“LA LINGUA DIVERSA – UNO STILE DI VITA”



 

 

Katerin Katerinov in dialogo con Laszlo Alexandru

 

(Perugia – Cluj)

 

(novembre-dicembre 2003)

 



            L. A.: Egregio Professore. Ci parli, per favore, di come era la Bulgaria della Sua giovinezza.

            K.K.: Della Bulgaria conservo ricordi bellissimi e tristi allo stesso tempo. Ho vissuto gli anni della guerra, il passaggio dell’esercito tedesco, il suo retrocedere e quello delle truppe sovietiche in una terra – Kurtbunar (Tervel) nel Deliorman e Bazaržik (Dobrich), che poco tempo prima era stata della Romania e che mi ha dato l’imprinting per tutta la vita. La mia sensibilità per il pluriculturalismo e per il plurilinguismo (bulgaro, italiano, russo, rumeno e turco…) si deve in gran parte a quelle terre. Difatti, leggendo le pagine in cui il Premio Nobel per la letteratura E. Canetti ricorda la sua infanzia trascorsa in quelle terre, vi ritrovo quasi tutti gli elementi socio-culturali da me vissuti in prima persona e proprio lì. In quell’epoca, senza il rumeno e il turco non si poteva neanche fare la spesa, o giocare con gli altri bambini. La lingua diversa dalla propria non era considerata tale, ma piuttosto come uno stile di vita (come il francese per i russi nell’Ottocento, per dirla con Roman Jakobson). Alcune cose si dicevano così (vale a dire in una lingua), altre in un altro modo (in un’altra lingua). Inoltre, la gente di tutte le etnie viveva in assoluta armonia, un po’ come arabi ed ebrei prima delle guerre, e i nuovi arrivati (immigrati) erano trattati come ospiti, alla pari, anzi: l’ospite era “sacro” e trattarlo non adeguatamente significava fare una brutta figura nella comunità intera. Sul piano socio-antropologico la vita era un Eden.

"...la gente di tutte le etnie 
viveva in assoluta armonia"

            Nel periodo postbellico la Bulgaria è stata più o meno come la Romania prima dell’89: i dittatori di turno, la Securitate e la politica del sospetto divoravano le persone e ne storpiavano la personalità. L’unica differenza tra i due Paesi, stranoti per la loro politica liberticida, era, come ebbi modo di dire alcuni anni fa nel corso di una trasmissione su RAI3 (Conversazioni con Katerin Katerinov), che la Romania godeva di una maggiore libertà nel campo della sua politica estera e non fu toccata, dopo gli avvenimenti del ‘68 a Praga, dalla dottrina Brežnev, della “sovranità limitata”. Ciò in quanto, a differenza della Cecoslovacchia di Dubček, non metteva in crisi il concetto di “socialismo” sul piano ideologico interno. L’indipendenza della Romania sul piano della politica estera serviva, inoltre, da alibi per l’URSS nell’ambito di una presunta libertà dei singoli paesi satelliti, oggetto di critiche da parte dell’Occidente libero. La vita si svolgeva sotto una cappa di grigiore insopportabile.

            L.A.: Perché ha scelto di lasciare la Bulgaria?

            K.K.: Non si è trattato di una decisione a priori. Fui costretto dalle circostanze di un caso diplomatico nell’Ambasciata di Bulgaria a Roma, per cui io ero predestinato al ruolo di “capro espiatorio” con immaginabili conseguenze, anche se ne ero completamente estraneo. La mia scelta di non tornarci è stata dettata da motivazioni di ordine professionale e personale, il che ha reso molto precari i miei rapporti con la Bulgaria ufficiale.

            L.A.: E come mai è arrivato proprio in Italia?

