Laszlo Alexandru
TRE
INGIUSTIZIE DI GIOVANNI PAPINI
Sono un grande ammiratore
di Giovanni Papini. L’anno scorso quando sono andato in Italia per una borsa di
studio, dopo sei anni che non ci avevo più messo piede, invece di girare per le
strade con gli occhi spalancati mi sono entusiasmato a trovare finalmente in
biblioteca le sue Stroncature del
1916. Era copia unica, non si prestava a casa. Sono rimasto per giorni in sala
di lettura a leggermela con grandi risate di gioia. Sono andato poi in
copisteria e me la sono fatta fotocopiare quasi tutta - ma soprattutto le acide
pagine su Benedetto Croce (!). Poi ho preso in prestito il suo Sant’Agostino. Avevo già letto la
famosissima storia di Un uomo finito.
Avendo iniziato, per mio puro piacere, la traduzione in romeno di Dante vivo,
ho voluto trovarne una copia più recente in Italia: la mia, del 1933, è tutta ingiallita dal tempo.
Purtroppo tutte le librerie dove sono entrato mi potevano offrire soltanto edizioni più
recenti di Opere, che però non
includevano anche l’importante monografia su Dante. Al ritorno in patria ho dovuto
accontentarmi del mio povero libro invecchiato e ho ripreso il lavoro di traduzione.
Questo libro, Dante vivo (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina), l’avevo già
letto una volta qualche anno fa e mi aveva impressionato per la straordinaria
erudizione del suo autore. Io stesso un
appassionato ammiratore di Dante, conoscitore di tantissime particolarità sul
poeta e sulla sua opera, venivo comunque a scoprirne un sacco di altri dettagli
interessanti. Mi affascinava poi il tono impegnato, altamente polemico di
Papini, che non esitava a correggere, beffeggiare o perfino scagliare invettive
contro idee ed autori che non condivideva. Sin dall’inizio il saggista si era
proposto apertamente di dire la sua opinione senza ipocriti formalismi
beatificanti. La sua critica spietata prendeva in considerazione non soltanto
gli amici o i nemici del grande fiorentino, ma anche il poeta stesso. Guardavo
con piena ammirazione il suo coraggio.
*
Lo so benissimo, è stato già
scritto da altri: la lettura può essere molto diversa, secondo il nostro stato
d’animo, la nostra attenzione o la nostra predisposizione, la nostra cultura o
la nostra esperienza personale. Ma ho avuto anch’io la mia rivelazione,
riprendendo il libro di Papini su Dante. Superato lo scatto di entusiasmo
davanti agli argomenti dell’aspro polemista che - ripeto - mi aveva pienamente
convinto in prima lettura, ho cominciato a riflettere più profondamente sulle
sue dimostrazioni. Mi sono venuti i primi dubbi. Poi le prime riserve. E
successivamente le dissociazioni che si sono formulate in maniera sempre più
coerente. Vorrei mettere qui in luce tre punti di critica immeritata che Papini
fa a Dante, tre momenti in cui il fiorentino del Novecento commette ingiustizia,
per eccesso d’amore, contro il fiorentino del Duecento.
1. Una prima accusa -
pesantissima - esprime un dubbio sul senso cristiano del poeta. Papini insiste
sul fatto che Cristianesimo vuol dire pietà, amore, capacità di perdono e
compassione. Poi si stupisce - e non è il primo a farlo - dei numerosi brani di
violenza che si ritrovano nell’Inferno:
Dante che dà pedate ai teschi dei peccatori inficcati nel ghiaccio, che si
rifiuta di aprire gli occhi coperti di lacrime congelate, ma soprattutto Dante
come attore di una scena grottesca - il confronto con Filippo Argenti (VIII,
52-63). Il critico Papini cita con ribrezzo:
“E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa
broda,
prima che noi
uscissimo del lago.»
Ed elli a
me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu
sarai sazio:
di tal disio converrà
che tu goda.»
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le
fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e
ne ringrazio.
Tutti
gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in
se medesmo si volvea co’ denti.”
L’autore rimane stupefatto davanti a
questa scena, commentandola con toni duri: “E qui, mi dispiace per Dante, siamo
proprio in piena negazione del Cristianesimo; negazione sacrilega, per giunta,
ché si vorrebbe renderne quasi partecipe Dio stesso. Dio è giustizia ma non
crudeltà, Filippo Argenti è punito dei suoi peccati e la sua punizione non avrà
mai fine: com’è possibile mai che un poeta, un cristiano, cioè uno che dovrebbe
essere doppiamente cortese, possa provar gusto a veder crescere lo strazio di
colui che sta già soffrendo senza speranza? E quale paurosa audacia in quel lodare e ringraziare Dio - Colui che
s’incarnò come perdonatore - di avergli concesso un tale spettacolo!”.
Giovanni Papini mette in
dubbio, quindi, la sensibilità cristiana di Dante - anzi la contesta
addirittura - per la crudeltà di alcune vendette infernali e per l’assenza in
alcuni versi del tradizionale sentimento di pietas. In poche parole: Dante è crudele, dunque non è cristiano.
