. 72). Difatti, invitato insieme con altri centauri alle nozze di Pirotoo, re dei Lapiti, ne volle rapire la moglie e fece scoppiare una rissa violenta da cui per l’intervento di Teseo i centauri furono vinti.

Di uno statuto diverso tra i centauri gode CHIRONE; Dante ne fa il comandante e sorprende la sua saggezza e soprattutto la capacità di distinguere l’uomo vivo dai morti, dunque di riconoscervi la volontà divina. Molto probabilmente Dante conferisce belle qualità umane e pure magnanimità a questo centauro soprattutto per la sua fama di maestro di Achille. Se lo nomina “gran Chiron”, non è sicuramente per la sua grandezza fisica, ma per la sua capacità di nutrire l’eroe greco con conoscenza e virtù.

Si può notare da ciò che abbiamo detto prima che i Centauri danteschi non sono, come i diavoli dei canti XXI e XXII, un personaggio collettivo che agisce unitariamente. La loro duplice natura umana e bestiale spiega i comportamenti diversi che adoperano e giustifica le variazioni nei loro atteggiamenti: da una parte sono creature fatte di sangue e violenza, da un’altra rivelano saggezza e magnanimità. È suggestiva l’opinione di Boccaccio, secondo cui nei Centauri Dante vedeva l’immagine dei soldati mercenari, al servizio dei signorotti-tiranni (citato da Di Salvo, op. cit., p. 244). Di signorotti se ne trovano un paio in questo primo girone: Ezzelino III, Obizzo d’Este, tiranni italiani, Alessandro (forse Magno) e Dionisio il vecchio, tiranni sui quali ritorneremo quando si parlerà dei personaggi storicamente esistiti.

Soffermiamoci un po’ alla figura fortemente controversa di GERIONE, mostro mitologico che custodisce il terzo girone del settimo cerchio. La sua presenza è annunciata da Dante alla fine del canto XVI e possiamo dire che in questa particolare situazione Dante si comporta da vero regista che domina da maestro l’arte del suspense. In non meno di 15 versi (v. 121-136), il poeta crea una situazione di grande perplessità. Il discorso lo comincia Virgilio, che annuncia a Dante un qualcosa di indefinito che forse Dante immagina vagamente ma non ne può intuire sicuramente l’intera dimensione:


“Tosto verrà di sovra

ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;

tosto convien ch’al tuo viso si scovra” [22]


Dante entra subito nel gioco del maestro e continua sulla stessa scia provocatoria e misteriosa. Prende la parte di chi non sa se confessare o no un qualcosa (qualcosa perché ancora indefinito), che sembra una menzogna tanto appare incredibile, giura sulla fama futura e durevole della sua Commedia di aver visto salire dall’abisso (salire è un modo di dire, Dante usa il verbo “nuotare”) una figura che crea sgomento e stupore (“meraviglia”) anche al cuore più sicuro e padrone di sé. Con la promessa di rivelare al lettore questa figura si chiude il canto XVI. Il canto successivo irrompe con l’esclamazione di Virgilio che mostra al suo discepolo la fiera promessa:


“Ecco la fiera con la coda aguzza

che passa i monti e rompe i muri e l’armi!

Ecco colei che tutto il mondo appuzza!” [23]