            K.K.: Niente di casuale. Come italianista all’Università di Sofia e con un diploma con seconda specialità in filologia slava e bulgara, fui scelto nel 1964 per assumere, nell’ambito degli Scambi Culturali con l’Italia, l’incarico di Lettore di Lingua bulgara presso la Cattedra di Filologia slava all’Università di Roma “La Sapienza”, compito che svolsi fino al 1967. Fui costretto a chiedere asilo politico, data l’incombente minaccia di rappresaglie in patria. In quel periodo ebbi il privilegio di vivere a stretto e quotidiano contatto con menti eccelse, quali il prof. Riccardo Picchio, che più tardi sostituì Roman Jakobson nella prestigiosa Harvard University, il prof. Angelo Maria Ripellino, Direttore dell’Istituto di Filologia Slava, il prof. Aurelio Roncaglia, Direttore dell’Istituto di Filologia Romanza e uno dei più grandi filologi romanzi del ‘900.

"...senza il rumeno e il turco 
non si poteva neanche giocare 
con gli altri bambini"

            In seguito, al termine del mio incarico all’Università di Roma, sono stato chiamato a tenere un corso di Lingua russa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia.

            Contemporaneamente ho iniziato a insegnare all’Università per Stranieri di Perugia, nel cui ambito ho trovato le condizioni favorevoli per fare ricerca sul campo e sviluppare un modello di didattica dell’italiano come seconda lingua, che ho applicato in pubblicazioni destinate all’apprendimento dell’italiano a vari livelli, a tutt’oggi insuperato come numero di copie vendute in tutto il mondo negli ultimi 35 anni. Ho avuto più di 30 000 studenti e 25 000 insegnanti d’italiano durante i corsi regolari in loco e quelli di aggiornamento nella didattica linguistica in tutti e cinque i continenti. A loro avrò senz’altro dato qualcosa, se continuano ancora a cercarmi, ma quanto io ho avuto da loro e continuo a ricevere…

            Per quanto concerne i contatti con la Romania, l’ultimo risale al 1992 (Bucarest e Iaşi). Sarei dovuto andare, secondo il programma concordato, anche all’Università di Cluj, ma per una banale coincidenza ciò non fu possibile.

            L.A.: Tanti degli esiliati romeni in Occidente, a Parigi per esempio, si lamentano dell’accoglienza molto fredda che hanno dovuto subire, dopo la seconda guerra mondiale, a causa dell’intellighenzia locale, prevalentemente di sinistra. Qualcuno che scappava via dall’inferno est-europeo era spesse volte visto nel “mondo libero” come un virtuale fascista, arrivato per contestare il comunismo, i suoi ideali di progresso e il prototipo della perfezione umana. Ci sono voluti gli scritti di Aleksandr Solženicyn, usciti negli anni ‘70 (soprattutto l’Arcipelago Gulag), per far svegliare le sensibilità e il minimo buon senso occidentale su questo argomento. Da quello che conosco io, la sinistra occidentale più sviluppata e coerente si trovava a quei tempi proprio in Italia. Che tipo di ostacoli ha dovuto superare Lei, per “colpa” delle Sue origini est-europee?