Questo rimprovero
dell’autore dimentica però stranamente la complessità del messaggio biblico,
che vuol dire non soltanto tolleranza, comprensione e spirito pacifico del
Figlio nel Nuovo Testamento, ma anche rabbia, ferocia e terribili vendette del
Padre nel Vecchio Testamento. La Santa Trinità ripaga sì con il suo amore il popolo
dei fedeli, ma anche punisce con severità tutti quelli che non le obbediscono o se ne
beffano!
Dante stesso evoca ad un
certo punto “colui che si vengiò con li
orsi” (Inf., XXVI, 34) - cioè il
profeta Eliseo. Ricordiamoci un po’ la storia del profeta, raccontata dalla
Bibbia. Preso in giro da alcuni ragazzetti, egli li maledisse e poco dopo due
orsi sbranarono quarantadue di questi bambini (2 Reg. II, 23-24)! La punizione
divina può superare talvolta tutto quello che ci aspettavamo.
Mentre Dante si fa guidare
nell’Inferno soprattutto secondo i
precetti duri del Vecchio Testamento - appunto perché ci era costretto dalle
esigenze artistiche - Papini lo sta rimproverando secondo i precetti mansueti
del Nuovo Testamento. L’inadeguatezza del giudizio critico è ovvia, e l’accusa
di tradimento dello spirito cristiano è un’enormità.
E poi che cosa vuol dire crudeltà di Dante, concetto intorno al
quale il nostro Papini sta costruendo un intero capitolo? Crudeltà dovrebbe
significare reazione eccessiva, priva di giustificazione. Ma Dante non è
veramente crudele quando tratta male
i peccatori dell’Inferno. Egli si avvale di un’alta giustificazione morale, di
origine divina, e ripaga alla pari i loro misfatti. Potremmo dire di lui che è
duro, che è violento, che è brutale. Ma non crudele. E’ Papini, tutto sommato,
quello che falsifica l’atteggiamento di Dante, perché non insiste sulle cause
dei gesti violenti, li considera di per sé, nel loro valore di effetto brutale,
per poterne dedurre la crudeltà del protagonista.
2. Una seconda accusa -
anche questa molto dura perché si riferisce proprio all’elemento centrale della
concezione dantesca - mette in dubbio il senso di giustizia del poeta. Vale la
pena di rifare il ragionamento papiniano, perché è molto spettacolare. Quanto
corretto nelle sue premesse, tanto sbagliato nelle conclusioni.
Il commentatore insiste
per giusta ragione sulle diverse reazioni del personaggio Dante nei confronti
dei diversi peccatori dell’Inferno. Mentre si commuove, piange e sviene davanti
ad alcuni, si arrabbia, grida e malmena altri. “Dinanzi alla pena di Francesca
c’è qualcosa di più che natural compassione, almeno a giudicar dagli effetti, ché
Dante sviene addirittura. Ed è altrettanto sproporzionata alla causa quanto la
ferocia verso Bocca degli Abati. Forse Dante compatisce ai peccati ch’egli
medesimo ha commesso o potrebbe commettere? Non sembra: ché ha pietà di Ciacco,
pur non essendo ingordo di cibi, e non ha nessuna pietà di Filippo Argenti,
rabbioso al par di lui. Non c’è, dunque, giusta misura nell’animo di Dante e al
sospetto di crudeltà si aggiunge quello, non meno grave, di malcerta
giustizia.”
Stupisce tantissimo
l’ultima frase di Papini, che sembra non avere nessun legame con il resto del
ragionamento. La conclusione non si lega alla dimostrazione. Come mai “malcerta
giustizia” in Dante, se egli punisce senza pietà qualcuno che - semmai... - gli
assomiglia nel peccato (il rabbioso Filippo Argenti) e invece compiange
qualcuno che non gli è simile (l’ingordo Ciacco)? Ma che cos’altro sarà la
giustizia, se non la capacità di oggettivarsi, di giudicare una situazione o
una persona in maniera fredda, imparziale, facendo a meno delle predisposizioni
personali del giudice? Quando Dante non favoreggia uno simile a se stesso, e
invece si intenerisce davanti a uno dissimile a se stesso, egli si dimostra
anzi un eccellente giudice, degno di tutta la nostra ammirazione!
Ma veniamo anche al primo
esempio fatto da Papini: perché mai si permette il personaggio Dante di sentire
pietà per Francesca e invece odio e furia per Bocca degli Abati? Potremmo
trovare un’altra ipotesi, invece dei capricci personali del poeta. Dovremmo
tenere presente la collocazione diversa dei due: Francesca nel IIo Cerchio, tra
gli infedeli d’amore, Bocca nel IXo Cerchio, tra i traditori. Si sa benissimo
che più si scende nell’Inferno e più sono gravi i peccati e le loro punizioni.
Con la sua reazione così diversa, Dante avrà voluto insistere sulla diversità di
condizione, sulle differenze di gravità del peccato: un essere meno colpevole
lo si può anche compiangere, ma un grande peccatore può ispirare soltanto
rabbia e disgusto. Ecco un nuovo segno di correttissimo giudizio, fatto di
importanti sfumature. Tutt’altro che “malcerta giustizia”!