La “fiera”, “colei” che spinge Virgilio, personaggio così razionale a esclamare, a gridare quasi, si mostra a Dante e al lettore in tutta la sua vigorosa corporeità. Si continuerà la sua descrizione in altri 24 versi, senza che il nome della bestia sia pronunciato. Sembra un mostro fatto di pezzi di puzzle, tanto sono contradditori le parti che compongono il suo corpo, un’eruzione di fantasia che va in crescendo, senza diminuire un attimo il ritmo e il suspense. Infatti il nome del mostro non è svelato, ma gli si aggiungono tratti fisici sempre più sorprendenti, fino a creare l’immagine di una creatura difficile da immaginare e da creare anche nella mitologia. Di questo mostro Dante rileva inizialmente due elementi negativi che si imprimono per la loro violenza: la forza in grado di travolgere ogni impedimento naturale e umano ed il puzzo che, invisibile, inarrestabile, avvolge ogni cosa e la contamina. È questa la “sozza immagine di froda” che si avvicina al gesto di Virgilio e scopre la testa e il busto, ma nasconde la coda aguzza, simbolo dell’operare sotterraneo del fraudolento. Ha la testa umana, la faccia dell’uomo giusto d’aspetto benevolo, mentre il resto del corpo è di serpente, tranne le zampe che sono artigliate fino alle ascelle. Gerione si presenta dunque triforme: volto di uomo, corpo di serpente, zampe di leone; il volto esprime benignità, è rassicurante all’esterno; le zampe artigliate indicano la rapacità ma anche la violenza bestiale che si nascondono dietro la maschera della bontà; le striature e i cerchi che coprono il corpo di serpente simboleggiano i modi complicati, gli imbrogli labirintici dei fraudolenti. Aggiungiamo la coda velenosa di scorpione, simbolo della malvagia perversa. Quanto al rapporto del Gerione dantesco con quello mitologico, nella realizzazione dantesca della figura di Gerione vengono a confluire tratti ed elementi estranei alla configurazione di questo personaggio che si manifesta nell’ambito della mitologia classica. Alberto Borghini ne trova alcune: prima di tutto “il paragone dantesco «Come ‘l falcon ch’è stato assai sull’ali, / che sanza veder logoro o uccello / fa dire al falconiere ‘Ohmè tu cali!’ / discende lasso onde si move snello, / per cento rote» richiama certo la pratica medievale della caccia col falcone; al contempo ritengo tuttavia che non si debba neppur dimenticare l’associazione del Gerione dell’antichità con il falco: i due momenti potrebbero semplicemente confluire“ [24]. Lo stesso studioso nota che il nome di Gerione possa essere etimologicamente collegato “con un verbo quale geryo, «gridare, urlare, muggire»; da qui un effetto di «corrispondenza antifrastica» fra il nome proprio Gerione e, all’estremo opposto, il «mutismo totale» del personaggio in questione” [25].

Possiamo concludere che i personaggi mitologici che fanno da guardia nell’Inferno dantesco sono tutti di ispirazione mitologica greca o latina; il mondo greco Dante lo conosce esclusivamente per via indiretta, per traduzione o per l’interpretazione altrui. Il mondo e la cultura latina, li conosce senza dubbio, ma spesso li trasforma secondo le sue convinzioni etico-religiose. Gli dèi antichi diventano spesso demoni, strumenti di tortura per i peccatori antichi o contemporanei, e soprattutto sono trasformati in guardie che vegliano nell’Inferno perché la volontà di Dio sia fatta. Dante assume una vasta materia, la interiorizza nel suo intimo sistema di valori, la filtra attraverso la tradizione medievale e la trasforma in simboli con valore allegorico.

 

Realtà e fantasia nei personaggi di ispirazione medievale

Dobbiamo prima di tutto fare la distinzione (anche se Dante non la fa) tra personaggi reali: nobili della società comunale, artisti e poeti, papi ed ecclesiastici, rappresentanti della borghesia ecc. e personaggi d’ispirazione letteraria, del ciclo bretone soprattutto. È chiaro che, come nei casi che abbiamo visto dei personaggi mitologici, ciò che conta è la forza dell’esempio, scegliere chi è più adatto per incarnare un certo tipo di atteggiamento, di peccato, una certa realtà storica. Direi che nel caso dei personaggi medievali, il rapporto con l’io poetico dantesco è molto più sfumato, i personaggi sono più vivi e, siccome Dante non deve più attenersi alla mitologia e dunque alla tradizione, la fantasia poetica è più libera a manifestarsi. Certo che i personaggi sono numerosissimi, manca lo spazio in questo ambito per darne un’immagine esaustiva, dunque saranno presentati i personaggi più ricchi in significati, i più rappresentativi.