            K.K.: La critica, implicita nella domanda, alla sinistra italiana e l’occidente degli anni ‘50 e ‘60 è valida in gran parte ancor oggi. Basti pensare agli schieramenti politico-partitici attuali, per rendersene conto. Lo stalinismo e lo ždanovismo, parafrasando Lenin, sono tuttora la malattia senile del comunismo occidentale. Il sintomo più evidente è costituito dalla totale assenza di tendenze critiche innovative, tese verso futuri miglioramenti (tratto caratteristico del concetto stesso di “sinistra”), al cui posto trionfa un conservatorismo e ritorno al passato comunista da idealizzare, restaurare, recuperare e indicare alle nuove generazioni come meta da raggiungere. E questo è un atteggiamento tipico della destra ideologica, per restare nell’ambito della tipologia classica dei due habitus mentali. A quell’epoca, tranne pochi stolti, non c’era chi non vedesse – come la storia ha ampiamente dimostrato con il crollo dei vari muri (quello di Berlino, purtroppo, è caduto sulla testa non di chi l’aveva eretto, ma di chi l’ha demolito) – che le cose non andavano affatto bene, ma trionfava l’atteggiamento comodo denunciato da Giorgio Bocca dopo il suo primo e unico viaggio nell’URSS negli anni ‘70 (“ma quanto è bello il socialismo sulle spalle altrui”). Il dissidente in patria di allora e, peggio ancora, il profugo, anche se ideologicamente di sinistra, veniva quindi tacciato da “traditore" e immediatamente emarginato (“se non sei con noi, sei contro di noi”). Ancor prima, e molto più di Solženicyn (a cui la sinistra occidentale – per la quale ancor oggi gulag e foibe sono tabù – riservò una fredda accoglienza) fu il movimento di contestazione giovanile del ’68, che per primo osò assumere un atteggiamento critico anche contro i dogmi della sinistra classica, e a risvegliare sensibilità e un po’ di buon senso in Occidente. Dico “un po’ ”, perché ancor oggi tutto viene considerato lecito se solo in qualche modo contro l’Occidente in generale e gli USA in particolare (si era contro Saddam quando combatteva contro gli ayatollah komeinisti, appoggiato dagli USA, mentre si era con Saddam nel ‘91 e lo si è ora, cioè quando viene combattuto dall’America). La sinistra europea rimane implacabilmente pro Saddam, pro Yasser, pro Jihad, apertissima ai misogini e omofobici talebani…, a chiunque purché sia antioccidentale e, particolarmente, antiamericano. Come nei paesi socialisti all’epoca in cui ogni discorso ufficiale cominciava con la famigerata frase: “Compagni e compagne, oggi, quando il mondo è diviso in due campi…” e da un giorno all’altro sparivano dalle enciclopedie e dai manuali di storia profili di grossi personaggi arcinoti al mondo intero, così anche oggi, intellettuali italiani o stranieri cadono immediatamente nel dimenticatoio anche per una sola frase non del tutto ortodossa: la scrittrice Susanna Tamaro, le cui opere sono state tradotte in 37 lingue, alle soglie del 2000 scomparve improvvisamente dai giornali e dalle riviste di sinistra (ma quali e quante sono quelle di destra?) all’indomani di una sua dichiarazione sulla creazione letteraria e l’appartenenza ideologica all’area comunista. Non penserebbe E-Leonardo di aprire un forum su: “che cosa è la destra, che cosa è la sinistra?”, o ci affidiamo ancora alla definizione di Giorgio Gaber nella ormai immortale canzonetta con i suoi spiritosissimi esempi: “i boxer sono di destra, gli slip di sinistra, la vasca è di destra, la doccia è di sinistra”...

            Io, personalmente, mi considero abbastanza fortunato perché sono capitato tra comunisti che cercavano ancora di ragionare, ma, soprattutto, perché ho messo subito in chiaro, attraverso interviste su RAI3, da sempre in mano alla sinistra militante, e su riviste letterarie, la verità. Citerei a titolo esemplificativo il mio saggio comparso su “Città di Vita”, Firenze, 1968, La letteratura bulgara (leggi di ogni paese dell’est) e il “realismo socialista” 1944-1968. Con dovizia di citazioni ho dimostrato l’orrore intellettuale e politico in cui si dibatteva il mondo degli intellettuali in quei paesi e, soprattutto, come tutto ciò era scomodo e faceva perdere credibilità anche alla stessa sinistra europea.

            Sono diventato una specie di “intoccabile”, grazie anche alla mia attività scientifica e mi sono assicurato una posizione di privilegio rispetto ad altri nella mia stessa posizione, e appoggiato da forze politiche di ogni tendenza.

            L.A.: Lo scrittore francese Raymond Queneau, mentre sta commentando una ricerca linguistica, fa la sorprendente osservazione che il legame tra la madrelingua e le origini nazionali può essere anche molto debole: “Au recensement de 1925, dix mille habitants de la Lettonie se déclarèrent de nationalité polonaise tout en indiquant la langue russe comme langue maternelle; quant aux Arméniens bilingues de Turquie, ils préfèrent entendre la messe en turc. D’autres exemples encore permettent à Albert Dauzat de montrer comment la langue n’implique ni la nationalité, ni la race, ni la religion”. Quali sono i rapporti del linguista poliglotta bulgaro Katerin Katerinov, specialista nell’insegnamento dell’italiano nel mondo, con le proprie radici linguistiche ed etniche? E insomma, in quale lingua si fa Lei i sogni la notte?