Eventualmente si potrebbe
discutere perché gli infedeli d’amore dovessero essere meno colpevoli dei
traditori stessi, poiché si tratta sempre di una specie di tradimento... Ma
questo varrebbe a dire rimettere in questione l’intera gerarchia
teologico-filosofica delle punizioni e delle ricompense nella Divina Commedia. Quello che Papini non
intende fare. E neppure io.
3. Un’altra prova -
secondo Papini - “che in Dante non v’è, sempre, una piena e sempre vigile
aderenza all’insegnamento di Gesù è il giudizio ch’egli dà, nel Convivio, dei fanciulli”. Infatti
conosciamo benissimo l’atteggiamento amorevole e delicato del Redentore, che si
spiega con le sue famose parole: “Lasciate che i fanciulli vengano a me, e non
vogliate loro vietarlo, perché il regno di Dio è per quelli che a loro
assomigliano. In verità, vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come un
fanciullo, non c’entrerà”. Invece in Dante - come nota Papini - dovremmo
intravedere un giudizio piuttosto negativo nei confronti dei bambini, che sono
ricordati in maniera spregiativa: “La maggiore parte de li uomini vivono
secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli (...). Tosto sono vaghi
e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di lievi dilettazioni e
tristizie, tosto amici e tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli, senza uso
di ragione.”
La conclusione acerba di
Giovanni Papini sembra, a prima vista, adatta alla realtà della situazione:
“Secondo Gesù somigliare ai fanciulli è, per l’uomo, una superiorità; secondo
Dante un’inferiorità. Gesù afferma che solo coloro che si faranno simili ai
pargoli saranno capaci d’entrare nel Regno dei Cieli (cioè alla massima
perfezione che l’uomo può riconquistare). Dante, invece, parla della
similitudine coi fanciulli come d’una minorazione, d’una imperfezione, d’una
infelicità”.
Si
tratta però anche in questa circostanza di una falsa contraddizione. I punti di
riferimento delle due situazioni sono del tutto diversi. Gesù parla di bambini
dal punto di vista spirituale; sta facendo un elogio della loro innocenza
morale. Dante invece parla di bambini dal punto di vista razionale; ne sta
notando l’immaturità dell’intelletto.
Gesù dà un giudizio di
tipo morale, dottrinale. Dante esprime un giudizio di tipo intellettuale,
filosofico. I due campi sono ben distinti; confonderli significa
fare uno sbaglio di logica. Dare il
bicchiere d’acqua al superstite che torna dal deserto è un segno di profonda
umanità. Darlo al superstite di un naufragio sul mare è un cinismo. Lo
stesso gesto, lo stesso giudizio di valore, si devono includere nel contesto
adatto. Lodare il carattere ingenuo, da bambino, di una persona vuol dire
ammirarla. Lodare l’intelligenza ingenua,
da bambino, della stessa persona vuol dire prenderla in giro.
Aggiungiamo subito che
quando invece Dante si riferisce dal punto di vista morale ai bambini e alla
loro innocenza di carattere, non c’è assolutamente nessuna divergenza tra la
sua posizione e la lettera del Vangelo. Tocca a Beatrice esprimerlo senza mezzi
termini (Parad., XXVII, 127-128):
“Fede e innocenza son reperte
solo ne’ parvoletti...”
Il giudizio essenzialmente
positivo di Dante sui “parvoletti” che rappresentano la fede e l’innocenza è
del tutto evidente.
“Era tempo!” esclama con
indulgenza Giovanni Papini alla fine della sua dimostrazione, citando le parole
di Beatrice e ammettendo di malavoglia l’atteggiamento di Dante come una specie
di tarda conversione. Ma non è la falsa indulgenza che ci vuole nell’analisi
logica. Bensì la corretta identificazione delle analogie e la giusta
inclusione dei termini nei propri punti di riferimento.
Se nel caso precedente,
parlando della “malcerta giustizia” di Dante, l’autore era partito - come
abbiamo già visto - da premesse corrette per arrivare a conclusioni sbagliate,
questa volta invece, al contrario, lo stesso Papini sta usando premesse
sbagliate per farsi convincere, alla fine, da giuste conclusioni.
Abbiamo qui un’altra prova
di virtuosismo del pensiero. Non so se mi sia concesso adattare una famosa
battuta al nostro caso: è preferibile sbagliare con Papini invece che avere
ragione con un dantista di professione. Dichiaro comunque apertamente che
risento un grandissimo piacere a seguire le strade sorprendenti di una mente
audace anche nelle sue ingiustizie.
(2002)
[1] Leggendo in manoscritto questo saggio, la collega Manuela Vasconi mi suggerisce una cosa molto interessante. Il tradimento erotico di Francesca avviene sotto l'impero dei sensi. Invece il tradimento in battaglia di Bocca degli Abati è il risultato della premeditazione. Secondo Dante il peccato che commettiamo spinti dalla passione sarebbe meno grave di quello commesso in modo deliberato, con l'aiuto della ragione!