Cominceremo col canto V, emblematico per il modo in cui Dante mescola varie fonti di ispirazione per trasmettere al lettore l’immagine giusta sulla lussuria. Sceglie una schiera di personaggi in cui l’esotico, lo storico, il mitico e la leggendaria Tavola Rotonda nonché la cronaca nera italiana più vicina a Dante, dunque anche più commovente si mescolano. La schiera dei peccatori di lussuria comincia con SEMIRAMIDE, regina degli Assiri nel XIIo o XIVo secolo, continua con DIDONE, suggerita tramite il verso “colei che s’ancise amorosa” [26] e riporta al suo amore passionale per Enea, poi CLEOPATRA, donna percepita dal mondo romano come mostro di lussuria, ELENA, fonte di disgrazia per i Troiani, ACHILLE, di cui la leggenda dice sia morto ucciso da Priamo, in seguito al suo amore per Polissena, PARIDE, eroe dell’Iliade e finalmente TRISTANO, il celebre cavaliere medievale della Tavola Rotonda, colui che morì d’amore per Isotta. La protagonista del canto, quella che per Dante incarna come nessun’altra la perdita del ben dell’intelletto dedicandosi all’amore è FRANCESCA. Come altri personaggi dell’Inferno, lei segue un determinato ordine nel presentarsi; all’inizio, il luogo di nascita: Ravenna, città marina nel Medioevo, alla confluenza del Po:


“Segue la terra dove nata fui

su la marina dove ‘l Po discende

per aver pace co’ seguaci sui” [27]


e poi l’inizio della sua storia dolorosa, lo svolgimento e la drammatica fine. Il contributo di Dante-poeta alla creazione di questo personaggio è massimo. La storia non dà grande importanza a questo episodio, è Dante che lo ripropone al lettore di sempre come esempio di amore gentile infelice. La storia la conosciamo dalle sue parole: insieme a Paolo (da lei nominato indistintamente “colui”) leggeva le avventure di Lancilotto e della regina Ginevra, moglie del re Artù. La lettura dei libri cavallereschi, come si vede, era uno dei principali passatempi dell’aristocrazia medievale italiana del Duecento. La storia d’amore dei due personaggi della Tavola Rotonda spinge Francesca e Paolo a dar sfogo al loro amore. È da segnalare però che l’attrazione amorosa è anteriore alla lettura: Francesca non è una Bovary romanesca che si nutre di sentimentalismi. Infatti Francesca è da collocare piuttosto nella Vita nuova che nell’Inferno; i concetti che lei esprime, il suo linguaggio sono quelli del Dolce Stil Nuovo e Dante fa di Francesca una rappresentante del “cuor gentil”, l’aristocratico concetto duecentesco che dava peso alla nobiltà dell’anima e considerava l’amore come segno distintivo di questa nobiltà. Tre terzine in cui lei presenta la nascita e l’evoluzione della sua storia cominciano con la parola “amore” e trascrivono in versi l’arte poetica del Dolce Stil Nuovo: il verso “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” [28] manda all’ “Amor e ‘l cor gentil sono una cosa” della Vita nuova ed esprime in termini senza equivoco che l’amore è una condizione e una conseguenza nello stesso tempo di chi è dotato di un cuor gentile. La legge dell’amore obbliga ad amare chi è amato (“Amor ch’a nullo amato amar perdona” [29]) e provoca anche la morte dei due amanti (“Amor condusse noi ad una morte”) [30]. “Amor che a nullo amato amar perdona” sono parole che testimoniano una certa moda culturale in cui viene collocata Francesca: queste parole sono, infatti, l’essenza di un testo fondamentale della civiltà cortese, il libro di Andrea Cappellano sull’amore. Sull’autorità dei testi letterari, Francesca rivendica l’autenticità del sentimento amoroso e in un certo senso la sua giustificazione. Si sa molto bene, Francesca era sposata a un uomo che lei non amava, dunque amando un altro, il suo amore era adulterino. Solo che Andrea Cappellano aveva decretato come assioma che tra marito e moglie non può esserci amore, il quale è un sentimento che si vince superando diverse prove, si nutre dal desiderio inappagato, si sottomette a particolari norme di comportamento. Francesca è un personaggio che vive in un contesto in cui queste idee erano diffusissime, le conosce bene anche Dante, che prova infinita pietà per la sfortunata coppia [31], solo che per lui la legge cristiana supera qualsiasi altro.

Spesso nell’Inferno Dante prova sentimenti di pietà, rispetto o ammirazione per i personaggi magnanimi. Nella maggior parte dei casi questi avvertono un duplice aspetto – di peccatori e di personalità esemplari nel loro operare terreno - e Dante lo rileva senza alcuna perplessità. Ci soffermeremo su alcuni fra questi personaggi (Farinata, Pier della Vigna, Brunetto Latini).