            K.K.: Quella del rapporto con le radici linguistiche ed etniche da parte di un individuo membro di una società (effettivo, vero, o forzato in caso di dominio straniero o di mancanza di uno stato corrispondente alla madrelingua) è una questione vecchia quanto il mondo. Per quanto poi le vicende politiche e storiche possano mutarne le caratteristiche, citerei, oltre ai casi degli ebrei, degli italoamericani, italoaustraliani, ecc., uno più recente: gli ucraini e la lingua russa. Prima del 1989 il russo era, nonostante l’esistenza dell’ucraino, la lingua madre (L 1) nonché la lingua ufficiale degli ucraini, e la stragrande maggioranza di questi (che in presente hanno un’età che va dai 25-30 anni in su) ancor oggi si identifica in esso. Con la prima fase dell’indebolimento dell’Unione Sovietica e con l’impulso dato alle lingue minoritarie nazionali nelle ex-repubbliche sovietiche, l’ucraino è diventato la lingua ufficiale. Il ruolo del russo, che si studiava a scuola ormai come lingua seconda (L 2), dopo il referendum con cui l’Ucraina diventa Stato indipendente, decretando la fine dell’Unione Sovietica, si è trasformato ulteriormente: prima L 1, poi L 2 e, infine, addirittura lingua straniera, cioè appartenente a un popolo che vive oltre i confini dello Stato ucraino. Siamo davanti al paradosso che vede oggi il cittadino ucraino della seconda e terza generazione che pensa, si esprime, sia parlando che scrivendo, meglio in una lingua straniera: il russo. E tutto ciò è dovuto a fattori che esulano dalla sua volontà, e affondano le loro radici nelle vicende storico-politiche. Per queste ragioni è comprensibile la condotta dei lettoni, se un certo tipo di scolarizzazione ha imposto loro il russo come lingua di cultura, relegando il lettone al ruolo di dialetto. Un caso analogo è quello degli italiani, per decenni costretti a esprimersi in italiano (L 2), mentre quella che era la loro vera lingua materna, cioè il rispettivo dialetto, veniva relegata al ruolo di lingua di comunicazione tra parenti e amici. Però, gli italiani, avendo sentito la Santa Messa solo in latino, o in italiano dal Concilio Vaticano II in poi, avrebbero preferito o preferirebbero sentirla in una di queste due lingue nel caso di emigrazione, mentre nel caso dei loro figli scolarizzati all’estero, la preferenza andrebbe per la lingua del paese di immigrazione. Gli armeni di cui si parla nella ricerca citata avevano avuto a scuola come lingua base il turco, ed è comprensibile, quindi, la loro preferenza per quella lingua nell’ambito di un discorso culturale e non di semplice comunicazione quotidiana interpersonale.

            Per quanto concerne l’individuo, ai fattori sopra ricordati se ne aggiungono molti altri strettamente legati a vicissitudini personali. Molti degli italiani laureati all’estero, al loro ritorno in patria, continuano per lunghi periodi a leggere e scrivere in ambito professionale nella lingua in cui si sono laureati. Può succedere, come al sottoscritto, da una vita dedito esclusivamente ai problemi connessi all’insegnamento della lingua e della cultura italiana all’estero, se lontano dal contesto naturale della propria lingua, di dimenticarla. Uso il termine dimenticare in modo improprio, per indicare piuttosto la progressiva erosione delle abilità e delle abitudini linguistiche nell’usare la lingua con appropriatezza sociolinguistica quando non la si usa attivamente per un certo periodo di tempo.

            Attualmente, oltre alle problematiche legate al multilinguismo e al multiculturalismo, alla linguistica informatica applicata all’insegnamento-apprendimento di una lingua, mi occupo anche di comunicazione, e posso qui anticipare subito la mia posizione: con lo spostamento del focus dall’emittente al ricevente – chiave di volta dell’intera problematica – assume centralità la figura dell’apprendente, il cui processo di apprendimento di una lingua segue un percorso individuale che lo porta ad acquisire non solo i saperi, ma anche i saper fare, cioè una competenza d’azione nella L 2.