Non c’è nessun dubbio della grande ammirazione di Dante per FARINATA. Già nel terzo cerchio, al primo fiorentino incontrato nell’Inferno [32] il poeta chiede notizie dei suoi concittadini della generazione passata e l’elenco comincia proprio con Farinata. Entrato nel cerchio degli eretici [33], il pensiero di Dante è rivolto all’atteso incontro con Farinata. Sarebbe interessante soffermarci un po’ sul modo in cui viene nominato / si nomina questo personaggio. Nella richiesta che Dante fa a Ciacco sui personaggi dell’antica generazione di Firenze, alcuni sono chiamati col nome di battesimo, gli altri col cognome. Farinata è nominato da Dante col nome di battesimo, il che può simboleggiare una relazione più stretta tra i due, nel senso che per il giovane Dante questo nome è famigliare ed esemplare nello stesso tempo. Anche Virgilio chiama il nobile fiorentino sempre col nome di battesimo nel momento in cui attira l’attenzione di Dante sulla figura mitizzata di colui che fu un modello di amor patrio. Malgrado il suo orgoglio di partito e la fierezza della sua origine nobile, Farinata non si nomina e non nomina né il suo partito né la sua famiglia, usa però ossessivamente i pronomi in prima persona per definire sé e i suoi in contrapposizione con “i tuoi”: “furo avversi a me e a miei primi e a mia parte”, “perché quel popolo è si empio / incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”, “fu’ io solo”. Appartenente alla potente famiglia degli Uberti, capo dei Ghibellini di Firenze, esponente della tradizionale nobiltà agraria, il nobile fiorentino riuscì a cacciare via i guelfi dalla città, ma il partito avverso si prese la rivincita ed espulse in esilio lui e la sua famiglia. Più tardi, nella celebre battaglia di Montaperti, immensa tragedia per i guelfi, riuscì a sconfiggere i suoi concittadini. Quello che caratterizza Farinata sin dall’inizio è l’amore per la sua Firenze: “la voce di quell’incognito [Dante che parla a Virgilio], giunta inaspettatamente all’orecchio di Farinata gli era parsa come la voce della sua Firenze e l’aveva fatto balzare in piedi: il bisogno di parlare, dopo tanti anni della sua morte, con un vivo della sua terra, di sentire da lui quello che avviene in essa, doveva esser irresistibile in Farinata” [34]. Nel dialogo col più giovane Dante, ha quell’aspetto duplice di cui si parlava prima: da una parte parla il partigiano, il ghibellino fiero che ha vinto due volte i guelfi e prova piacere a ricordarlo a Dante:


“Fieramente furo avversi

a me e a miei primi e a mia parte,

sì che per due fiate li dispersi” [35];


da un’altra parte lui rappresenta per Dante il simbolo del salvatore di Firenze, che ha operato con magnanimità per il bene della città. L’atteggiamento di Dante per l’uno e per l’altro è distinto: critica sempre con forza le fazioni politiche che riempiono di ferite la città, perciò critica Farinata-partigiano e gli rinfaccia anche lui con orgoglio la sconfitta dei ghibellini [36], ma prova ammirazione per la devozione con cui Farinata si oppose, lui solo, alla distruzione della città. “Fu sufficiente un fatto solo, in mezzo agli errori indissociabili dalla natura umana, a mettere Farinata sì alto nella considerazione di Dante: di aver trovato la forza di ascoltare la voce della patria, d’aver saputo porre freno a tutti gli altri sentimenti più violenti e far fronte egli stesso al sentimento di tutti i suoi commilitoni che richiedevano la distruzione della città” [37]. Dunque il Farinata di Dante acquista molteplici simboli che si inquadrano in una visione unitaria del pensiero politico dantesco: Farinata è per il poeta fiorentino il massimo rappresentante della vecchia generazione di una Firenze antica non ancora corrotta dalla “gente nuova”, quella borghesia interamente dedicata al guadagno immediato; si aggiunge a questo simbolo il duplice aspetto – Farinata-partigiano / Farinata-salvatore – e questa molteplice varietà di simboli fa sì che Farinata-peccatore passi su un piano più che secondario. Infatti la notizia della sconfitta definitiva del suo partito lo tormenta più che la pena infernale che punisce i peccatori di eresia col vivere dentro le tombe di fuoco:


“«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa

ciò mi tormenta più che questo letto»” [38]


La passione politica di Farinata ha allontanato la sua anima dal vero e unico valore che nella morale dantesca può essere fonte della giusta passione: l’amor divino, senza di cui l’essere umano è incompleto e soggetto a traviamenti. L’amor divino traviato in sodomia è ciò che caratterizza tra altro BRUNETTO LATINI, il maestro di Dante. Qui non si sa molto bene se Dante abbia scelto Brunetto come rappresentante dei sodomiti perché lo fu veramente oppure per la fama dei letterati e degli ecclesiastici che nel Medioevo si rendevano spesso colpevoli di questo vizio. E, siccome per Dante il suo maestro era il modello di letterato medievale per eccellenza, è possibile che lo abbia scelto piuttosto in base a questo criterio e non a uno di rimprovero diretto e personale. È indiscutibile l’importanza culturale del letterato fiorentino per la nuova generazione di poeti, detti stilnovisti: a lui devono questi il contatto con la letteratura francese e provenzale, conosciuta da Latini durante il suo esilio in Francia. Il dialogo con Dante registra ritmi alternativi: le prime parole del poeta rivolte al maestro traducono la sorpresa del discepolo che ritrova il maestro in un posto indegno della condizione che aveva nel mondo vivo: “Siete voi qui, ser Brunetto?” [39]. L’appellativo “ser”, abbreviazione di “senior”, titolo che si dava ai preti e ai notai, manda all’attività di Latini che nel comune di Firenze fu notaio, cancelliere e ambasciatore. Il suo nome appare tre volte nel canto XV: una volta nel verso citato sopra e si noti che Dante nel rivolgersi al maestro usa solo il nome di battesimo – Brunetto – preceduto dal cortese “ser”; la seconda volta, subito dopo, appare nella risposta del notaio, quando questo parla al giovane Dante e nomina sé stesso per cognome + nome, come in una prova disperata di ridarsi il peso e l’onore dovuti:


“Oh, figliol mio, non ti dispiaccia

se Brunetto Latini un poco teco

ritorna ‘n dietro e lascia andar la traccia” [40]


La relazione tra i due personaggi diventa sempre più affettuosa: Dante viene nominato “figliol”, mentre il maestro è riconosciuto come padre spirituale che ha avviato il discepolo allo studio, all’operare etico e alla creazione che è fonte di immortalità.


“ ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora

la cara e buona immagine paterna

di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’eterna” [41]


Alla fine dell’incontro il nome del maestro ritorna sotto la forma “ser Brunetto”, ma questa volta non è più un modo di rivolgersi al “padre spirituale”, invece serve solo a denominare la persona di cui si parla. In tale situazione il nome non ha più connotati, né affettivi né critici, dunque non è più soggetto a interpretazioni.

Riassumiamo: Francesca è nella Commedia il simbolo dell’amor gentile, Farinata il simbolo dell’amor patrio, Brunetto Latini è il doppio simbolo del letterato e del maestro che avvia il discepolo per la strada dell’immortalità. Sottoposti alla severa morale dantesca nell’Inferno sono ad literam i rappresentanti della lussuria, dell’eresia, della sodomia. Vediamo, dunque come Dante prende dalla realtà medievale i nomi celebri o meno celebri (Francesca sarebbe passata inosservata senza il contributo di Dante) che in base alla loro fama dovrebbero rappresentare determinati peccati. Fin qui niente di straordinario, la tecnica dell’esempio era comune nel Medioevo; ma la fantasia di Dante aggiunge a questi nomi-esempio delle caratteristiche che li trasformano in simboli; e i simboli spesso non sono quelli ai quali dovrebbero far pensare i peccati e le condanne: Francesca non è per il lettore avvisato del XXIo secolo la lussuriosa, ma l’innamorata gentile, Farinata non è l’eretico, ma il nobile patriota ecc. In questi personaggi esistiti realmente c’è una grande dosi di fantasia…

Ci sono però nell’Inferno personaggi che non avvertono il duplice aspetto negativo/positivo di cui si parlava sopra. Filippo Argenti, Vanni Fucci, Ciampolo sono dannati che nell’Inferno si comportano come nella vita reale e il loro nome e il loro comportamento non assumono connotati diversi.

FILIPPO ARGENTI è il protagonista del quinto cerchio, degli iracondi: è uno tra i tanti fiorentini che popolano l’Inferno, “spirito bizzarro”, personaggio fra i più indegni della Commedia. Sin dalle prime parole di Dante capiamo che si tratta di un essere privo di qualsiasi virtù: “pien di fango” sono parole che non si riferiscono a una situazione oggettiva, al fango in senso proprio, ma a un aspetto morale di cui il fango è segno del degrado. Subito dopo Dante continua con la stessa tonalità: “ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?” [42], anzi aumenta la durezza delle parole:


“Con piangere e con lutto,

spirito maledetto , ti rimani;

ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto” [43]


I gesti, le parole di Filippo Argenti fanno di lui il prototipo e il simbolo dell’iracondia: cerca di rovesciare la barca dove si trovano Virgilio e il poeta, si morde, non potendo scaricare diversamente la sua rabbia; Virgilio lo chiama “cane” (e il cane è simbolo della rabbia), “persona orgogliosa”, “ombra furiosa”. Senza dubbio, nel colpire Argenti, rappresentante di una famiglia particolarmente violenta e prepotente e di un partito, quello dei Neri, Dante condanna i personaggi più malefici della città. Lo stesso tipo di personaggio, però amplificato si ritrova nella costruzione di VANNI FUCCI. Alcune sfumature si possono notare tra i due; Vanni Fucci, a differenza di Argenti, non rappresenta solo il peccato punito nel suo cerchio [44], ma molteplici altri, una somma di vizi che lo trasformano in personaggio odiato e disprezzato nello stesso tempo. Così si riconosce e si caratterizza lo stesso Vanni Fucci, assumendo con fierezza i suoi vizi e la sua bestialità. Il suo autoritratto è uno dei più rappresentativi e complessi di tutto l’Inferno; comincia come tante altre presentazioni con il luogo di nascita: “Io piovvi di Toscana” [45], più precisamente da Pistoia; il luogo natio assume valore significativo perché Dante attraverso la voce di Vanni Fucci ne fa il simbolo della città prediletta dei ladri. Quanto alla propria persona, Vanni Fucci si definisce come “bestia” che ha rifiutato la condizione umana a favore della “vita bestial”, e questa bestialità sulla quale, d’altronde, il personaggio insiste due volte diventa per lui una vera e propria professione di fede. Il suo nome viene pronunciato scandito – nome e cognome – come conferma del ritratto morale assunto.


“Io piovvi di Tosca,

poco tempo è, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come al mul chi fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana.” [46]


Dante lo conosceva per la sua fama di uomo violento, dedito agli atti più sanguinosi; fu un rappresentante dei Neri, avversario politico di Dante, e si distinse per il feroce accanimento con cui perseguitò gli avversari e ne mise a fuoco le case. È questa la ragione per cui Dante si meraviglia di trovarlo tra i ladri, invece di incontrarlo nel cerchio dei violenti di cui fu il massimo rappresentante. Se non vi si trova, esiste una ragione salda: Vanni Fucci era ritenuto ladro degli arredi sacri della cappella San Jacopo, nel Duomo di Pistoia, gesto che il pistoiese racconta con cinismo e orgoglio. Dunque più della violenza, Dante ritiene sia significativo per questo personaggio l’atto sacrilego contro la Chiesa cristiana. Significativo è anche il suo gesto volgare di sfida contro Dio stesso, gesto che apre il canto XXV, successivo [47]. Al cospetto del ladro sacrilego e avversario politico, Dante prova soltanto riprovazione, disgusto, odio ed esita di rivolgergli la parola, accontentandosi della mediazione di Virgilio. B. Maier vede in questo rifiuto “la radicale impossibilità di un qualunque dialogo tra l’umanità eticamente illuminata dell’Alighieri e l’abbandono totale a un’irrazionalità animalesca di Vanni Fucci” [48].