"...la vita era un Eden" 
[Tamara Katerinov e suo figlio]

            Per rendere possibile tutto ciò si dovranno rendere espliciti i meccanismi della comunicazione proponendo situazioni in cui l’utente è chiamato a interagire osservando le regole sociolinguistiche che rispettano i parlanti nativi. Dovrà apparire chiaro qual è il luogo fisico in cui si realizza l'evento comunicativo (DOVE), qual è il rapporto di ruolo fra i partecipanti (CHI parla A CHI) , qual è lo scopo per cui si dice qualcosa (PERCHE'), quali sono gli atti comunicativi che vengono compiuti per raggiungere un determinato scopo (COME), qual è l'atteggiamento psicologico che determina gli atti comunicativi degli interlocutori (rabbia, ironia, disponibilità); qual è il canale attraverso cui si realizza l’evento comunicativo, quali sono le norme sociali che regolano i turni di parola nel corso di una conversazione e come venga tollerato o sanzionato fino a interrompere chi sta parlando. Più sinteticamente, in ogni situazione in cui viene calato, l’utente dovrà poter cogliere i seguenti elementi. Quando si dice o, meglio, si sta per dire qualcosa, bisogna considerare

 

            Nel mio campo (in senso lato: la metodologia dell’insegnamento delle lingue seconde: la glottodidattica), la peggiore disgrazia che possa capitare (e capita!) a chi si occupa dell’insegnamento di una lingua seconda è di non conoscere né scientificamente né, tanto meno, di dominare come strumento di comunicazione (saper fare con la lingua) almeno una lingua straniera.

            Anche il sogno (ultima parte della domanda) è pur sempre una comunicazione immaginaria, che non può non sottostare a queste norme. Se, per esempio, sogno mia nonna e momenti della mia infanzia, non sognerò certo in italiano, e nemmeno in bulgaro, bensì in quel dialetto in cui si esprimeva unicamente lei (neanche mia madre che appartiene alla generazione successiva). Se ripercorro una conversazione con mia moglie o mia figlia (quest’ultima costituisce un altro paradosso: figlia di un bulgaro, con il cognome bulgaro in -ov, con cittadinanza, se volesse, anche bulgara, ma che non sa una parola di bulgaro) non posso certo farlo in una lingua diversa da quella usata in famiglia, cioè l’italiano standard. Anche i monologhi, a meno che non riguardino specificamente la mia infanzia, non li posso svolgere che in italiano. Certi concetti e certe esperienze di vita sono indissolubilmente legati a questa o a quell’altra lingua – il “relativismo linguistico” (ipotesi Sapir-Whorf ). Anche il vostro Eminescu si poneva molto sul serio il problema se siamo noi a dominare la lingua, o se, viceversa, è quest’ultima a dominare noi e la nostra visione del mondo, con confessata predilezione per quest’ultima ipotesi.

            L.A.: Un po’ per scherzo, un po’ sul serio, mi permetterei di notare che nella Sua famiglia sono radicati entrambi gli aspetti della dicotomia espressa da Eminescu: il professor Katerinov è dominato dalle successive lingue della sua vita, mentre la giovane Katerinov non si fa dominare dalla lingua bulgara. Sembra che il problema filosofico rimanga aperto e sia impossibile trovare una soluzione unilaterale.

            Nelle Sue spiegazioni trovo però lo spunto per una nuova tensione all’orizzonte del pensiero linguistico. Da una parte, secondo le Sue parole, le nostre esperienze di vita sono legate a una certa lingua. Da un’altra parte, le tendenze politiche e macroeconomiche del mondo di oggi vanno verso una sintesi globale. L’Unione Europea è alla soglia di una grandiosa estensione. Il recupero dei Paesi trascurati per 50 anni sotto il dominio comunista, nel centro e nell’Est europeo, impone dei concetti come l’avvicinamento, l’armonizzazione, l’accordo. Il bene comune, lo sviluppo e il progresso esigono da noi di superare tanti dei nostri tratti specifici. La lingua però ci ricorda in modo implacabile la nostra specificità. La madrelingua potrebbe mai rappresentare un ostacolo al progresso? Sarà il poliglottismo l’unica soluzione per il futuro, per ragioni non solo pragmatiche, ma anche filosofico-ideologiche? E un’altra domanda, per niente innocente: Le piace l’inglese?…

"...mia figlia 
costituisce un paradosso..."