Prima di finire, diamo un ultimo sguardo a un personaggio già citato in questa ricerca nella parte che si riferisce ai diavoli: si tratta di CIAMPOLO [49], barattiere navarrese sorpreso in un episodio tragi-comico di lotta con i diavoli. Non viene nominato nel canto con il suo nome: Dante usa per denominarlo l’antonomasia, ricorrendo al luogo natio per definirlo [50]. Per il resto è uno dei tanti personaggi reperibili, che la critica ha identificato in base ai dati biografici espressi e alla sua fama. Nella lotta ha vinto il peccatore, si è liberato per un attimo dalla pece bollente, ma anche nei momenti di vittoria non esce dalla mostruosità animalesca che lo caratterizza. La sua vittoria è il frutto di un falso intelletto, di un istinto di frode che somiglia ma non è intelligenza. Barattiere in vita, Ciampòlo continua ad esserlo anche nell’aldilà, in una continuità perfetta della sua istintiva fraudolenza, che, come aveva ingannato gli uomini in terra, riesce a beffare nell’Inferno addirittura i diavoli, esecutori della giustizia divina.

Possiamo, dunque notare che nelle varie situazioni dei personaggi esistiti realmente, Dante li tratta diversamente, o ricorrendo allo sdoppiamento per chi ha avuto nella vita vera delle qualità umane particolari e allora spesso queste qualità assumono più peso di quanto possa assumere la colpa, o li tratta solamente da peccatori rappresentativi e li trasforma unicamente in simbolo di un vizio condannabile.

 

Conclusioni

Alla base di questa ricerca sta una lettura di interpretazione che si vuole fedele alla struttura del testo, ma che ogni tanto esce dalle costrizioni, a favore di certe interpretazioni più o meno personali. Il punto di partenza è sempre stato il testo letterario e solo in secondo piano il contesto.

Siccome nella maggior parte dei casi (tranne i canti XXI e XXII) Dante popola il suo Inferno con personaggi realmente esistiti o ripresi dalla mitologia, è chiaro che il nome proprio non ha lo stesso peso come nelle opere in cui i personaggi sono creati dalla fantasia dell’autore e il loro nome testimonia un’intenzione del creatore. Abbiamo scelto dunque di mettere in discussione piuttosto i connotativi del nome proprio e solo dove la scelta del singolo nome o cognome avverte una notevole rilevanza abbiamo cercato di metterla in risalto. In più abbiamo cercato di fare una classifica dei personaggi dell’Inferno secondo la fonte d’ispirazione del poeta, in personaggi dell’Antichità e qui abbiamo incluso i personaggi presenti nel limbo: poeti, filosofi, eroi letterari e della storia. Tra i personaggi mitologici, quelli analizzati sono stati i demoni-guardie dell’Inferno che si distinguono dai diavoli, questi ultimi analizzati in un capitolo speciale. Alla fine della ricerca, un capitolo è dedicato ad alcuni personaggi realmente esistiti, di ispirazione medievale. La scelta è stata difficile, visto il grande numero di personaggi da includere in questa categoria.

Abbiamo inoltre cercato di fare la distinzione tra il peso della realtà e il peso della fantasia nelle varie categorie di personaggi: esistiti realmente, reperibili, inventati e soprattutto i simboli che questi acquistano nel sistema di valori di Dante.

Alcune conclusioni personali sono necessarie alla fine di questa ricerca:

- nella creazione dei personaggi antichi esistiti realmente – poeti, filosofi, medici, scienziati – si risente fortemente la tradizione; tranne Virgilio, che assume molteplici simboli, gli altri sono uno specchio di ciò che di loro è arrivato nel Medioevo;

- i personaggi mitologici trasformati da Dante in demoni risentono una forte influenza cristiana;

- quando Dante si allontana dalla tradizione classica e crea dei personaggi, abbiamo a che fare con un’esplosione di fantasia creativa, tanto per gli antroponimi quanto per il modo in cui i personaggi sono costruiti (per esempio: i diavoli);

- nella creazione di personaggi realmente esistiti, questi perdono spesso il loro significato reale e assumo simboli iscrivibili in un sistema etico-religioso dantesco unitario.