            K.K.: Mettiamo un po’ di ordine, in quanto la domanda richiede più risposte. Le nostre esperienze di vita sono legate a una certa lingua? In primo luogo: non a una certa lingua, ma alla lingua in cui ci siamo realizzati come persone, la quale – anche se raramente – può non coincidere con quella materna. Poi: ogni singola esperienza, in caso di multilinguismo e multiculturalismo, può essere legata a una lingua diversa, come nel caso mio, mentre in quello di mia figlia che “non si fa dominare dalla lingua bulgara” viene evidenziato quanto detto in precedenza, e cioè: in questa lingua, come in giapponese o in cinese, lei non ha avuto nessuna esperienza di comunicazione interpersonale e sociale.

            L’Europa Unita, anche nei sogni dei Padri fondatori, si è sempre orientata verso un’unità politica ed economica ma è rimasta rigorosamente rispettosa delle diversità linguistico-culturali. De Gaulle parlava dell’ “Europa delle Patrie”. Ma se lo immagina Lei, proprio De Gaulle!, pronunciare un discorso ufficiale in inglese?

            E’ un principio fondamentale quello delle peculiarità culturali di ogni Paese-membro, cui non solo viene fatto obbligo di rendere oggetto di studio le lingue di tutti gli altri Paesi europei, ma viene anche riconosciuto il diritto di promuovere la propria lingua e cultura attraverso le Istituzioni scolastiche in ogni Paese europeo. E’ in questo quadro che io svolgo il mio ruolo di capoprogetto per l’italiano nell’ambito del Progetto Socrates-Lingua del Consiglio d’Europa, finalizzato alla realizzazione di sussidi didattici da utilizzare nelle scuole dei Paesi comunitari. Non credo, perciò, che ora – e sottolineo ora – ci siano da questo punto di vista dei preconcetti nei confronti dei nuovi né dei futuri Paesi membri dell’UE. E qualora ce ne fossero, va ricordato a qualcuno che questi Paesi europei oggi sono arretrati perché 60-70 anni fa furono invasi da un altro grande Paese europeo, la Germania, poi liberato dagli alleati, tra cui altri due grandi Paesi europei, la Francia e l’Inghilterra, e successivamente da questi e dagli USA letteralmente svenduti e abbandonati al terrore rosso di Stalin. Questi hanno assistito passivamente ai loro drammatici tentativi di liberazione, tra cui citato quelli più clamorosi dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, mentre la sinistra europea, tranne poche eccezioni di tessere restituite al partito con la “P” maiuscola, era tutta schierata, ora apertamente ora silenziosamente, con la repressione rossa. Tra gli attivisti di sinistra di allora alcuni oggi sono dei Ministri con compiti specifici all’interno della dirigenza europea. Due di loro si sono opposti alla Polonia che pochi giorni fa, a nome dei paesi “trascurati”, come li chiama Lei, aveva avanzato la richiesta di avere gli stessi diritti di voto politico degli altri Paesi dell’Unione (non diciamo quelli economici: per quelli vada pure l’ “Europa a due velocità”) fra l’altro già sanciti da precedenti accordi. Per fortuna è stato individuato il responsabile, cioè colui che, in qualità di Presidente di turno, non è riuscito a convincere spagnoli e polacchi a non pretendere di contare quanto gli altri Grandi Paesi all’interno dell’Unione: Silvio Berlusconi. Piove: Governo ladro!

            Quello che colpisce un visitatore straniero in Canada è che alla domanda: “Lei di che nazionalità è?” nessuno risponde “sono canadese”, bensì “sono giapponese”, “sono italiano”, “sono francese”… ecc. Questo principio è valido anche per l’Unione Europea che non pretende di avere un unico volto, ma di rappresentare un giardino con tanti fiori. L’antico sogno-utopia di una lingua comune per tutti è tramontato sul nascere, proprio in virtù dell’assioma: ogni lingua è indissolubilmente legata a una sola cultura (civiltà). Do un esempio paradossale: se, per uscire dal tunnel della Torre di Babele in cui ci troviamo, provassimo a scegliere l’esperanto come lingua del mondo e ciò ci venisse imposto dal potente di turno, dopo nemmeno un anno avremmo un esperanto romeno, un esperanto francese, un esperanto italiano, uno napoletano, magari con relative tastiere (provi a vedere quante ce ne sono solo per il tedesco e per l’inglese per i computer e per le macchine da scrivere).

            Dato che l’UE si regge sul principio della libera circolazione delle persone e delle idee, con l’obbligo dello studio dell’inglese sin dalla prima elementare e di altre due lingue subito dopo, saremo tutti dei poliglotti forzati, il che non sarebbe poi tanto male. Ma da qui a una eventuale perdita di identità culturale ci corre. Quindi, la lingua materna non solo non viene vista oggi in Europa come “ostacolo al progresso” da “superare”, ma, anzi, come un immenso tesoro da conservare gelosamente, insieme a tutti gli altri monumenti delle specifiche culture.

            Quanto all’ultima parte della domanda se mi piace l’inglese, devo dire che ho salutato con sincera gioia l’introduzione dello studio dell’inglese e del computer sin dalla prima elementare da quest’anno a scuola. Senza queste due componenti del sapere oggi non si va da nessuna parte. L’inglese non è “una” lingua, è la lingua.

            Personalmente ho sempre avuto una particolare predilezione per le lingue cosiddette “minori”. Per fare un esempio: non solo ho studiato dei singoli dialetti come fossero lingue, ma anche due varianti della stessa lingua come il portoghese.

            Molti anni fa, studiando alla Casa da Cultura brasiliana a Roma, ho conseguito un diploma in portugués brasileiro, lingua in cui ancor oggi posso sostenere una qualche conversazione. Per l’inglese, purtroppo, non posso dire lo stesso. Ne ho iniziato, interrotto e ripreso più volte lo studio, ma mi è mancata la costanza necessaria per acquisire una buona competenza comunicativa (per favore, non lo dica a nessuno!).

            L.A.: Le difficoltà di approvare la costituzione della nuova Europa sono dovute, secondo me, a due progetti diversi che si scontrano e cercano di eliminarsi a vicenda: il modello democratico e quello aristocratico. Se il primo tende verso una certa uguaglianza e trasparenza delle relazioni tra i membri della collettività, il secondo promuove piuttosto la preminenza di alcuni sopra gli altri. In base a quali diritti? Saranno i grandi successi militari e politici? Non direi, perché la Francia di Pétain e la Germania di Hitler non sono proprio un punto glorioso della storia del Novecento. Saranno i grandi progressi economici contemporanei? Non direi neanche questo, perché la recessione che deve sopportare la Germania, sin dalla riunificazione con l’ex-D.D.R., oppure la crisi economica dell’epoca Chirac fanno pensare a ben altro. Sarà il superiore prestigio culturale? Non sembra nemmeno, perché sarebbe un grande ingenuo chi si permettesse di decretare la superiorità di Goethe o di Hugo, rispetto a Dante, Cervantes, Shakespeare o Mickiewicz. A quanto pare, il modello aristocratico rispecchia piuttosto le furbesche ambizioni di certi politici di oggi. Essere aristocratici dà sempre una bella immagine, a condizione che essa venga ammirata dalla parte del salotto e non da quella della cucina…

            Con la speranza che ci ritroveremo, fra qualche anno, in un’Europa pienamente democratica, costruita anche malgrado gli “aristocratici” di oggi, un’Europa in cui la lingua diversa sarà un diritto e non un privilegio, La ringrazio, Professore, per la Sua disponibilità a portare avanti questo interessante dialogo tra due punti estremi di romanità del nostro continente.