 


BIBLIOGRAFIA

- Dante Alighieri, Inferno, in La Divina Commedia, annotata e commentata da Tommaso di Salvo, con illustrazioni, Bologna, Zanichelli, 1993;

- Aa. vv., I nomi da Dante ai contemporanei, Atti del IVo Convegno internazionale di Onomastica & Letteratura, Pisa, 1988, a cura di Bruno Porcelli, Donatella Bremer;

- Enciclopedia De Agostini, Novarra, 2002;

- Funaioli, Gino, Dante e il mondo classico in Medioevo e Rinascimento – studi in onore di Bruno Nardi, Firenze, Sansoni, 1955;

- Getto, Giovanni, Letture dantesche, volume primo, Inferno, Firenze, Sansoni, 1965;

- Istrate, Mariana, Numele propriu în textul narativ, Cluj, Ed. Napoca Star, 2002;

- Nardi, Bruno, Dante e la cultura medievale , Bari, Laterza, 1942;

- Nardi, Bruno, Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La nuova Italia, 1967;





[1] Spartaco Gamberoni, Nomina sunt consequentia rerum, in Nomi da Dante ai contemporanei, Atti del IV Convegno internazionale di Onomastica &Letteratura, Pisa, 1998, p. 13.

[2] Goffredo Rosati, in Enciclopedia universale dell’arte, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1960.

[3] Citato in Dante Alighieri, Inferno, la Divina Commedia, annotata e commentata da Tommaso di Salvo, Bologna, Zanichelli, 1993, p. 73.

[4] Inferno I, 72-75.

[5] Quest’interpretazione del canone letterario classico è dovuta ai corsi universitari del professor Marian Papahagi.

[6] Gino Funaioli, Dante e il mondo classico in Medioevo e Rinascimento - studi in onore di Bruno Nardi, Sansoni, Firenze, 1955, p. 54.

[7] Gino Funaioli, op. cit., p. 63.

[8] Inferno XXI, 13-14.

[9] Inferno XXII, 9-11.

[10] Inferno XXII, 113-115.

[11] Inferno XXII, 40-41.

[12] Tommaso di Salvo, ed. cit., p. 427.

[13] Inferno XXII, 55-56.

[14] Inferno XXII, 106-108.

[15] Tommaso di Salvo, ed. cit., p. 431.

[16] Tommaso di Salvo, ed. cit., p. 65.

[17] Inferno III, 82-83.

[18] Tomasso di Salvo, op. cit., p.126.

[19] Inferno IX, 61-63.

[20] Inferno XII, 22-24.

[21] Inferno XII, 61-62.

[22] Inferno XVI, 121-123.

[23] Inferno XVII, 1-3.

[24] Alberto Borghini, Come ‘l falcon: elementi di corrispondenza fra il Gerione dantesco ed alcune “rappresentazioni” mitologiche antiche. Il nome proprio nel paesaggio infernale, in I nomi da Dante ai contemporanei, p. 50.

[25] op. cit., p. 52.

[26] Inferno V, 61.

[27] Inferno V, 97-99.

[28] Inferno V, 100.

[29] Inferno V, 103.

[30] Inferno V, 106.

[31] “Francesca, i tuoi martiri / a lagrimar mi fanno tristo e pio”, Inferno V, 116.

[32] Ciacco, canto VI.

[33] Sesto cerchio, canto X.

[34] M. Barbi, in Letture dantesche, volume primo, Sansoni, Firenze, 1965, p. 178.

[35] Inferno X, 46-48.

[36] “«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte» / rispuos’io a lui, «l’una e l’altra fiata; / ma i vostri non appreser ben quell’arte»”, Inferno X, 49-51.

[37] M. Barbi, op. cit., p. 187.

[38] Inferno X, 77-78.

[39] Inferno XV, 30.

[40] Inferno XV, 31-33.

[41] Inferno XV, 82-85.

[42] Inferno VIII, 35.

[43] Inferno VIII, 37-39.

[44] Ottavo cerchio, settima bolgia, canto XXIV.

[45] Inferno XXIV, 123.

[46] Inferno XXIV, 122-126.

[47] “Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»”, Inferno XXV, 1-3.

[48] B. Maier, in Letture dantesche, a cura di Giovanni Getto, vol I, p. 345.

[49] Il protagonista del canto XXII, sistemato nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio.

[50] “Lo Navarrese ben suo tempo colse”, Inferno XXII, 121.